La Marfisa bizzarra/Canto II

Canto II

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Canto I Canto III
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CANTO SECONDO.


ARGOMENTO.


     La riformata bizzarria dirassi,
il costume e lo stato di Marfisa.
La circostanza e dissensione udrassi
della famiglia di Rugger di Risa;
di Filinor guascone i strani passi,
gli scrocchi e il vizio, il qual l’acconcia in guisa
che parte di Guascogna derelitto
verso Parigi a procurarsi il vitto.

1
     Io mi son dilettato alquanto in vero
il critico arruffato immaginando,
ch’avendo udito l’altro canto intero,
vada con questo e quello investigando
co’ disprezzi al tal verso, al tal pensiero,
fanciulli e donne e librai guadagnando;
e sopra tutto parmi di sentire
le parole seguenti udirlo dire:
2
     — Chi è questo poeta sconosciuto
ch’esce alla stampa, e il vezzeggiar sublime
di noi famosi, a gran prezzo venduto,
morde si franco e deride ed opprime?
che stile è il suo da popolo minuto?
Hassi a far conto alcun delle sue rime,
poste in confronto a’ nostri gravi temi,
alle canzon pindariche, a* poemi?

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3
     Che gran faccenda a noi grandi saria
Io scriver, com’ei fa, da scorreggiate,
se la nostra spettabil fantasia
volessimo abbassare a sue favate? —
Dal detto al fatto è troppo mala via,
pedante; non convien far le bravate.
Prendi la penna e scrivi al paragone,
e lascia poi decider le persone.
4
     So quanto costa a me lo scriver puro,
non so, pedante, delle tue fatiche;
ma convien certo, e non ti paia duro,
due parolette in astratto io ti diche.
— Marmo, calcina e tempo vale un muro,
sapone ed acqua voglion le vesciche.
Sin ch’io canto Marfisa, t’assottiglia:
scrivi qualch’opra che mi sia di briglia. —
5
     Marfisa era un cervello suscettibile;
però, i romanzi antichi avendo letti,
come sapete, era prima terribile,
e dormia co’ stivali e i braccialetti;
e quanto piú la cosa era impossibile
nelle battaglie e piú forti gli obietti,
come il Boiardo e l’Ariosto narra,
era piú furiosa e piú bizzarra.
6
     Ma poiché furon cambiate le cose
e i nuovi romanzi usciti fuori,
attentamente a leggerli si pose
ed impresse il cervel d’altri colori;
e cercò .solo avventure amorose,
sendo bizzarra ancor, ma negli amori,
e d’altre sorti bizzarrie facea,
come scrive Turpin che lo sapea.

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7
     Come ognun sa, Ruggero suo fratello
sposata avea la bella Bradamante,
la qual rimodernato avea il cervello
e non è piú guerriera né giostrante;
ma pensa alla famiglia e fa duello
col fattor, col castaido e colla fante,
e riflettendo all’avvenire e a’ figli,
tutta all’economia par che s’appigli.
8
     Chi l’avesse veduta alla cucina
a g^dar che s’abbrucian troppe legna,
e l’avesse veduta alla cantina
come alla botte scemata si sdegna,
e a levarsi per tempo la mattina,
l’avria creduta un’economa degna,
che venti chiavi in saccoccia portava
e la minestra e l’olio misurava.
9
     Non dimandar se i drappi alla rugiada
di san Giovanni fa porre la notte,
perché qualche tignuola non gli rada,
e se fa dar lor spesso delle bòtte,
e se fa chiuder l’uscio della strada
per i ladroni, e se le calze rotte
sa rattoppare e racconciar le maglie,
e voler da’ villan polli e rigaglie.
10
     Scrive Turpin di quella tuttavia
ch’ell’era attenta massaia e perfetta,
ma che in secreto questa economia
era di maliziosa formichetta,
e che a se stessa facea cortesia,
nascosta avendo piú d’una cassetta
di be’ zecchini, e di quelli il marito
né avea ragione né sapeva il sito.

