Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/24

Una specie d'imbarazzo pesava su tutti.

Poi i fratelli s'incamminarono verso il paese, il padre entrò nella stalla, la piccola fu messa a dormire.

Rimasero sole, nel cortile, Rosa e la madre. C'era una panca, e la madre la spolverò col fazzoletto e accennò a Rosa di sedersi, poi sedette anch'ella, un po' discosto, in silenzio.

La casetta era là, dietro a loro, tacita e affumicata, vigilata dal gran pioppo. Il prato le si stendeva dinanzi, e in quel prato i meli erano carichi di frutta. La chioccia traversava il cortile con aria di importanza seguita dai suoi pulcini insonnoliti, il gattino nero si leccava la coda sull'uscio della cucina. Le prime lucciole apparivano e sparivano lungo le siepi.

— Perchè piangi, Rosa?

— Non so, madre.

Un telegramma da Napoli annunciò inaspettatamente il ritorno degli sposi quindici giorni prima del fissato.

Il conte Ademaro e il dottor Fabrizi andarono, con un tempo infame, ad attenderli alla stazione di Udine.

Entrambi cercavano d'interpretare, e commentavano, non senza una certa preoccupazione, il telegramma sibillino.

Il direttissimo da Roma era in ritardo.