L'ombra del passato/Parte II/Capitolo V
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V.
Ma le considerazioni dei giovani di venti anni sono quasi sempre errate: e non è vero che l’albero selvatico fiorisce una volta sola.
Un altro anno era passato, col suo variopinto strascico di sogni, di noje, di speranze. Di ritorno dal suo primo anno d’Università pedagogica Adone, percorrendo l’argine da Casalmaggiore a Casalino, pensava:
— Anche durante queste vacanze voglio divertirmi. Darò qualche lezione, ma tempo me ne avanza sempre. Andrò a pescare: farò le recite. Così avrò l’utile e il dolce!
Appena arrivato cercò la zia, che stava male. Carissima lo seguì nella camera della Tognina, ed egli provò un senso di pietà e di ripugnanza nel veder la malata. I dolori artritici, mai curati, la corrodevano come l’umido corrode la pietra. Ella era diventata ancor più piccola, nera, rattrappita; sperduta come in un deserto, nel suo gran letto medioevale, pareva più che mai una mummia tirata fuori dal suo sacco preistorico.
— Zia! zia! — egli chiamò, curvandosi.
Ella lo guardò, con gli occhi pieni di angoscia: non lo aveva mai guardato così, ed egli ebbe l’impressione ch’ella volesse dirgli qualche cosa. Ma Carissima stava attenta, curva sull’altra sponda del letto, e d’altronde egli non aveva voglia di starsene a lungo in quella camera calda, ove si sentiva uno sgradevole odore di canfora e di conserve.
Tognina disse con voce rauca:
— Il male arriva qui, al cuore: è vicino. Le porte sono aperte.
— Le porte di che? Dell’eternità?
Egli non aveva voglia di pensare all’eternità.
— Fate, fate venire il medico, — disse, con rimprovero. — Chi non guarisce da questi mali, oramai?
E se ne andò nella sua cameraccia piena di polvere, convinto, come tutte le persone sane, che anche i malati più gravi possono guarire.
Persino la vecchia Suppèi era guarita: aveva vinto il nemico, non tossiva più, non si ricordava più della morte. Egli la trovò che litigava con la madre del povero Marco.
— Io son povera, ma la mia coscienza è pulita come la tela lavata! Io non ho tinte per tingermi l’anima! — gridava la vecchia, con la sua grossa voce, battendo i piedi per terra come una cavalla. Ma appena vide il giovane si calmò.
Al di là della siepe la moglie del tintore, ancora rossa e bella, borbottava qualche parola: vide anche lei Adone, lo fissò, lo riconobbe, ma non si commosse e neppure lo salutò.
Caterina apparve sulla porta: Adone gridò:
— Come sei grassa e alta! A momenti non arrivo più ad abbracciarti!
— Ti abbraccierò io! — ella rispose pronta.
E ricominciarono le risate, le chiacchiere, i racconti.
— IL tuo Davide s’è sposato, ed ha condotto la sposa a Casalino, per otto giorni, in primavera. Dicevi che era bella! È brutta: è nera, con una faccia lunga e due occhi cattivi. La Müton domanda ancora a tutti se son più belli i vestiti della sua sposa o quelli della marchesa! Anche Scipione l’ebreo s’è sposato: sai con chi? Con Regina la figlia di Belluss del casolare. Per quella lì, però, non s’è fatto cristiano! Ma lei lo avrebbe preso anche se fosse stato un turco!
— Si vede che egli aveva una gran passione per te!
— Eh, s’io volessi! Egli pianterebbe la sposa! — ella si vantò, calma.
Ella sembrava felice, d’una felicità serena, ma qualche volta fissava Adone con uno sguardo inquieto. Anche lei pareva volesse dirgli qualche cosa d’importante.
Egli la guardava con desiderio: a momenti però i suoi occhi voluttuosi si socchiudevano, tornavano ad essere gli occhi birichini del piccolo Adone.
— Indovina cosa ti ho portato!
— Eh, te lo avevo scritto! Volevo un altro ventaglio: quello, sai, s’è rotto!
Egli finse df’essersene dimenticato. Finalmente le diede una scatolina che ella cominciò a slegare rapidamente.