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11
     Rugger la vedea sempre in gran pensiero
per il risparmio, onde non bada a questo;
sol perch’egli era alfin pur cavaliere,
parecchie volte si mostra rubesto,
dicendo: — Moglie, a ragionar sincero,
alcun de’ vostri fatti m’è molesto,
e farete le mani aspre e callose,
che v’avvilite troppo in certe cose. —
12
     Quest’era per Rugger poca sciagura
a petto quella che gli dá Marfisa,
la qual va rovesciando ogni misura
pe’ suoi capricci, e spende in una guisa
da far venire a Creso la paura;
e compra e vende, e il fratel non avvisa,
e cambia fogge e vestiti ogni giorno;
sembra il mercato ov’ella fa soggiorno.
13
     Oggi faceva legar diamanti,
diman non gli voleva piú a quel modo;
lega, rilega, spendea piú contanti
in legature che nel valor sodo;
ch’or gli voleva balle, ora brillanti,
ora in nastro, ora in fiore ed ora in nodo.
Gli artier mascagni laudano ogn’idea,
giurando che piú d’essi ne sapea.
14
     Sarti, mercai, ’calzolai per le scale
andavan suso e giuso a tutte l’ore,
e conveniva loro metter l’ale
per non provar di Marfisa il furore.
Chi merletti, chi drappo o cosa tale,
chi vesti seco porta e dentro e fuore,
e chi polizze vecchie non pagate;
poi va via con le gote rigonfiate.

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15
     I parrucchier ch’acconcia van la testa
non è da dir se facea disperare:
oggi i capelli corti volea questa,
doman gli volea lunghi accomodare.
AH’impossibil menava tempesta,
minaccia il parrucchier di bastonare;
se qualche scusa il misero allegava,
con la granata via lo discacciava.
16
     Bestemmiando com’una luterana:
— Non vo’ nessuno mi perda il rispetto, —
grida per casa, e sfoga la mattana
dando alle serve uno, schiaffo, un puzzetto.
Mai non si vide una dama si strana.
Se avea la febbre, non istava a letto;
se stava ben, diceva esser inferma
e volea star sotto le coltre ferma.
17
     Ai medici, che andavano a trovarla
e le dicevan: — Non avete nulla, —
gridava: — Andate via, dottor da ciarla;
voi capireste al polso una maciulla,
e forse anche sapreste medicarla. —
Infin dall’aspra bizzarra fanciulla,
se il mal che non avea non confessavano,
un orinai nel ceffo guadagnavano.
18
     Ma sopra tutto eli ’era stravagante
giuocando alla bassetta al tavoliere,
dove, per vie di dir, metteva su un fante
quanti danar si ritrovava avere;
poscia mandava il parolo e piú inante;
perduti quelli, si facea tenere
in sulla fede, e perdea quanto mai;
s’io tei dico, lettor, noi crederai.

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19
     Poi disperatamente andava a casa,
e non avendo danar nello scrigno,
va rovistando masserizie e vasa,
argenti e gioie, con il viso arcigno.
Di cuffie e merli fa la cassa rasa
per far dei pegni, ovver con qualche ordigno
va guastando le toppe del fratello,
e soldi invola e gemme e drappi a quello.
20
     Infine non istá mai cheta un’ora,
fuor che quando i romanzi suoi novelli
legge con attenzione ed assapora,
ch’era associata alla stampa di quelli;
tal che sempre il cervello piú svapora.
Que’ fatti che leggea le parean belli,
ed era partigiana imbestialita
della nuova dottrina fuor uscita.
21
     Or vorrebb’esser stata ballerina,
or cantatrice divenir vorria,
or commediante ed ora contadina,
or zingara e pel mondo fuggir via,
per donar argomento alla dottrina
che fiorire in quel tempo si vedia,
e lasciar la memoria assai famosa
di sé per qualche libro alla franciosa.
22
     E con gli amanti, che n’aveva cento,
sopra a’ romanzi va sottilizzando
e discorrendo e lodando il talento
di Marco e di Matteo di quando in quando.
Gli amanti d’essa avevano spavento
e cercan contentarla ragionando,
e sol fra loro facevan schermaglia,
perch’eran molti bracchi ad una quaglia.

