III

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II IV

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III.

Dall’altra parte della roggia, nella casa bianca, si udivano dei gemiti strazianti.

La Tatta affrettò il passo e trovando la porta aperta salì nelle camere superiori, dove Matilde correndo intorno come una pazza si abbandonava alle manifestazioni del più violento dolore. Era con lei la donna di servizio, che tentava inutilmente di calmarla.

Le missioni delicate non erano il forte della Tatta; lo mostrò subito fermandosi nel mezzo della camera, non trovando una parola da dire a quell’anima sconsolata.

— Ha sentito eh, povera donna! — esclamò la domestica. E allora, su questo appiglio la Tatta chiese:

— Ma come è stata?

— Mah!.... Da un pezzo non si sentiva bene, [p. 36 modifica]però non si aspettava una fine così improvvisa. Bisogna proprio dire, che fosse il suo momento.

— E questa povera ragazza?

— La vede? — non fa altro che piangere. Si calmi, via signorina, sua madre è in paradiso, alla fine.

— Sì, è in paradiso — confermò la Tatta, con un accento dove trapelava a sua insaputa la poca fede che aveva in questa consolazione.

— Oh! sono orfana.

Queste parole uscirono finalmente dalle labbra della fanciulla che portò agli occhi una pezzuola di fina batista ornata di trine e tornò a singhiozzare lasciandosi cadere sopra una sedia.

La Tatta era veramente sulle spine; occorreva lì per lì una parola dolce, un atto soave, ma nemmeno a rovesciarsi il cuore sulla mano ella non l’avrebbe trovata. Strinse allora i pugni e se li appoggiò sul fianco. Fu ancora la domestica che parlò:

— Quale notte ci aspetta!

— Appunto. Io sono venuta per prendere questa ragazza...

— Oh! fa un’opera buona; qui non la può reggere. Il signor Ippolito non vuol muoversi dalla camera — si sa, gli uomini sono meno sensibili.

Le parole: il signor Ippolito: erano state [p. 37 modifica]accompagnate da un gesto, che indicava un uscio socchiuso. La Tatta guardò quell’uscio, che il vento faceva gemere tristamente e dalla cui fessura usciva un pallido bagliore.

— Venga con me; non può star qui tutta la notte a piangere, nevvero? Venga a casa mia; siamo buoni vicini e mia nipote, che è della sua età, le terrà un po’ di compagnia. Non è la prima volta, che mi capita una cosa simile; anche la Giulia della Motta di sopra, quando le morì il padre, stette per otto giorni con me — io allora ero ancora a Pomponesco.

Nessuno le chiese chi fosse la Giulia della Motta di sopra.

Matilde piegando e ripiegando la pezzuola, alzava al cielo le braccia, sul candore delle quali spiccavano due bracialettini di conterie di Venezia — e rispose:

— Io non so più quello che mi faccia.

La Tatta credette bene di avvicinarsele e prendendola per la vita con una certa bruscheria benevola, piena di buone intenzioni, l’obbligò ad alzarsi.

In quel momento si spalancò l’uscio e subito si sentì una raffica impetuosa, che entrava insieme alla pioggia per i vetri lasciati aperti nella camera della morta. [p. 38 modifica]

— Ippolito! gridò la fanciulla.

Un giovine vestito di nero si affacciò, restando ritto sulla soglia, cogli occhi asciutti, colla fronte spazzata dal vento, che gli sollevava i capelli mettendo in piena luce un volto freddo, coperto sulle labbra e sul mento da una lanuggine bionda.

— Ippolito! Ippolito mio!

C’era una stonatura fra le parole e l’accento; la Tatta che non aveva certo imparata sui libri la fisiologia del cuore umano, ma che la capiva per istinto, l’avvertì subito e piegò il labbro ad un sorriso sardonico.

Il giovine non si mosse e non disse nulla; ricambiò automaticamente l’abbraccio della sorella, che, staccatasi da lui, corse verso la Tatta, decisa questa volta a seguirla.