— Venite, venite a vedere, nonna!
La vecchia s’avvicinò, sdegnosa, certa che egli aveva sprecato ancora i soldi per comprare una minuteria.
— Che è questo? — gridò Caterina, guardando Adone con rimprovero e meraviglia.
E la vecchia si curvò e dentro la scatola vide i dieci marenghi che Caterina aveva consegnato al fidanzato prima della sua partenza.
Egli non li aveva neppure toccati: era vissuto col poco che la zia gli mandava di nascosto, e aveva pagato le tasse coi guadagni delle «recite in persona».
— Nonna? — interrogò Caterina, guardando la vecchia e indicandole i marenghi.
— Ebbene, viscere, accetta! Glieli regalerai ancora quando ripartirà!
— Ed egli me li regalerà quando tornera! — ella disse con ironia. — Era meglio il ventaglio! Denari ne avremo molti, se tu vorrai, — aggiunse guardando Adone con aria di mistero.
— Sì, ciappali per la cua! — egli rispose.
⁂
Caterina possedeva un segreto. Ma aspettava il momento opportuno per rivelarlo. Dopo i primi baci, nel silenzio della cameretta, ella disse cautamente, quasi paurosa di destare una troppa viva emozione nel suo amante:
— Devo dirti una cosa: molto bella! Sì, molto bella, — ripetè, poichè Adone le stringeva il braccio, interrogandola. — Senti: tu... tu-sei-ricco!
— Come? Come? È la seconda volta che mi dici questo! Perchè? — egli disse, curioso e incerto. E arrossì, nell’ombra: ricordi confusi, vaghi rimorsi gli attraversarono l’anima. Ma Caterina riprese:
— Senti bene. L’altro giorno Dirce, la moglie di Agostino, mi ha mandato a chiamare, segretamente: andai. La trovai scalza, coi capelli arruffati: pareva una furia. La sua casa era tutta in disordine: i bambini piangevano. Ella cominciò a lamentarsi con me contro la Tognina, contro Pirloccia e Carissima. Poi mi disse: «È tempo che parli io, poichè Agostino è uno stupido e non sa fare i propri interessi. Volevo aspettare Adone, ma ho paura che egli non mi dia retta: anche lui è troppo buono, è della famiglia dei tamerlucchi: Allora ho pensato di rivolgermi a te, Caterina: tu sei una ragazza di buona volontà, non hai paura e saprai fare i tuoi interessi». Poi mi disse che la Tognina ha fatto testamento. È vero che sa scrivere?
— Sì, è vero. Eppoi?
— Eppoi, ha fatto testamento, ma davanti al notajo. Lei lo ha solo firmato. Ha lasciato usufruttuario di tutti i suoi beni il Pirloccia: morto lui, la roba va divisa fra Marco, Fiorina e Fiorello. Ad Agostino ed a te niente. Ora, aggiunse la Dirce, i Pirloccia sorvegliano la Tognina come una prigioniera. Hanno paura che ella parli con te... Ma questo è niente, senti ancora. Io dissi: «Ma, cara mia, non abbiamo bisogno della roba di Tognina, noi! Adone non la molesterà». Allora Dirce mi fece giurare di non confidare a nessuno, tranne che a te, un segreto ch’ella voleva rivelarmi. E mi disse che tuo zio Giovanni aveva fatto testamento in tuo favore, lasciandoti erede universale, con l’obbligo di passare un tanto alla Tognina finchè ella viveva e di tenerla sempre con te. Ma Pirloccia, sapendo che la sorella conservava da molti anni un testamento di Giovanni, d’intesa con lei stracciò quello in tuo favore e che era l’ultimo. Dirce assicura che Agostino ha le prove di tutto ed è pronto a dartele; e aggiunsi che molti sanno questa storia, anche tua madre...
Adone ascoltava, stupito, e taceva.
— Che farai, ora? — ella domandò.
— Dirce è cattiva, — egli disse alfine. — È maligna! Può aver inventato questa storia, per vendicarsi, se è vero che Tognina ha fatto testamento in favore degli altri.
Allora Caterina, che aveva sperato <li sentirlo parlare in altro modo, s’inquietò.
