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l'ombra del passato 317


Egli ricordò, trasalì: lasciò il braccio di lei e si portò le mani al viso.

— È possibile tutto questo?... Che tu pensi questo?... — disse, scuotendo il capo, disperato. — Tu pensi questo? Vaneggi?

— Se vaneggi tu posso vaneggiare anch’io! — ella riprese, con crescente dispetto. — Io sono una zingara! Lo hai detto tu. E tu, chi sei? Pensaci bene. Quante volte mi hai detto ch’eravamo della stessa razza? Io non ho madre nè padre: ma tu ne hai? Ne hai, di’? Il padre tuo è stato il bastone del Pirloccia. Allora tu mi dicevi ch’eravamo fratellini: ora... ora che nessuno più ti maltratta... ora io son ridiventata zingara!

— Ma taci! — egli disse, balzando in piedi. — Taci o me ne vado!

— E vattene! Tanto un giorno o l’altro te n’andrai lo stesso! Però ti dico una cosa. Ti verrò dietro, sai! I morti ritornano! Quando meno te l’aspetterai mi vedrai vicino a te. Sarò la tua ombra! Vattene, ora!

— È meglio che me ne vada, sì: stanotte non si ragiona, — egli disse. E fece alcuni passi, ma poi si fermò, si volse, vide Caterina seduta ancora sullo scalino, col viso nascosto nel grembiale, e ritornò davanti a lei.

— Che fai? — le disse, curvandosi e levandole il grembiale dal viso. — Senti, per piacere, finiscila!

E sedette di nuovo accanto a lei; ma per oltre mezz’ora stettero così, vicini, silenziosi, senza litigare oltre, ma anche senza baciarsi, intenti ai fantasmi del proprio pensiero.