L'ombra del passato/Parte I/Capitolo I

Capitolo I

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Parte I Parte I - Capitolo II
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I.


Il cordaio fu il primo ad attaccare le sue più belle corde, dal portone al palo che indicava il limite fra la sua aja e quella di Giovanni La Pioppa.

Era la mattina del Corpusdomini. La processione, per eseguire la giravolta, doveva entrare nell’aja del cordaio, attraversare quella di Giovanni, uscire per il portone del zolfanellajo, la cui umile casetta era l’ultima del paese.

Le tre famiglie si tenevano molto onorate di questa preferenza, e ogni anno formavano, con lenzuola attaccate a due fila di corde, una specie di viottolo semicircolare che cominciava dal portone di Sison il cordaio e finiva nel portone del zolfanellajo. Un palo di qua, uno di là, segnavano appena il limite delle tre aje unite: quella di Giovanni De Marchi, detto La Pioppa, era la più grande. Egli era un uomo ricco: anche la sua casa grigia, con le persiane verdi al primo piano, superba fra le due casette di Sison e del zolfanellajo, sembrava la padrona fra due serve. [p. 6 modifica]

Il cordaio, che tira di qua, annoda di là, aveva già tracciato la viottola attraverso la sua aja, guardava la porta di Giovanni e imprecava:

Corpu d’un Diu, nessuno si vede! Per una volta all’anno che passa il Signore!

Ma ecco apparire il zolfanellajo con una cordicella intorno al braccio.

— Ohè! — gridò il cordaio.

— Ohè! — rispose il zolfanellajo.

— Che si fa, palandroni? Che si aspetta? Corpo d’un Dio, ma che si fa?

Il zolfanellajo non rispose. Si fece il segno della croce e attaccò la corda al chiodo del suo portone.

L’altro allora s’arrabbiò. Chiamò la moglie, la figlia, coprendole d’insulti, chiamò la moglie di Giovanni, urlò contro un gruppo di bambini accorsi ad offrirgli aiuto. Pareva un uomo violento, coi piccoli occhi azzurri incassati sotto una larga fronte rossa, con le gambe nude nerborute e i grossi piedi terrosi che sembravano le radici di quel corpo secco e alto come un tronco secolare.

Ma i bambini si ridevano di lui: segno evidente che le apparenze ingannano. Nessuno compariva alla porta spalancata della casa di Giovanni.

Il zolfanellajo s’avvicinava al palo, tirando la cordicella, e pareva che pregasse. Piccolo, lento, melanconico, vestito a festa, con una giacca signorile troppo larga per lui, egli sembrava un ometto di legno. Il viso raso anche nelle sopracciglia, d’un pallore verdognolo, dava l’idea che l’ometto si fosse lavato con lo zolfo: e a questo pallore [p. 7 modifica]accresceva risalto il fazzoletto rosso elle egli teneva intorno al collo.

Intorno a lui ed al cordaio aumentava il chiasso dei bambini. Le rondini, che uscivano liberamente dalle case, dove avevano i loro nidi, e volteggiavano sulle aje in cerca d’insetti, non erano più allegre di quei bambini scalzi, dai capelli colore della polenta, e la coda della camicia dritta fuori della spaccatura dei calzoncini.

Ritto in mezzo a loro, come l’albero in mezzo ai fiori, Sison dava gli ordini:

— Puttini, correte! Portate fiori, fronde, foglie di fagiuoli. Badate di non strappare le piante.

I bambini sparirono. Uno solo, il cui viso spariva sotto le falde arrovesciate d’un cappellaccio di paglia, stette a guardare tranquillamente l’opera del cordaio.

— Adone! — gridò l’uomo, furibondo. — Non vai neppure a prendere i fiori? Ma di’, siete tutti matti, voi, oggi?

Adone sollevò la testa; si vide il corto visetto roseo, fra due grappoli di ricci neri, si videro due grandi occhi neri dalle larghe palpebre: la piccola bocca ironica restò chiusa.

L’uomo gli andò sopra, minaccioso.

— Dico, siete matti, voi, oggi?

— E lasciatemi stare, — disse finalmente Adone, con fare da grande, muovendo le ditine entro le profonde saccoccie dei calzoncini spaccati. — Lo zio Carlino parte: la zia sta ad arrostire il pollo per lui, e io devo accompagnarlo fino a San Martino. [p. 8 modifica]

— E va bene! Benone! — urlò Sison. — Lo zio Carlino parte: il Signore può andare a farsi indorare da Meoli!

