Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
E il conte dava per primo esempio di deferenza verso la nuora, chiamandola sempre: «mia figlia» quando parlava dell'assente in presenza di terzi, e qualche volta anche: «la contessina», il che, bisogna dire a onor del vero, non riesciva mai a pronunciare ben chiaro senza trangugiar la saliva.
Le carrozze erano arrivate. Non pioveva più. L'arcobaleno tingeva dei sette colori il cielo fresco. Folco scendeva d'un balzo, colla spolverina svolazzante, e colle sue lunghe gambe d'un balzo saliva la gradinata.
— Mamma, mamma, siamo qui, ti conduco la sposa!
La sposa saliva composta e modesta a fianco del conte Ademaro, con un sorriso mite e timido sul bel viso improvvisamente divenuto di porpora. Giunta sul penultimo gradino, prese la mano della suocera e la portò alle labbra.
— No, no.... che fai?....Cara figlia....- disse la contessa Clemenza, e la baciò in fronte. Poi la guardò socchiudendo molto gli occhi.
Entrarono in sala. Comparve il cameriere col vassoio del caffè e i biscottini. Tutti sedettero nelle poltroncine che avevano ospitato nelle loro comode braccia quattro generazioni di Novelli-Casazzi. Altri Novelli-Casazzi, togati, incipriati, dai grandi orecchi sporgenti, guardavano, chiusi nelle vecchie cornici.
— Cara, — disse la contessa Clemenza rivolgendo la parola alla nuora, — vi siete divertiti a Roma?
— Abbastanza....