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23
     E il numer sempre si facea maggiore,
perché Marfisa tra gli altri pensieri
aveva quel di rubar l’amadore
a tutte l’altre dame volentieri;
e quanto all’arte di far all’amore,
non sia chi meglio saper farlo speri,
perocché, quanto a questo, ella è decisa:
non verrá al mondo una pari a Marfisa.
24
     E benché dal Boiardo fu descritta
moretta alquanto e bella oltremisura,
io l’ho veduta su un quadro pitta
e la trovai differente in figura.
Occhio avea grande, d’imbusto diritta
era, e non alta molto di statura,
e pochissima carne avea sull’ossa,
la chioma bionda, anzi potrei dir rossa.
25
     Molte altre cose ancor le ho ricavate
in certi versi del poeta Marco,
il qual facea composizion sfoggiate
per que’ che Amore avea presi con l’arco,
e guadagnava almen per le insalate
da qualche amante nello spender parco.
Basta, tra il quadro e quella descrizione,
posso dar di Marfisa opinione.
26
     Niente è vero ch’ella fosse bruna,
anzi era bianca e un po’ lentiginosa;
nel seno non avea molta fortuna,
ma fu in accomodarlo artifiziosa;
la bocca a fare un ghignetto opportuna,
la guardatura or dolce or dispettosa;
le braccia, indi le mani alquanto asciutte,
ma co’ brillanti non parevan brutte.

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27
     Infin, per quanto potei rilevare,
non si può dir Marfisa fosse bella.
Giudico ben ch’ella sapesse fare,
o fosse nata sotto alcuna stella
da far i maschi tutti sospirare.
Forse la bizzarria della donzella,
le stravaganze e fierezze eran strali,
ch’io n’ho veduti mille esempi tali.
28
     Chi dirá di Rugger la penitenza,
avendo una sorella come questa,
che si potea chiamar la violenza,
prodiga in una forma disonesta;
ed una moglie, ch’era l’astinenza,
che in tutto pel rovescio avea la testa,
sendo la casa sua sempre in litigi
e il tema delle lingue di Parigi.
29
     Non c’era giorno che fra le cognate
passasse senza rimproveri e grida:
Rugger le ha mille volte separate,
perché l’una con l’altra non s’uccida.
Talor non mangia a mezzo, e le ha la.sciate
a mensa in man del ciel che le divida,
e poi la notte dalla moglie avea
tormenti che portar non gli potea.
30
     La suora avea tentato maritarla
pria con Leon, figliuol di" Costantino
imperator, ed egli di sposarla
avea promesso, e il nodo era vicino,
e come sposo andava a visitarla;
ma scoprendo ogni giorno il cervellino
e i bizzarri costumi della moda,
pensò lasciarla alfin maggese e soda.

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31
     E perché il patto era ito innanzi molto
e discior noi potea senza disnore,
risolto avendo di non esser còlto
marito d’una ch’avea troppo core,
si finse un tratto divenuto stolto
e di cader di furore in furore.
Cinqu’anni ebbe la flemma a fare il matto,
tanto che alfin fu lacero il contratto.
32
     Di ciò Mar fisa non ne dá un pistacchio;
bastale aver di serventi un codazzo,
e alla bassetta scaricare il bacchio,
e non le manchi di romanzi un mazzo,
e il cambiar fogge e il cappello e il pennacchio,
e il poter a suo modo far rombazzo.
Rugger s’affanna a troncar la sciagura,
e trova un altro sposo e fa scrittura.
33
     Ed era questa scritta col figliuolo
di Desiderio, re de’ longobardi.
Gan da Pontier manda un suo messo a volo
secretamente a dirgli che si guardi,
ch’avea Marfisa d’amanti uno stuolo,
e che si pentirebbe o tosto o tardi.
Quel principe non bada a questa cosa,
né vuol rompere il patto della sposa.
34
     Gan che veder voleva un’altra scena,
perché nimico è di Rugger mortale,
fa dire alla fanciulla ad una cena,
alla qual era un di di carnevale,
che suo fratello alla mazza la mena
per servir Bradamante, e che quel tale
non era a sua persona convenevole,
sendo in man d’un norcino e cagionevole.