La domestica le accompagnò giù della scala col lume in mano, vacillante ad ogni soffio di vento.

— Misericordia che brutta notte!

Matilde sulla soglia pensò che aveva dimenticato il fazzolettino. Rifece la scala e andò a prendere la sua pezzuola, tremando un poco, guardando paurosamente l’uscio della camera, dove stava la madre morta, senza avere il coraggio di entrare a darle l’ultimo bacio.

— Metta il cappuccio, signorina! — gridò la serva stando abbasso. — È un tempo da lupi. [p. 39 modifica]

Matilde andò a prendere anche il cappuccio e passando davanti ad uno specchio restò atterrita dal cerchio rosso delle sue occhiaie. Bagnò in fretta la pezzuola con un po’ d’acqua di Colonia, e premendosela sulle tempie scese a raggiungere la Tatta che l’aspettava in corte sotto un diluvio d’acqua.

La serva dopo avere accompagnato le due donne, chiuse ben bene la porta e risalì, freddolosa, affannata, disposta tuttavia a tener compagnia al signor Ippolito nella guardia del cadavere.

Ma il signor Ippolito la mandò a letto dichiarando di voler vegliare da solo.

E solo rimase — assolutamente solo nella camera aperta al vento ed alla pioggia, senza accorgersi nè dell’uno, nè dell’altra — impassibile.

In piedi, leggermente appoggiato alla sponda del letto, teneva lo sguardo fisso sul lenzuolo che copriva il volto della madre. Un dolore acuto e concentrato rendeva ancora più fredda la sua fisionomia, togliendole l’unica bellezza che natura gli avesse dato, quella di un sorriso incantevole.

Così serio e meditabondo, il suo profilo aveva una linea dura, e l’occhio piccolo, profondo ne accresceva la rigidezza.

Questo giovine poco simpatico, poco espansivo, poco amato, aveva trascorso l’adolescenza in [p. 40 modifica]modo diverso dagli altri suoi compagni. Schivo d’amicizia, ombroso, nemico del chiasso e dei divertimenti, portato più alle delicate ebbrezze dello spirito che ai piaceri materiali, viveva ritirato nella compagnia di una madre ammirabile, che lo comprendeva e che era bastata fino allora a riempire il suo cuore.

Una educazione elevata, tutta intima, squisitamente femminile, forse un po’ ristretta, gli aveva conservato ad onta dei suoi venticinque anni, una purezza di pensiero e di linguaggio, che lo isolava dalla rozza e scostumata gioventù del paese.

Le sue forze d’uomo, concentrate tutte nell’intelligenza, si erano logorate in una lotta continua e sproporzionata dell’ideale col reale; egli si sentiva vecchio — scettico no, ma scoraggiato.

Davanti al cadavere della sola persona che lo avesse amato, della sola che conosceva ogni riposto suo pensiero, e per la quale egli aveva sollevato la fredda barriera del suo cuore; davanti a quella madre adorata e perduta per sempre, egli non trovava una lagrima. Avrebbe voluto morire — ma un obbligo sacro lo teneva legato alla terra. Egli era il solo protettore dell’orfana; aveva giurato di non abbandonarla mai.

E però nella veglia di quella triste notte, [p. 41 modifica]avvicinato per la prima volta al mistero della morte, posto fra un passato irrevocabile e un malinconico avvenire, Ippolito meditò a lungo, dando al suo dolore la forma di un estremo colloquio colla madre.

Egli si rivide piccino in una stanza allegra, piena di fiori, in mezzo ai balocchi, sotto lo sguardo amorosamente vigile di quella donna, che dopo avergli dato il suo sangue e il suo latte, gli veniva infondendo con una soave trasfusione d’amore, tutte le ricchezze del suo cuore e della sua intelligenza.

Mille ricordi teneri, gentili, lieti, severi, tutti cari, gli si affacciavano alla mente con un dolce tumulto, simile al rumore di una folla che si allontana — e le memorie recenti più vive, più calde, lo mordevano al cuore con un rimpianto straziante — mentre intorno a lui il vuoto si faceva buio, spaventoso, e la sua giovinezza atterrata, priva di forze, si accasciava sulle illusioni svanite.