— Senti una cosa! Tu non credi mai a nulla! E se fosse vero, invece? Tu devi parlare con Tognina, tu devi dirle: ma non vedete che state per morire, ma...
Egli la interruppe:
— Vedrò io quello che devo fare!
— Tu sei buono, tu! — ella riprese, eccitata. Dirce ha ragione...
— Caterina! — egli pregò. — Se ti domando un piacere me lo fai? Sì, sì, vero? Promettimi che non parlerai con nessuno di quest'affare, e che farai quanto ti dirò io. Promettimelo! Tu sai tenere un segreto, quando vuoi!
Queste parole la lusingarono.
— Sì, sì, — ella disse, baciandolo. — Tutto quello che vuoi. Non credere che io voglia la roba della Tognina! Ma è per te, vedi; solo per te... Ricordati come ti hanno tormentato: e tu... tu eri il padrone!
Egli trasalì, come se davvero la voce di Caterina — come egli qualche volta pensava, — fosse la voce della sua propria coscienza.
Gli parve di sognare, nell’oscurità della cameretta ove un giorno ella aveva nascosto l’abito di Marco. Mille ricordi gli passarono in mente, da prima confusi, poi sempre più distinti, allacciatisi gli uni con gli altri come gli anelli d’una lunga catena. E il ricordo che più lo colpì fu l’impressione strana provata nel vedere le monetine d’oro che la zia aveva cambiato» Caterina: per la stessa forza mnemonica che lo aveva avvertito che quelle monetine «eran sue» mille altri ricordi ora gli risalivano dalla profondità dell’incosciente, facendogli provare un malessere quasi fisico, uno stupore, un dolore sottile.
Mentre Caterina gli stringeva le mani fredde, umide di sudore, egli parlò a sbalzi, come in sogno.
— Dev’esser tutto vero! — disse. — Ricordo tutto, ora! A te lo posso dire; e tu sai tenere i segreti. Mio zio mi diceva sempre: tutto è tuo; ed anche la mia mamma doveva sapere qualche cosa. Il Pirloccia stava in camera dello zio, quando questo è morto. Ma io avevo paura, e non diedi ascolto ai consigli della mia mamma. Poi anche lei dovette aver paura; e non parlò più. E Pirloccia diventò il padrone. Sì, ebbi sempre l’impressione che la zia avesse un rimorso; anche oggi mi ha guardato in modo strano. E Davide parlò in segreto con lei, quando non volevano lasciarmi proseguir gli studi. Anche lui dunque sapeva!... Anche lui! La giustizia, l’onestà, la generosità non esistono più! Più nulla esiste! E questo che mi addolora, non altro. Anche lui, anche lui! Tutti sono stati ingiusti con me...
— Io però ti ho voluto sempre bene, — disse Caterina, stringendogli la mano.
— Tu sì; tu sola! — egli disse, passandosi la mano di lei sugli occhi.
— Dio, Dio! Che fai. Adone? Ma che fai, caro? Piangi? Ma perchè?...
Egli non rispose. Che poteva dirle? Come spiegarle il senso di buio e di vuoto che lo vinceva? Come spiegarle perchè, nel sapere che poteva diventar ricco, egli invece di rallegrarsene piangeva?
⁂
Egli rifece a lunghi passi la via tante volte percorsa, senza accorgersi che nella notte luminosa il grande paesaggio dormiva alla luna e pareva sorridere anche nel sonno. Egli non badava che al suo mondo interiore, e gli sembrava di fare un cupo sogno. Soffriva come la volta in cui Pirloccia l’aveva battuto mentre dormiva; e come allora avrebbe voluto urlare invocando dalle profondità ignote della vita l’apparizione di un fantasma, d’una luce, d’un segno qualsiasi che gl’indicasse la via verso un luogo di giustizia. La giustizia non esisteva più: egli aveva pianto per questo. Ma a misura che si avvicinava a casa gli pareva di svegliarsi dal suo brutto sogno e pensava:
— Forse tutto è falso. Parlerò con la zia, le dirò: Non m’importa della roba, zia: non voglio nulla. Ma ditemi che tutta questa storia è falsa; ditemi che non avete ingannato un morto; che al mondo non esiste tanta malvagità. Ditemi che Davide non ha partecipato a questo delitto. Non vi domando altro, zia!