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35
     Non è da dir se Marfisa s’accese
a questa nuova, fosse falsa o vera.
Va predicando per tutto il paese
due gran tristi, Rugger e la mogliera;
e scrive al cavalier com’ella intese
alcun’accuse, e faccia una bandiera
della scritta nuziale, o ad una rocca
un cartoccino, o si netti la bocca.
36
     Rugger fu quasi per scoppiar di rabbia.
Don Guottibuossi, prete suo di casa,
fé’tutto acciò Marfisa si riabbia,
ma quella serpe non fu persuasa.
Or qui non so come a narrare io v’abbia
della scrittura che a pezzi è rimasa.
Turpin ha scritto: «Ella fu lacerata
dal longobardo e addietro rimandata».
37
     Altri han cercato oscurar la faccenda,
e forse per onor del buon Ruggero
scrivono in altro modo una leggenda,
che a lacerarla egli fosse il primiero.
Comunque fosse, e’ basta che s’intenda
ch’ebbe l’intento Ganellone intero,
e che per questo caso Rugger ebbe
un disonor che dir non si potrebbe.
38
     Anche Marfisa non avea vantaggio
ed era screditata nella fama.
L’opre bizzarre e varie ed il coraggio
e il vivere alla moda della dama
venia chiamato in francese linguaggio
ciò che «pazzia» nell’Italia si chiama, -•
e dell’etá non era tanto fresca
da seguir con fortuna la sua tresca.

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39
     In queste circostanze dolorose
è la magion del gran Rugger di Risa.
Ma mi convien ordinar l’altre cose
e lasciar cheta un pocolin Marfisa.
Or udirete le imprese famose
di Filinoro, e fatti d’altra guisa,
e come venne a Carlo di Guascogna,
perocché ordir la tela pur bisogna.
40
     Filinor di Guascogna un giovanetto
era nobil di stirpe e bello assai.
Passava presso a molti uom d’intelletto,
nelle conversazion non tacca mai;
parca ch’ogni materia avesse letto.
Io so, lettor, che te ne stupirai
s’era stimato dotto, e non so come,
si può dir che scrivea male il suo nome.
41
     Aveva una si gran ritenitiva
che, quando un sapiente ragionava,
nella memoria tutto ciò che udiva,
come uccellino al vischio, gli restava;
donde se il caso in acconcio veniva,
tutto quel che avea in capo vomitava,
co’ termini e le frasi che sapea,
sicché un novello Salomon parca.
42
     Entrava franco a ragionar di storia,
e giudicava della poesia;
filosofo era, e voleva vittoria
in medicina ed in astronomia;
geografo, topografo, e a memoria
avea la Bibbia e la teologia;
nel militare e nella matematica
ragiona per teorica e per pratica.

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43
     Ma perché non avea fondo in dottrina,
né aver poteva buon discernimento,
s’era alla dritta, andava alla mancina,
e ragguazzava e usciva d’argomento.
Perché non gli mancasse la farina,
faceva cialde e ignocchi a suo talento:
vero è che dove fosse qualche dotto,
affettava modestia e stava chiotto.
44
     Ma in mezzo una brigata d’ignoranti,
che ne trovava a sua soddisfazione,
metteva nelle ceste tutti quanti,
ma n’usciva con gran riputazione.
Era solo in famiglia, e poco inanti
il padre suo, chiamato Guglielmone,
se n’era morto ed ito non so dove,
e lasciatolo ricco a tutte prove.
45
     Fra l’altre cose, per parer uom grande
faceva pompa d’esser miscredente,
scherzando sul digiun, sulle vivande
ed altre cose impertinentemente.
Ma poi tremava da tutte le bande
a un po’ di febbre, e allor divotamente
chiamava sant’Antonio e san Bastiano
e gli pregava umile a farlo sano.
46
     Era costui vizioso in generale,
e sendo il lusso alla moda e lo spendere,
poiché allo scrigno fece metter l’ale,
incominciò le possessioni a vendere;
e si ridusse in breve a caso tale
che nessun era che il sapesse intendere:
e al fin si diede a prendere a credenza,
che in ciò buona compagna ha l’eloquenza.