Il zolfanellajo fece un gesto d’orrore: da Meoli, a farsi indorare, si mandano le persone seccanti.

Ma Sison era cieco di rabbia. Ricominciò a chiamare la figlia, finchè questa, una biondina in vestito corto color rosa e in pianelle ricamate, non scese e attaccò le lenzuola alle corde.

Adone le andò vicino e si sfregò contro le sue vesti come un gattino, guardandola e parlandole carezzevolmente.

— Bello! — le disse lei, staccando le labbra come per dargli un bacio.

I bambini ritornarono, carichi di fiori e di erbe. Andromaca, la bella cordaia, ornò le lenzuola con foglie di fagiuoli e di zucche; il zolfanellajo portò giù i migliori quadretti che possedeva.

Elettra, la padrona della vicina osteria del Vicerè, s’affacciò al portone del cordaio, s’affacciò al portone del zolfanellajo, guardò le due poetiche stradiole strette dai candidi muri delle lenzuola fiorite, e dichiarò che la più bella era quella di Sison. Questa lode calmò alquanto il cordaio.

La casa di Giovanni si animava: una persiana fu spinta con fracasso; un vecchio sbarbato e roseo, coi capelli bianchi divisi sulla fronte, s’affacciò alla finestra, guardò, disse bonariamente: — Perbacco, com’è bello! — Poi chiamò Adone. — Di’, tu, che fai ancora lì? Non vai ad avvertire il barcajuolo? [p. 9 modifica]

Adone volle scusarsi:

— Guardavo soltanto: non mi sono mosso.

Ma subito apparve sul limitare della porta un uomo altissimo, la cui testa arrivava fin quasi allo stipite: e una voce profonda risuonò fra il chiacchierio dei bimbi e il garrir delle rondini.

Sgambirlott1, sei ancora lì? Fila!

Adone partì di corsa.

Tutti si volsero a guardare l’uomo gigantesco, La Pioppa2 alta e vigorosa.

Egli rassomigliava molto al suo cugino ed ospite Carlino: aveva i capelli bianchi divisi sulla fronte e i baffi giallastri: ma più che roseo, il suo viso era cremisi, la pelle aspra, il naso schiacciato: una pinguedine avanzata rendeva più monumentale quel corpo di gigante, i cui larghi piedi calzati di grosse scarpe sembravano di bronzo.

Tutti rispettavano l’uomo alto e ricco: soltanto il cordaio credeva di poter competere con lui.

— Ma queste corde, omone, si attaccano o no? - gli gridò, inviperito. - Ha paura di sporcar le lenzuola la tua Pirloccina?

— Pazienza! Ha da pensare ad altro, stamattina - rispose l’uomo alto, con la sua voce calma e profonda.

— Anche l’anno scorso ha fatto tante storie, la tua signora moglie! Sì, ha paura di sporcar le lenzuola. [p. 10 modifica]

Allora la piccola moglie di Giovanni, timida e malaticcia, s’avvicinò al marito, e mentre metteva i piedi scalzi entro le ciabatte che stavano sul limitare della porta, osò rimbeccare il cordaio:

— È quello il modo di onorare il Signore? Bestemmiando? Io ho tante lenzuola da far una strada fino all’argine.

— Facciamola! Ci passerò io! — disse il signor Carlino, dalla finestra.

I bambini risero: e il cordaio, per dispetto, passò nell’aja di Giovanni e cominciò ad attaccar le corde.

— Ecco come si fa, allora! Ecco come si fa! Andromaca, qui un lenzuolo.

I bambini passarono anch’essi nell’aja di Giovanni e sparsero fiori e foglie sul terreno chiaro e duro.

Cinque rondinotti, dal nido grigio attaccato alla trave del portico, sporsero le testoline lucide e cominciarono a stridere, quasi protestando contro l’invasione di tutti quelli altri rondinotti biondi dal codino sporco.

Adone rientrò di corsa, seguito da un giovine barcajuolo scalzo: passò sotto le lenzuola e andò in cucina, dove la zia finiva di riempire un cestino da viaggio.

La cucina era grande, con le pareti gialle: sulla cappa dell’enorme camino stavano due paja di scarpe nuove con la punta in su, e due caffettiere di rame. Le tavole di noce, la madia rossa, le angoliere lucide, tutto spirava benessere e ordine. [p. 11 modifica]

Adone si attaccò alle gonne della Tognina, le strofinò il fianco col suo visetto roseo, non la lasciò più fincheè ella non gli ebbe consegnato il cestino, dal quale esalava un grato odore di pollo arrosto.