Rientrò, si fermò un momento nell’atrio, rievocando i ricordi di una notte lontana.
Il lumino ardeva davanti alla nicchia di San Simone Giuda; nulla era mutato intorno. Egli rivide le figure che si agitavano nel l’atrio e nel cortile, taciturne e fosche come le figure d’un sogno lugubre: ricordò l’ometto nero che s’era installato accanto al letto del moribondo come uno gnomo funebre venuto dal mondo della morte per trafugare lo spirito del gigante. E ricominciò a dubitare.
Sali cauto la scaletta; gli pareva di rivivere in quella notte lontana. Arrivato al pianerottolo trasalì. Marco il gemello stava coricato su un materasso buttato per terra, davanti all’uscio della camera di Tognina. Mentre Adone passava egli si svegliò, sollevò la testa e disse con voce assonnata:
— La zia sta male...
Adone non rispose; ma pensò che il racconto di Caterina doveva esser vero.
I Pirloccia guardavano la zia come una prigioniera, senza dubbio per paura ch’ella si pentisse del mal fatto.
⁂
Egli dormì poco, quella notte; riandò ancora, col pensiero, negli anni passati, ricordò ogni cosa. Si rivide, bambino, seduto sulla piccola duna dell’isoletta, abbandonato da tutti, circondato dal mistero della solitudine. Sì, anche le lepri del bosco, anche le chioccioline dei cespugli, erano state meno sole di lui, nella vita. Un uomo gli era apparso, quella sera, e gli era sembrato un essere di giustizia, un protettore; ombra, illusione infantile! Nulla è vero nella vita: tutto è ombra, apparizione; e gli uomini rassomigliano tutti a quel bambino col fagotto, che aveva la smania di fuggire, sognando di arrivare in un luogo d’amore e di pace, e non riusciva che a giungere in una isoletta deserta o in un crocevia dove incontrava altri miserabili, altri fuggitivi come lui.
Egli si alzò all’alba, ma non tentò oltre di arrivare fino alla zia. Gli ripugnava l’idea di dover spiare, entrare da lei come da un prigioniero al quale si vuol strappare con astuzia un segreto.
D’altronde egli ora aveva la certezza ch’ella avrebbe mentito. Scese in cucina e trovò la zia Elena che accendeva il fuoco. Vedendolo pallido e con le palpebre gonfie, ella si turbò e gli domandò cosa aveva.
— Ma niente! Ho bevuto troppo, ieri notte! Andrò a passeggiare, ora. Chi c’è nel campo? Agostino?
— Agostino non lavora più qui, non lo sai?
Egli frugava di qua e di là, nella cucina, come da bambino.
— Non mi scrivono mai niente! — disse.
— Sì: Agostino è in rotta con suo padre, e questa volta sul serio. Non viene più a trovarci. E l’altra notizia la sai?
— Che c’è ancora?
— Fiorello pare che voglia proprio sposare tua sorella Eva. Anche Fiorina è ben cotta per Francesco, veh!
— Neppure questo, sapevo! — egli disse. — Ah, ma ora vado subito dalla mamma.
E s’avviò, come un tempo, verso la casetta dei suoi poveri fratelli; sì, come un tempo, quando egli correva dalla mamma per chiederle ragione dei torti che tutti gli facevano.
La mamma attingeva l’acqua dal pozzo: era sempre bella, fresca non più scalza e con un giubbettino nuovo. Sì, giorni migliori arrivavano anche per lei; e giorni più belli s’avvicinavano. Ella era stata fresca e serena anche nei giorni della miseria: perchè non doveva esserlo ora?
— Come stai bene! — disse, baciando Adone, senza abbracciarlo per non sfiorarlo con le man bagnate e sporche. — Sei arrivato ieri?
— Sì, ieri. Volevo venir subito, ma sono andato da Caterina e ho fatto tardi.
La mamma non protestò; non era gelosa lei; non si è gelosi quando non si ama troppo.