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47
     A ciii fer caso gli dava un saluto,
tosto chiedeva sei zecchini d’oro:
per la restituzion, fosse vissuto
quanto Nestorre, era vano il lavoro.
Non c’era uom che l’avesse conosciuto,
che non dovesse aver da Filinoro;
e sempre par che furberie ritrovi
per accoccarla e far debiti nuovi.
48
     Quando avea fatti debiti in cittade,
pe’ quali ad ogni passo avea la stretta,
diceva a tutti: — Io vo a vender le biade;
e se n’andava in una sua villetta
a infinocchiare i villan per le strade
con affittanze a buon mercato in fretta,
e beccava le rate anticipate
di ben venduti prima sei giornate.
49
     Poscia con un borsotto di ducati
alla citta ritornava di nuovo,
ed i piú sciocchi creditor pagati,
dicea: — Cosi l’operar mio vi provo. —
Ma non eran tre giorni ancor passati,
che due pulcin schizzavan da quest’uovo;
e quivi doppio il debito piantava,
foi nella faccia piú non gli guardava.
5
     Se avviluppar sapeva le ragioni,
quando nel fòro alcun lo fa citare,
ed interdire, e far le sospensioni
al messo che gli andava a pignorare,
e predicare i creditor bricconi,
ladri, usurai, non è da dimandare.
E dir che conosceva il suo dovere
e l’onore, e giurar da cavaliere!

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51
     E benché mille truffe fatte avesse
e disertati mille poveretti,
noi concedeva, e parmi ch’ei dicesse
che gli erano obbligati de’ farsetti.
E dicon gli scrittor che pretendesse
un nobil nato non abbia difetti,
e che a un uom d’arti inique e vizi pieno
fosse la nobiltá contravveleno.
52
     Donde intuonava quasi ogni momento
la somma antichitá del suo casato.
Credo e’ dicesse discendea dal vento
e d’aver sangue netto di bucato.
Ma si ridusse alfin in si gran stento,
che piú in Guascogna non era guardato,
e stava per morirsi dalla fame,
- e mal dormia, pisciando in un tegame.
53
     Mi piacque un caso che di lui si legge.
A un creditor, che gli era sempre a fianco,
disse un di: — Tu mi par di buona legge.
Io mi vo’ far di quel debito franco,
s’io ne dovessi andare a pezzi e in schegge,
perocché tu debb’esser molto stanco.
Io deggio darti que’ ducati mille,
che sento al cor per altrettante spille.
54
     Ho un capital che agli antenati miei
costò tremila scudi e piú qualcosa.
Io tei vo’ dare, e immaginar ti dèi
che m’esce dalle viscere tal cosa.
Sino a un grosso il di piú chieder potrei
d’investitura tanto preziosa.
Danne mille in aggiunta al mio dovere,
e ristrumento cedo in tuo potere. —

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55
     Il creditor col dito il cielo tocca,
e disse: — Io vo’ veder l’investitura. —
Filinor nelle mani gli raccocca
in una pergamena una scrittura.
Colui, leggendo pian, mena la bocca;
vide ch’egli era d’una sepoltura
un acquisto, che fecion gli antenati
di Filinoro, in chiesa a certi frati.
56
     Quel poveruom perde la pazienza:
come un castrato s’è messo a gridare.
Filinor diede mano all’eloquenza,
e seppe in modo tal ciaramellare,
e lo rimise tanto in coscienza,
e il fece cosí bene intabaccare,
che gli trasse di scudi piú di cento,
facendo la cession del monumento.
57
     I danari in bagasce ed in bassetta,
come s’usava allor, fecion le piume;
e Filinor in men ch’io non l’ho detta
rimase come prima in mendicume,
e va facendo a’ sozi di berretta
ed a’ parenti. Ma correa costume
in quell’etá, che parenti ed amici
non soccorrean di nulla gl’infelici.
58
     Dappoich’egli ebbe con la sua bellezza
a molte vecchie ricche e scostumate
succiata con infamia la ricchezza,
e piantate anche quelle disperate,
non sapea dove appiccar piú cavezza.
Molti dicevan ch’egli andasse frate:
tutta Guascogna stava in attenzione
che si fuggisse o n’andasse prigione.
e. Gozzi, La Marjisa biMMorra.
49
     