Pochi momenti dopo egli correva dietro il barcajuolo che portava la valigia e camminava a passi lunghi e silenziosi.

Gli usignuoli cantavano sui pioppi e sugli olmi che ombreggiavano gli orli della larga strada fiancheggiata da fossi d’acqua corrente limpidi come ruscelli; fiori d’ogni colore ornavano l’erba brillante di rugiada.

Giovanni accompagnava il signor Carlino, che aveva salutato affabilmente tutti i vicini e fatto un cenno di addio ai rondinotti del nido. I due uomini chiacchieravano, ma Adone non badava a loro, intento a correre sull’ombra deforme del barcajuolo. Gli pareva così d’essere trascinato da quell’ombra strana che sembrava quella di un cammello a due gambe. Ma d’un tratto l’ombra sparì, il giochetto cessò.

Cominciavano le case del centro del paese: prima quella del fabbro, rossa su uno sfondo di allori verdi, poi quella del tabaccajo, poi quella del sarto, che era anche oste. Le botteghe, tranne quella del tabaccajo con la sua vetrina piena di cartoncini adorni di fiori e di cuori trafitti, erano chiuse. Dalle finestre pendevano coperte e drappi colorati: allo sbocco dei viottoli sorgevano archi di fronde e di fiori: tutti i portoni erano addobbati e decorati in modo pittoresco. [p. 12 modifica]

Adone e il barcaiuolo, rossi in viso, felici entrambi, proseguivano la loro corsa, scambiando qualche frase e ridendo forte.

— Al ritorno mi metto il vestito nuovo e vado a messa con lo zio — confidava il ragazzetto al l’uomo che lo ascoltava attentamente. — Poi dobbiamo mangiare una gallina: poi oggi andrò a trovare la mia mamma. Chissà che le porti qualche cosa, eh, speriamo! Ho una gran cesta piena di roba, io: se vieni, un giorno, ti faccio vedere tutto. In fondo c’è una cosa... una cosa... non ti dico che cosa, perchè tu puoi farmi la spia... Ebbene, te lo dico lo stesso: ho quattro soldi: due li porto alla mamma.

Arrivarono davanti alla chiesa, bianca e gialla, che sorgeva in fondo ad un prato sulla cui erba appena falciata alcuni pioppi allungavano le colonne d’ombra dei loro tronchi tinti di bianco. Attraverso questi tronchi, come in un intercolunnio marmoreo, si scorgeva, di fronte alla chiesa, un muro verdastro e un grande cancello di ferro arrugginito. E attraverso il cancello si vedeva un giardino inselvatichito, in fondo al quale sorgeva un palazzo del Settecento, dalle finestre chiuse, grigio e solitario sullo sfondo d’un parco il cui verde cupo si stendeva lontano, fino all’argine del Po.

Adone e il barcajuolo passarono davanti al cancello, lasciando la strada comunale per internarsi in un viottolo che per lungo tratto correva tra il muro del giardino del parco e il muro del cimitero. [p. 13 modifica]

Il canto degli usignuoli sembrava più dolce e flautato in quel luogo deserto. Adone si fermò per guardare un nido che egli adocchiava da qualche giorno, e sul quale gli pareva di poter accampare diritti di proprietà.

Il barcajuolo andò avanti, si perdette nell’ombra del viottolo: dello zio si udiva la voce, ma non si vedeva ancora la persona. E Adone profittò subito della sua solitudine: piano piano, facendo gesti da piccolo commediante, depose il cestino per terra, sollevò cautamente la salvietta, annusò con voluttà il buon odore del pollo. Ma non era questo che egli cercava. E all’improvviso cominciò a ridere, con un gorgheggio che si unì a quello degli usignuoli: ma subito ritornò serio, pensieroso: prese dal cestino due coppie di calum, grosse ciliege dure e lucenti come il corallo, e se le mise sulle orecchie. E riprese il cestino, ma dopo altri venti passi si fermò ancora, e mangiò i suoi bizzarri orecchini. Fu un attimo di voluttà. I suoi grandi occhi d’un bruno dorato, diventarono languidi e tristi. Egli fu tentato di prendere altre ciliege; ma la voce dello zio risuonò più forte e più vicina.