— Andiamo in cucina, — ella disse, — precedendolo con la secchia in mano. — I ragazzi son già via. Anche l’Eva è andata a comprare il latte. Reno lavora: ha comprato una piccola macchina per far la conserva dei pomidoro, e gira per i paesi. Ha tanto giudizio, quel ragazzo. E anche talento, veh! La macchina non andava molto bene; lui l’ha aggiustata, l’ha perfezionata, ha messo un imbuto più capace, ed ora va a meraviglia. È proprio bravo, tuo fratello! E dice che andrà in America.
— Son contento! — egli disse, entrando in cucina. Le pareti erano tinte di rosa e di celeste: in un bicchiere, sulla tavola di noce, odoravano alcuni gigli palustri, gialli e lucenti come l’oro. Adone guardò le pareti, guardò i fiori, e gli parve d’essere in un luogo sconosciuto. Che era venuto a fare? Che voleva? Era sua madre quella donna che s’avanzava con la secchia in mano, e parlava dei suoi figliuoli industri? Dov’erano questi fratelli? Pensavano a lui? No, certo: Francesco pensava a Fiorina, Eva pensava a Fiorello: i suoi fratelli facevano lega coi suoi nemici. Ed egli era un estraneo, forse un nemico, per loro: egli che aveva sognato d’essere il loro protettore. Ah, essi non avevano più bisogno di raccattare le sue briciole: essi avevano messo le ali e volavano più forte di lui. Anche sulle spalle del rachitico erano spuntate due alucce che lo avrebbero forse portato nei paesi della fortuna.
E Adone non sapeva se rallegrarsi o rattristarsi.
Che era venuto a fare? Ah. non ricordava più: ascoltava le chiacchiere della mamma, ma sentiva una vaga inquietudine, come quando si ascolta una persona che ha intenzione d’ingannarci.
— Mamma, — egli chiese a un tratto, — perchè non m’avete mai scritto che Eva e Francesco amoreggiano coi figli del Pirloccia? Eva sa scrivere, mi pare! Sono un nemico, io?
La mamma gli volse le spalle, intenta ad attaccare il pajuolino al gancio del camino. Certo, solo per questo; non per sfuggire allo sguardo di lui.
— Aspettavamo il tuo ritorno: sulla carta non si può dire tutto quello che si vuole.
Egli prese un fiore dal bicchiere e lo guardò a lungo, con uno sguardo pensoso e incosciente di bimbo. Ed ebbe una voglia istintiva di fuggire, di andarsene ancora fra le macchie della riva o nel scuticruolini verdi, come faceva da piccolo, quando si buttava per terra e aveva l’impressione che l’erba fosse la sua vera madre e i fiori i suoi veri fratellini.
— Mamma, — disse, con voce mutata. — vorrei sapere una cosa sola. Ma ditemi la verità. È vero che Davide del zolfanellajo sapeva che lo zio Giovanni aveva fatto testamento in mio favore?
La donna si sollevò, si volse, vivacemente, rossa in viso. Adone le si avvicinò e le afferrò una mano ancora umida.
— Mamma, vi giuro sulla memoria del babbo, non dirò niente, non farò niente! Se Fiorina e Fiorello si sposano con Francesco e con l’Eva è come se la roba tornasse a me. Sono contento lo stesso. Non sono cattivo, io, lo sapete! Vi ho dato mai nessun dispiacere, io? Mai. vero? Non voglio cominciare ora! Ma ditemi solo una cosa... ditemi se è vero... se è vero che voi sapevate tutto... e se è vero che anche Davide sapeva tutto. Fatemi questo piacere, mamma! Fatemelo! Non vi ho domandato mai niente, mamma! Fate questo, per me!
Ella ritirò dolcemente la sua dalla mano del figlio: se l’asciugò col grembiale, guardò il grembiale, s’avvicinò alla porta. Adone le andò dietro.