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59
     Egli avea de’ parenti di gran stima
e in gran riputazion per la Guascogna.
Questi: — Pagargli i debiti per prima
— avevan tra lor detto — non bisogna;
ma non convien la sbirraglia l’opprima,
che ne verrebbe a noi troppa vergogna. —
E con uffizi e secreti e trattati
teneano in soggezione i magistrati.
60
     Tal che pioveva a Filinoro addosso
de’ creditor la rabbia e le parole.
Il peso era venuto troppo grosso,
Filinor sofferirlo piú non puole;
donde una sera, dalla stizza mosso
ed invasato: — Medicar si vuole
— disse — co’ miei specifici ed unguenti
le direzion di questi buon parenti. —
61
     E se n’andò secretamente al duca,
narrò del parentado la malizia.
— Fatemi por da’ birri nella buca
— disse, — perch’abbia effetto la giustizia:
voi vederete, pria che il sol riluca,
comparir genti e danari e dovizia,
e fien pagati tutti i creditori,
ed io da mille angosce uscirò fuori. —
62
     Il duca fu per scoppiar dalle risa,
udendo l’acutezza di colui;
pur si trattenne, e vòlto in una guisa
che parve uscito da que’ luoghi bui:
— Com’hai si l’alma dal ben far divisa,
prostituito nobile; e da cui
avesti educazion si infame e vile,
cavalier da taverna e da porcile? —

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63
     Filinor non si scuote e non si move.
— Il mio costume — rispose — l’appresi
da’ cavalier delle commedie nuove
e da* conti di quelle e da ’marchesi.
Se furon disoneste le lor prove,
pur applaudire a gran furore intesi
le commedie, i caratteri e i poeti,
c’han premiati i miei pari e fatti lieti. —
64
     E tenta con gli scherzi il tristerello
la serietá del duca di recidere,
e va pur dietro a far del buffoncello
perché palesi l’interno col ridere;
e dice i fatti di questo e di quello,
e che tal visse ben ch’era da uccidere;
ma sopra tutto va rammemorando
le commedie d’allor di quando in quando.
65
     — Orsú — rispose il duca, — non è questa
una commedia, e poeta io non sono.
Andrai tra ferri non per la richiesta,
ma perché castigarti oggi fie buono. —
E poi, rivolto con molta tempesta
ed una voce che parve d’un tuono,
disse a’ ministri: — Costui fate porre
con le catene in fondo ad una torre. —
66
     Filinor volentieri andò in quel fondo
per liberarsi da’ creditor suoi.
Tosto la fama fece il ballo tondo:
í creditor l’hanno staggito poi;
ed i parenti pel rossor del mondo
a male in corpo diveniro eroi,
quetando i creditor con piegerie
e con danari, e i piú con le bugie.

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67
     Ma sopra tutto il duca era l’acerbo,
che volea castigar quel malvivente,
e rispondeva: — In carcere lo serbo:
vo’ dar esempio risolutamente. —
Que’ cavalier, che ognuno era superbo,
scoppiavan per vergogna della gente,
priegano e mandan preghi e dame e conti,
e non c’è caso a far che il duca smonti.
68
     Un di fu detto loro in un’orecchia:
— Volete voi che il duca si rimova?
E’ c’è una ballerina, volpe vecchia,
che dispone del duca ad ogni prova.
Ma per schizzare il mei da questa pecchia,
oro bisogna in una borsa nuova. —
Alfin s’ebbe la grazia con la borsa,
quantunque alcun autor tal cosa inforsa.
69
     Fatto sta che la borsa fu donata,
ma non si dice il duca avesse parte.
Il duca aveva i milion d’entrata,
la ballerina sol languori ed arte.
Sempre fu qualche lingua infradiciata
che ne’ racconti dal ver si diparte;
ma permetteva il costume d’allora
Filinor per la borsa uscisse fuora.
70
     Vero è che il duca lo lasciò con patto,
tempo sei gliomi, di Guascogna uscisse.
Filinor non è punto stupefatto,
e sue bazzicature in punto misse,
avendo da’ parenti in su quel fatto
poche monete con parecchie risse;
e dispose d’andarsene a Parigi
ad uccellar qualche incarco e luigi.

