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molto astuto, gesuita nato, non si spiegava mai interamente — era la bestia nera della Tatta, che faceva su di lui i più orribili pronostici.
Nessun filo visibile legava insieme questi quattro membri di casa Regaldi; essi vivevano in una vita autonoma; riuniti solo e apparentemente, dal quotidiano desinare, a cui la Tatta presiedeva arcigna, lasciando i bocconi migliori ai suoi nipoti, ma lagnandosi che mangiassero a ufo, rodendo il patrimonio.
La famiglia era stata ricca, una volta; vestigia dell’antico splendore si trovavano ancora in certi mobili intagliati a fregi di metallo di squisito lavoro; in cornici pesanti arabescate, che cingevano i ritratti a olio degli antenati o le vecchie specchiere col fondo di mercurio giuntate nel mezzo. Ma via via che i bei mobili artistici deperivano, venivano sostituiti con roba moderna, a buon mercato — e così accanto a uno stipo del seicento, tutto intarsi e arabeschi, si rizzava contro il muro un meschino divanuccio di legno d’abete coperto di filugello bigio; accanto a quel divano la sedia ascetica della Tatta, di legno e di paglia, accoglieva per una singolare concessione fatta a Daria un guancialino ricamato a punto in croce, con due bei conigli bianchi nel mezzo e tutto intorno delle ciliegie rosse scarlatte. Da-