— Io non so niente, di sicuro, — ella disse, quasi sottovoce. — Chi sapeva tutto era il bifolco. Egli era un uomo religioso e forse non diceva bugie. Egli dunque diceva che un giorno, una domenica, Giovanni mandò a chiamare Davide, per fargli vedere il testamento e domandargli se andava bene. Davide andò subito. La Tognina non era in casa. Giovanni mandò il bifolco in cantina, ordinandogli di scegliere una bottiglia di vino vecchio: il bifolco invece, pieno di curiosità, si fermò dietro l’uscio e stette a spiare. «Giovanni, egli diceva, spiegò una carta e la fece leggere a Davide. Questo disse: Va tutto bene, ma bisogna nominare il tutore del ragazzo. E Giovanni rispose: Cat! Non voglio morire subito! Adone sarà grande, speriamo, quando erediterà i miei beni». Il bifolco raccontava così. Anche prima di morire, cinque anni or sono, egli mi assicurava che tutto era vero. Egli diceva che Giovanni non voleva lasciar nulla a Tognina perchè questa si sarebbe fatto mangiar tutto dal fratello. Che potevamo far noi, dimmi? Che dovevamo fare? Ricordi? Pirloccia voleva mettermi in prigione. Chi sa tutto, anche, è Jusfin. Egli era presente quando suo fratello raccontava il fatto. Va da Jusfin, Adone...
- Basta, basta! — egli disse.
E non andò da Jusfin. A che fare? Gli bastava quello che aveva sentito.
⁂
Nei giorni seguenti egli visse triste, come oppresso da un male fisico. Il caldo era soffocante: il cielo, grigiastro all’orizzonte, pareva una vôlta di metallo, e l’aria polverosa diventava irrespirabile. Adone provava un senso d’incubo: gli pareva d’essere improvvisamente invecchiato, vicino a morire, o a diventare cieco e paralitico, il che è peggio ancora!
E un giorno non potè resistere oltre: si rivolse a Davide come il malato al medico che detesta e nel quale tuttavia spera ancora. E in una lunga lettera gli raccontò tutta la sua storia.
«Ma non posso credere a tutto questo — aggiunse. — Non è vero niente. Mi dica lei che non è vero niente: mi dica una sola parola, e tornerò ad essere calmo, ed a guardare con fede nella vita. Ella mi conosce, vero? Sono un bambino; sono un vecchio. Ho tanto sofferto, sempre, ma ho accettato il dolore e l’ingiustizia come una condanna della sorte, ed ho afferrato quasi con gioia questi due anelli che mi congiungevano ad altri condannati, nella catena della vita. Ed ho sempre pensato che in questa catena di dolore sta appunto la nostra forza, di noi tutti umili, di noi tutti ancora schiavi che edifichiamo l’avvenire. Sì, io sono contento di aver sofferto, di aver conosciuto l’abbandono, l’ingiustizia, la povertà: e qualche volta ho allontanato da me la coppa del piacere, evitando di bere anche quando ero assetato, come i cavalieri delle fole, che non bevevano alle fontane incantate per non dimenticare chi erano e ciò che dovevano fare. Io voglio stare con coloro che soffrono; con tutti coloro che vendono dall’ombra del passato e vanno verso la luce dell’avvenire.
«Ma perchè io possa credere ancora a quest’avvenire, e camminare coi miei fratelli, bisogna che io creda in essi. Ella lo ha detto tante volte: la luce è dentro di noi, come il fuoco è dentro il ramo contorto e secco, come lo splendore è dentro la nuvola cupa».
⁂
Davide non rispose.
Allora Adone cominciò a disperarsi davvero. Una notte la zia lo sentì attraversare il pianerottolo e lo chiamò con voce lamentosa.
— Che volete? — egli domandò dall’uscio, senza avanzare.
Il gemello balzò su e s’affacciò anch’egli all’uscio, domandando con premura:
— Vi sentite male, zia?
— Sei stato da Caterina? — ella domandò al nipote. — Sì? Perchè non le dici che venga a pranzo, domenica?
— Glielo dirò, — egli rispose freddamente.
E se ne andò: e ancora una volta ebbe l’impressione che la zia volesse dirgli qualche cosa.
Un giorno, poi, s’accorse che il figlio maggiore di Carissima lo seguiva da lontano, forse spiando se egli andava in casa di Agostino, la cui moglie lo perseguitava incitandolo a tormentare la zia.