Il gigante parlava di lui: ed egli non dimenticò mai quel discorso:

— Sì — diceva la voce profonda. — Adone deve fare il paisan. Perchè dovrebbe studiare? Per diventare impiegato o prete? Gl’impiegati si rovinano lo stomaco: i preti vanno incontro a brutti tempi. Adone deve badare alla sua roba. Io l’ho preso con me per questo. Non ho fratelli nè sorelle: gli altri [p. 14 modifica]non fanno che desiderare la mia morte. La mia Tognina sarà la mamma di Adone. Tu sei ricco e non hai figli. Mia moglie è debole e di poca vita. Io avevo bisogno d’un figlio: il Signore non me ne ha mandato; ed io me ne sono preso uno a prestito! «Tu hai un sacco di figliuoli, — ho detto a nostra cugina Martina — dammene uno». Ho preso Adone fra le braccia e me lo son portato via. E tu ora dici che bisognerebbe mandarlo a studiare? Neanche per idea, Carlin!

— È tanto intelligente! — disse l’impiegato.

— E tanto meglio, allora! Custodirà meglio la sua roba! Non è vero, puttino? Sarai un bravo paesano?

Adone, così direttamente interpellato, si mise a correre e non rispose. Ma il signor Carlino lo rincorse, lo atterrò e gli disse!

— Guardami! Ah, non sono occhi da contadino, questi! Sarai un dottore, di’?

— No, meglio maestro!

— Perchè? — disse l’impiegato, ridendo.

— Perchè il maestro sa tutto!

— Santa innocenza! — gridò l’altro, aprendo le braccia. Poi prese per mano il ragazzetto e si mise a chiacchierare seriamente con lui. Adone rispondeva pronto: trovava spiegazione a tutto.

Dopo il viottolo attraversarono un sentieruolo, fino all’argine che con la sua linea verde tagliava lo sfondo luminoso del cielo. Nei campi dietro il cimitero le distese di grano già dorato parevano splendere di luce propria tra il verde un po’ triste della meliga e del trifoglio. [p. 15 modifica]

I due uomini e il ragazzetto salirono sull’argine, ridiscesero verso la riva del Po. In quel punto e in quei tempi il fiume, allargato dallo sbocco della Parma, sembrava un lago, tutto azzurro e oro fra le rive coperte di boschi.

La barca era pronta. Il vecchio Pigoss, il portinèr3, aspettava col remo in mano. Col suo piccolo viso nero, i capelli argentei, gli occhietti d’un azzurro cangiante come quello del fiume, il vecchietto aveva un’aria beffarda e dolce nel medesimo tempo. Pareva un essere superiore; ricordava certi marinai, certi pescatori, figli delle acque, che sentono pietà e disprezzo per i contadini figli della terra.

Adone gli sorrise, come ad un amico della sua età, e appena tutti furono in barca, e i due barcajuoli cominciarono a puntare i remi sulla sabbia, spingendo il piccolo legno verso la corrente, egli supplicò:

— Pigoss, raccontami la storia del paese che è sotto il fiume.

— Va là, bello, un’altra volta! — disse il vecchietto, che a sua volta desiderava sapere dal sor Carlino una storia meravigliosa.

— Com’è grande, Roma? È circondata dal mare? La va per mare, lei?

— Ce ne vuole! Il mare è lontano. C’è però il fiume, il Tevere.

— È navigabile? [p. 16 modifica]

— Altro!

— C’è un paese anche sotto quel fiume? — domandò Adone. — Io guardo sempre, qui, ma non vedo mai nulla.

E si curvava sulla sponda della barca, tanto che lo zio La Pioppa lo sgridò, tirandolo per i calzoncini.

— Ti dò uno scapaccione, sgambirlo!

Adone lo guardò e gli rise in faccia.

L’omone lo baciò, lo attirò a sè: e lo zio Carlino, che la domenica andava sempre a visitare i musei, ammirò quel gruppo veramente artistico, quel monumentale lavoratore dalle scarpe e il vestito color bronzo e quel fanciulletto scalzo dagli occhioni socchiusi e la bocca maliziosa sembravano la forza e l’astuzia.

La barca scendeva verso Brescello: e il buon funzionario, dopo aver ammirato l’uomo e il fanciullo, ammirò ancora una volta il grande paesaggio fluviale che a lui pareva il più bello del mondo. Questa sua convinzione era forse un po’ esagerata: certo, però, il Po quella mattina era bellissimo, sempre più largo, d’un azzurro latteo iridescente. Verso le rive l’acqua rifletteva i boschi capovolti; sopra le muraglie di sabbia delle isole, i pioppi tremolavano come alberi d’argento, e i canti degli usignoli e i richiami insistenti dei cuculi parevano uscir dall’acqua, da boschi sepolti nel fiume.

