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prolungavano per delle ore nel salottino terreno, accanto alla sedia di paglia e al guancialino dei conigli, che l’irosa vecchia scagliava sotto al tavolo.

Al disopra degli occhiali, che cadevano spesso dal suo naso diritto, gli occhi della Tatta nerissimi e lampeggianti, accompagnavano con occhiate terribili la concitata parola. Resa un po’ curva dagli anni, si rizzava nei momenti di collera, e la scarna persona dalla pelle olivastra prendeva ancora delle pose di sfida.

Così Daria si avvezzava alle battaglie, così la sua candida tenerezza di fanciulla andava d’anno in anno vestendosi di una corazza più salda. La Tatta non lo avrebbe detto mai, nemmeno a metterla alla tortura, ma essa amava Daria come una sua figliuola; in lei sola vedeva la speranza della famiglia Regaldi.

In un piovoso dopo pranzo d’aprile — erano già quattro anni da che suo cugino era morto — Daria stava seduta sul divano bigio ascoltando le storie, che la Tutta raccontava, del suo paese; poichè Pomponesco, il suo paese, lo teneva sempre fitto nel cuore, e non succedeva niente intorno a lei, cui non trovasse riscontro in Pomponesco. Questo paese i suoi nipoti non lo avevano mai visto, ma potevano vantarsi di conoscerlo per-