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L'ala destra, dove si estendevano i granai e le serre, faceva capo alla chiesetta, insigne per un coro intagliato dal Brustolon.

Dietro alla villa, nel centro di una grande prateria, un'altra vecchia fontana, ma viva, fresca, zampillante, contornata da grandi vasi di limoni e di cedri; in fondo alla prateria il labirinto, dove nessuno più si avventurava, inutile e silente fra le alte siepi di bosso. Tutto aveva un'aria ordinata, rispettabile e vecchiotta.

La contessa Clemenza aspettava gli sposi sulla gradinata, col suo bel vestito di seta nera, uno sciallino sulle spalle e i guanti. Ella aveva preparato il suo più amabile sorriso, e, aspettando, offriva a Dio quell'attesa, il raffreddore incipiente, le Avemarie ripetute mentalmente all'infinito.

Dietro ai vetri del guardaroba Giovanna, la cameriera, curiosa ed ostile, aspettava anch'ella, e commentava fra sè l'arrivo improvviso.

Il conte Ademaro aveva decretato, e in questo si era mostrato gran signore, che la nuova sposa fosse accolta e trattata in casa come fosse stata «una dei loro».

Poichè l'avevano ritenuta degna di portare il loro nome, qualunque ne fosse il motivo, ella doveva essere rispettata e considerata come una figlia. Ad evitare malintesi e pettegolezzi, egli aveva persino preso la draconiana misura di licenziare tutta la vecchia servitù, tranne Giovanna, in vista dei suoi vent'anni di servizio e del suo attaccamento alla contessa Clemenza: tutti gli altri crano stati congedati e sostituiti.