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— Dov'è il contino? — chiese il dottore affrettandosi verso la gradinata.
— Dorme, il furfante, — rispose ruvidamente la vecchia donna, — e quando si sveglierà non si ricorderà magari più di nulla. E intanto gli altri!...
Nella penombra della stanza la culla tutta veli biancheggiava come un'enorme farfalla.
Il piccolo Ademaro giaceva fra le trine, sveglio, colla testina affondata nel guanciale, e gli occhi aperti, due occhietti un po' opachi, un po' torbidi, senza vivezza. Il labbro inferiore sporgeva un po', cadente, scoprendo due dentini. Una leggera peluria bionda si arricciava sulla testa, sbucava fuori dalla cuffietta guarnita di nastri celesti.
Tratto tratto il piccolo emetteva un lagno, fievole fievole, moveva languidamente le mani, e nulla era più penoso che l'aspetto di quella sofferenza che non aveva neppur la forza di piangere.
Dopo otto mesi di vita rigogliosa, quasi esuberante, dopo che il visetto era diventato roseo e tondo come una mela, dopo che due dentini erano apparsi ad abbellire la boccuccia, dopo che gli occhietti avevano imparato a riconscere gioiosamente la madre, un deperimento improvviso, un arresto, una debolezza inspiegabile, l'avevano abbattuto così in poche settimane.
Il dottor Fabrizi si avvicinò alla culla. Rosa era là, pallidissima, ma tranquilla. Il bimbo pochi istanti innanzi si era attaccato al petto,