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71
     Era lungo il viaggio e i danar scarsi,
e disegnava andarvi con gran treno.
Un abito comincia apparecchiarsi,
di frangie e gallon falsi tutto pieno.
Aveva un cocchio di que’ dal tempo arsi,
ma per viaggio servia nondimeno.
Il nodo stava in non aver cavalli;
pur non si stanca e pensa comperalli.
72
     In sul mercato da certi villani
compri ha quattro cavai magri e vecchioni,
e non gli furon mantenuti sani,
perché avean tutte le maladizioni.
Eran bolsi, rappresi e storpi e strani,
andavan punzecchiati a saltelloni,
guardavano le stelle con bel vezzo,
con sospir si movean tutti d’un pezzo.
73
     Parean venuti dal mar della rena,
come vengon le mummie agli speziali;
avevano in su’ fianchi e in sulla schiena
piaghe d’un palmo, e sulle gambe mali
che non gli avrebbe guariti a gran pena
Galieno od Ippocrate o que’ tali,
non che alcun maniscalco co’ suoi bagni,
setoni, empiastri o rimedi compagni.
74
     Fatta la spesa de’ quattro corsieri,
la qual gli venne a star venti ducati,
comincia a rassettar due gran forzieri,
e sassi e legni dentro v’ha adattati,
perché non comparissero leggeri.
Sopra vi pose vestiti intarlati,
sei camicie da poca meraviglia
e in fine l’alber della sua famiglia.

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75
     Aveva preso uno staffier dappoco,
credo che fosse idropico un facchino,
ed un lacchè, che al correr valea poco,
ma a bestemmiar nessun gli andò vicino.
L’arme è il Vesuvio che getta gran foco,
la qual gli pose sopra il berrettino.
Ed inoltre avea preso un cavalcante
ed un cocchiere gobbo assai galante.
76
     Vesti que’ servi a livree corredate
di quell’argento ch’egli aveva indosso.
Basta, le cose tutte apparecchiate
non parean brutte, guardate allo ingrosso.
Le visite che fece e le abbracciate,
i complimenti e inchin dirvi non posso.
Ad un, che andava nell’Indie dicea,
ad un nel Cairo, ad un nella Guinea.
77
     Perocché Filinoro era si avvezzo
a dir, quando parlava, la bugia,
che della veritade avea ribrezzo,
e dicendone alcuna si pentia.
Solo ad un certo suo par da gran pezzo
il suo disegno palesato avia,
ed ottenute lettre di sua mano
di raccomandazione al conte Gano.
78
     Chi vide un burchio dalla riva sciolto
gire a seconda per un’acqua cheta
con due marinai soli, e’ hanno tolto
d’andare adagio con voga discreta;
pensi che tale o dissiniil non molto.
della carrozza da poca moneta
fosse, e l’andar del nostro Filinoro,
con quei rozzoni, i servi e il suo tesoro.

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79
     Urla mette il cocchiere e la scuriada
sempre ha sul dosso alle bestie deformi.
E il cavalcante non istava a bada;
batte all’orecchie, gridando: — Oh! tu dormi? —
E triema il cavai sotto a terra cada,
ed una gamba in rocchi gli trasformi.
Appariva il lacchè de’ piú gagliardi,
correndo innanzi ad animai si tardi.
So
Una testuggin, che il passo bilancia,
avanza anch’essa e non perde il coraggio.
Cosi va il cavalier verso la Francia,
e gran pezzo avea fatto del viaggio;
e pur chiedeva delle miglia, e ciancia
dove passava in cittade o villaggio,
e si fa grande, ed i servi rampogna.
Via dir tutto in due canti non bisogna.
FINE DEL CANTO SECONDO