Tranne questi gridi non si udiva altro rumore. Solo qualche volta, alle domande di Adone, [p. 17 modifica]rispondeva l’eco beffarda che pareva anch’essa la voce di un essere nascosto sott’acqua.

— Come si fa a far su la roba?

Roba,4 — rispondeva il grido beffardo.

E anche un campanile bianco, all’orizzonte, pareva sorgere dall’acqua, come una vela. La barca sfiorò una lunga isola che terminava con un triangolo di sabbia a fior d’acqua.

— Di chi è quest’isola? — domandò l’impiegato. — C’è una bandiera su un palo. Perchè?

— L’isola è dei Galvanin: forse la bandiera c’è perchè oggi è festa, — disse Pigoss: ma Adone protestò.

— È anche mia, però! C’è in mezzo un laghetto: e tante lepri, e biscie, e uccellini piccoli piccoli. Non dirlo a nessuno, — aggiunse all’orecchio dello zio. — C’è anche un pesce grosso: forse è uno storione. Taci, però, eh?

— Ci sei stato? Come? Come l’hai veduto?

— Lo so io! — egli rispose con aria di mistero.

L’isola, coi suoi pioppi e i salici curvati sulla sabbia, s’allontanò: la barca s’avvicinò di nuovo alla riva.

— Arrivederci. E sii bravo, — disse l’impiegato al ragazzetto. — Vedrai cosa ti manderò, se sarai buono. Me lo prometti? Non sarai cattivo?

Adone guardò il gigante, come per prenderlo a testimonio che gli si domandava una cosa impossibile: poi i due cugini si abbracciarono e [p. 18 modifica]Giovanni, commosso come una donna, raccomandò vivamente il cestino ai barcajuoli.

L’omone e il ragazzetto saltarono a terra: la barca, come alleggerita dal peso del gigante, si allontanò rapida e nera sul fiume azzurro. Adone la segui con gli occhi, finchè potè vederla.

Egli sapeva che prima di arrivare al suo mondo ignoto lo zio Carlino doveva scendere a Brescello e di là prendere una lunga strada attraverso campi e campi, paesi e paesi, fiumi larghi e stretti, montagne assai più alte dell’argine: tuttavia, in quel momento, seguendo con gli occhi affascinati la barca silenziosa, gli pareva che questa dovesse fermarsi soltanto in una riva molto lontana, al di là dell’orizzonte, dove sorgeva un jmese incantato, quasi simile a quello sepolto nel fiume, del quale sapeva notizie solo il vecchio Pigoss che ne parlava come d’un suo paese d’origine.

La voce dello zio lo trasse dal suo sogno.

Andom, sgambirlo! Forse arriveremo in tempo per la processione.



L’uomo e il fanciullo ritornarono verso il paese, percorrendo l’argine.

Di tanto in tanto lo zio fingeva di coprire e nascondere Adone con un mantello immaginario, [p. 19 modifica]come usava d’inverno quando conduceva con sè il ragazzetto, e gli domandava!

— Dove siamo ora?

Ma il fanciullo era pensieroso e non rispondeva a tono. A un tratto esclamò!

— Vorrei sapere una cosa solamente, por piacere: com’è il mare!

Sebbene chiesta per piacere, la risposta non venne. Adone sollevò gli occhi e vide una cosa strana. Lo zio era diventato pallidissimo e tremava: pareva avesse freddo. E questo freddo improvviso si comunicò al fanciullo.

— Che hai? Che hai? — egli domandò spaventato, abbracciando le gambe al gigante. — Zio mio, madie hai? Dimmelo, zio mio, che hai? Zio mio...

L’uomo s’era fermato e si passava una mano sulla fronte. E continuava a tremare, e pareva dovesse cadere; ma resisteva all’urto improvviso del male, come un vecchio tronco all’urto del vento.

Adone sentiva un’angoscia paurosa; afferrato alle gambe tremanti dello zio, gli pareva di sostenerlo, mentre si appoggiava per non cadere egli stesso, vinto dalla paura misteriosa che lo agitava.

Parole strazianti gli uscivano dalla piccola bocca fattasi triste: ma l’uomo non lo udiva, intento a combattere il nemico invisibile che lo aveva assalito a tradimento. Pochi istanti: e il male fu vinto.