Egli taceva, sdegnoso, evitando l’albino e la moglie rabbiosa: e le false attenzioni di Carissima e dei fratelli Pirloccia riuscivano qualche volta ad irritarlo.
Un giorno la sarta gli propose di andar a studiare e a dormire nella camera dello zio Giovanni, ora che Tognina non poteva più accorgersene.
Ma egli rifiutò: quella grande camera fresca e solitaria era per lui quasi sacra: il letto sul quale gli erano stati rivelali i misteri della morte e della vita gli sembrava un altare.
E continuò a dormire nel suo cfamerone. Pirloccia aveva già invaso anche quell’angolo remolo della casa, deponendo dietro l’uscio un mucchio di manichi di scope. Adone non protestò: più che mai gli pareva essere un uccello di passaggio, in quella casa che era la sua. E desiderava andarsene. Dove, non sapeva. Anche l’idea di andarsene nella casetta di Caterina, e vivere assieme con la vecchia fumatrice e brontolona, gli ripugnava.
Egli sognava un luogo remoto, una casetta in mezzo a un’isola del Po: tornava a fantasticare, come da bambino; ma non ne provava gioia perchè si accorgeva che fantasticava! Tutto gli pareva illusione. Arrivò persino a credere di non amar più Caterina e di non esserne riamato. L’amore non esisteva: nulla più esisteva nel mondo: tutto era menzogna, ombra senza fine.
Egli ricordava certe sue impressioni d’infanzia, quando le più piccole cose gli destavano meraviglia e tutto gli sembrava grande e misterioso. Ricordava d’essersi una notte fermato davanti a un palo, che gli era parso un ponte fra la terra nera e il cielo luminoso. Le impressioni, nella vita, son così, egli pensava. Le cose grandiose? I punti di congiunzione fra la realtà e l’infinito? Pali fracidi pronti a cadere. E a che vivere allora? Per la prima volta in vita sua egli pensò con dolcezza alla morte. Sì, andarsene: andarsene lontano, verso una isola misteriosa, nella città sepolta sotto il fiume. A che vivere? Gli pareva che qualche cosa fosse già morta in lui, e che la parte di sè ancor viva soffrisse nel dover trascinare il peso della parte già morta. Un tempo egli aveva amato la vita come il bambino ama la madre, anche se ella non lo ama. Ah, ecco, avevano ucciso anche questo suo amore.
Fin verso la fine di luglio visse così, come paralizzato. La sera, quando si recava da Caterina, non rideva e non chiacchierava più. Se ella gli accennava all’affare del testamento egli s’irritava. Una sera parve svegliarsi dal suo letargo. In quel tempo Caterina tesseva stuoje di giunco per un negoziante di Casal Bellotto, che ogni tre o quattro giorni veniva a ritirarle. Un giorno egli arrivò accompagnato da un negoziante di cavalli della Croazia, un bell’uomo alto e rosso con due lunghissimi baffi dorati.
Il croato guardò Caterina, così forte e graziosa col suo fazzoletto nero e le gonne corte, e disse in cattivo italiano che desiderava «una serfa per tutti i mesi dell’inferno» perchè sua moglie, in Croazia, doveva partorire.
— Questo qui paga bene, — disse il negoziante di stuoje, battendo una mano sulle spalle del Croato.
— Sì, pene: dieci fiorini al mese, qualche regalo e il fiaggio pagato.
— Vengo io! — disse Caterina, scherzando.
La nonna sollevò minacciosa il bastone. Partiti i negozianti, le due donne si bisticciarono: e si bisticciavano ancora quando arrivò Adone.
Caterina, per dispetto, insisteva nel dire che voleva recarsi serva in Croazia.
— Non ho paura di viaggiare, io! Da bambina ho girato il mondo: perchè dovrei aver paura? Chi va a lavorare va a pregare!
— Taci! — egli gridò. E provò un tremito nervoso. Ah, egli era stanco: stanco di tutte queste volgarità, di tutte queste miserie, che lo circondavano e lo infastidivano come i moscherini nel bosco. E quando fu solo con Caterina l’afferrò per le braccia, e strinse i denti, silenzioso: pareva volesse spezzare le braccia che lo avevano stretto, e spezzarsi le sue, in una convulsione di furore disperato.