Egli ripensò le sventure, i dissesti di famiglia, le grette quistioni di interesse, tutte le brutte, le prosaiche realtà, che si erano sovrapposte ai sogni della sua anima così nobile e così pura, che lo avevano distolto dai suoi studi prediletti — che avevano disseccate in lui le sorgenti della [p. 42 modifica]gioia e cambiato il suo cuore ardente in un sepolcro di fredde ceneri.

Morto all'amore e all’ambizione della gloria, egli non vedeva oramai che uno scopo nella vita — il dovere. Ai dolci sogni non poteva credere più perchè il più dolce fra essi era svanito, e nessuna voce di donna avrebbe mai accarezzato il suo orecchio nei fidi colloqui della sera; non avrebbe più sentito quella fronte appoggiarsi sulla sua spalla, e non più, non più quei cari occhi amorosi avrebbero scrutato in silenzio i suoi segreti pensieri. Chi poteva amarlo?

Povero, senza attrattive, gracile, serio, malinconico, riservato, quale fanciulla gli avrebbe dato il suo cuore? — il suo cuore egli lo seppelliva sotto il lenzuolo funebre che avvolgeva la madre. Questa idea si impossessò di lui così vivamente, che cadde in ginocchio e nascose la faccia nel medesimo guanciale dove riposava la morta.

Forse pianse; forse, in quel supremo amplesso di due esseri che si erano tanto amati, colui che sopravviveva raccolse un sospiro ancora. Certamente si rialzò più fermo, più sicuro. Fece qualche passo verso la finestra e spinse lo sguardo nell’umida oscurità della notte.

Pioveva sempre; non si distingueva, nè il borgo, nè la roggia, che pur era vicinissima, ma al [p. 43 modifica]di là della roggia, la vecchia casa dei Regaldi mostrava il suo profilo nero, illuminato dal piccolo bagliore, che usciva da una delle finestre.

Ippolito restò per molto tempo assorto nei suoi pensieri, coll'occhio fisso su quel punto luminoso, esaltandosi in un’estasi di dolore acuto e sublime, che lo rapiva oltre i confini della terra. Sì, egli ora si sentiva forte, aveva il coraggio di rinunciare alle seduzioni della fantasia e del cuore, per gettarsi nella dura lotta quotidiana, che è il retaggio del povero. Egli avrebbe vissuto senza gioie, senza amore, senza gloria, facendo semplicemente e umilmente il suo dovere.

E guardava davanti a sè nel fondo buio, dove cielo e fango si confondevano insieme, dove solo brillava con un fascino strano quel piccolo raggio di luce. Stese le braccia, rigide, come uomo che fa uno sforzo supremo e mormorò a fior di labbra: qualunque cosa avvenga, sarò sempre degno di te, madre mia!

Più tardi la pioggia cessò; un’alba grigia venne lentamente a disegnare i confini del borgo affogato nella mota; la Regaldina torbida aveva preso un brutto aspetto d’acqua sudicia. Insieme ai primi rumori del borgo che si destava, Ippolito udì i rintocchi della campana, e quasi subito [p. 44 modifica]due uomini salirono le scale per preparare il feretro.

Ippolito non permise a nessuno di toccare il cadavere; si incaricò lui stesso di deporre la morta sul guanciale coperto di fiori; le accomodò il lenzuolo attorno ai piedi, nè l’abbandonò finchè l’ultimo chiodo fu conficcato nella bara. Allora una debolezza improvvisa lo colse; si sentì mancare le gambe e credette di svenire; ma riprese presto il suo impero, e fattosi sulla soglia, stette in piedi, immobile, finchè tutto il corteggio fu passato.

Le donnicciuole accorse per il funerale se lo additavano susurrando:

— To’, non piange nemmeno. Avremmo creduto che l’amasse di più la madre sua.