Caterina si spaventò: invece di difendersi, cominciò a tremare fra le mani che la maltrattavano.
— Dio! Dio! Che hai? Di’, di’, che hai? — ella balbettò con terrore.
Egli allora cominciò a mormorare parole insensate.
— Ah, tu vuoi andare serva? Vuoi seguire uno sconosciuto?... La zingara è sempre zingara! E tu vuoi andartene perchè non mi ami, perchè io non son buono a darti le ricchezze che sogni! Siete tutti eguali, tutti: tutti! E vattene pure! Va... cammina!... Anch’io me ne andrò lontano, in un luogo ove la gente non è volgare, non è interessata; in un paese bello... molto più bello di questo! Va! Va, cammina! — ripetè, e la spinse verso l’uscio.
Vinto il suo primo stupore, Caterina lo afferrò a sua volta per le braccia e lo scosse, come per svegliarlo dal suo sogno maligno.
— Torna in te! Tu vaneggi! Tu sogni!
Egli infatti parve svegliarsi. Come aveva fatto un’altra volta usci fuori e sedette sullo scalino della porta. Ella gli si mise accanto, gli prese una mano e gli domandò:
— Che cosa ti ho fatto? Per uno scherzo mi maltratti così? Io so però quello che tu hai! Sei tu che sei stanco di me!
Egli non rispose: ella ripetè con dolore:
— Sì, sei stanco di me! Ah, lo so, il perchè!...
Ed egli sentì come un soffio gelato battergli li volto: guardò Caterina, nell’ombra, accostò il viso al viso di lei:
— Dimmi subito che cosa pensi.
— Niente!
— Caterina! Dimmi subito che cosa pensi o me ne vado via e non mi vedrai più!
Le strinse di nuovo il braccio. Allora Caterina levò il viso; guardò lontano, nella notte silenziosa.
— Ebbene, sì! Tu hai detto che io voglio la tua roba... la roba della tua zia... Ed io ti dico invece che sei tu che non mi vuoi più... perchè sono povera e ignorante... Come si può voler bene a una zingara? — ella disse con rancore, alzando la voce e dimenticando ogni prudenza. — La zingara è rimasta zingara! Ella non ha niente: è vestita male, ha i zoccoli ai piedi. E tu... tu ami le scarpette! Eh, puoi diventare ricco!
Egli ricordò, trasalì: lasciò il braccio di lei e si portò le mani al viso.
— È possibile tutto questo?... Che tu pensi questo?... — disse, scuotendo il capo, disperato. — Tu pensi questo? Vaneggi?
— Se vaneggi tu posso vaneggiare anch’io! — ella riprese, con crescente dispetto. — Io sono una zingara! Lo hai detto tu. E tu, chi sei? Pensaci bene. Quante volte mi hai detto ch’eravamo della stessa razza? Io non ho madre nè padre: ma tu ne hai? Ne hai, di’? Il padre tuo è stato il bastone del Pirloccia. Allora tu mi dicevi ch’eravamo fratellini: ora... ora che nessuno più ti maltratta... ora io son ridiventata zingara!
— Ma taci! — egli disse, balzando in piedi. — Taci o me ne vado!
— E vattene! Tanto un giorno o l’altro te n’andrai lo stesso! Però ti dico una cosa. Ti verrò dietro, sai! I morti ritornano! Quando meno te l’aspetterai mi vedrai vicino a te. Sarò la tua ombra! Vattene, ora!
— È meglio che me ne vada, sì: stanotte non si ragiona, — egli disse. E fece alcuni passi, ma poi si fermò, si volse, vide Caterina seduta ancora sullo scalino, col viso nascosto nel grembiale, e ritornò davanti a lei.
— Che fai? — le disse, curvandosi e levandole il grembiale dal viso. — Senti, per piacere, finiscila!
E sedette di nuovo accanto a lei; ma per oltre mezz’ora stettero così, vicini, silenziosi, senza litigare oltre, ma anche senza baciarsi, intenti ai fantasmi del proprio pensiero.