— Niente, niente. — disse la voce profonda, alquanto tremula. — Un capogiro. Mi viene sempre. [p. 20 modifica]dopo che sono stato in barca. Ti sei spaventato caro? Non dir niente alla zia.

Lo prese per mano, s’avviò: era ancora pallido, ma sorrideva, e pareva contento della sua vittoria. Ma Adone, che lo guardava fisso con gli occhi ancora pieni di terrore, sentiva tremare la grossa mano che raccoglieva la sua, e quel tremito pareva gli salisse per il piccolo braccio e gli si comunicasse al piccolo cuore sensibile.

— Com’era questo capogiro, zio? Ti è passato, ora? Non dire le bugie, zio! — diceva con voce seria.

— Ma cosa ti passa in mente, sgambirlo? È passato, mille volte passato!

Sentendosi chiamare ancora sgambirlo. Adone si calmò. Proseguirono lungo l’argine solitario, bianco di polvere e di sole. Il ragazzetto non cessava di spiare sul caro volto i segni del male che lentamente sparivano, e diceva a se stesso, con orgoglio:

— Se non c’ero io egli cadeva di certo di certo! l’ho tenuto su io, però!

E l’omone respirava forte e finalmente sospirò: la mano cessò di tremare, gli occhi s’illuminarono. Parve ricordarsi di qualche cosa.

— Ah, il mare? Com’è fatto? Come il Po, ma largo, in modo che non si vede l’altra riva. E ha le onde, come quando spira il vento di sotto5, ma molto più grosse. [p. 21 modifica]

Rassicurato, Adone riprese le sue domande. Egli aveva già passato il periodo dei perchè, si spiegava da sè molte cose, meglio del come gliele spiegavano gli altri. Ma le cose lontane, le cose che egli non aveva mai veduto e delle quali conosceva solo il nome, lo inquietavano, lo tenevano desto la notte e pensieroso il giorno.

— E le montagne, come sono? Come l’argine?

— Molto più alte.

— Mandano l’ombra sulla città?

— No, no: sono lontane, dalla città.

— La città è bella, non è vero?

— È bella, sì: ma si vive meglio in campagna. Io ho provato a vivere in città, ma poi sono scappato. Vi è tutto cattivo, tutto guasto o falsificato. Ho letto che ora falsificano persino le uova: le fanno a macchina.

Adone si fermò, spalancò gli occhi.

— Le uova? — gridò. — Come? Come? Dimmi come si fanno!

— Io non lo so davvero! Forse prenderanno i gusci vuoti e li riempiranno con qualche porcheria.

— Dio mio! — esclamò Adone; sospirò e rise, tanto l’idea delle uova false lo divertiva e lo interessava. [p. 22 modifica]



Quando zio e nipote rientrarono nell’aja, la processione era già passata; le donne ritiravano le lenzuola dalle corde, e Adone profittò del momento per correre in cucina a guardare dentro la pentola che gorgogliava e fumava sul fuoco semispento.

— La ghè, la ghè — mormorò, toccando col ditino la zampa giallognola della gallina che bolliva dentro la pentola. Egli era un golosone, e per di più aveva fame; il sentimento del dovere e neppure la paura di scottarsi gli avrebbero impedito di sgraffignare la zampa della gallina, se in quel momento la zia non si fosse precipitata dentro la cucina, gridando disperata:

— Le undici! Son le undici, e nessuno lo diceva! Povera me!

Adone non si commosse: finse di cercare un tappo sotto la tavola, poi, rassicurato, si avvicinò alla zia che in fretta e furia s’era messa ad impastare le tagliatelle.

— Zia, dammi i gusci, — pregò. — Zio Giuan dice che ora si fanno anche le uova false. Voglio provare a farle.

— Caro il mio omin, — disse la donnina — una sola persona può fare le uova.

— Chi? [p. 23 modifica]

— La gallina.

— La gallina non è una persona, va là! — osservò giudiziosamente il ragazzetto.

Frese i gusci, li mise delicatamente uno dentro l’altro, pregò la zia di dargli un pezzetto di pasta e si ritirò nella camera bassa, una specie di cantina grande, e quasi buia, che serviva soltanto di ripostiglio ed era ingombra di oggetti inutili.

Egli si avanzò verso l’angolo più buio, e s’inginocchiò davanti a una cesta, dalla quale incominciò ad estrarre gli oggetti più disparati; stracci bianchi e di colore, ossa, sacchetti colmi, scarpe, bastoncini, una pentolina, una bambola, una stecca da busto, un pennello, una bottiglia...

El ghè, el ghè! — egli mormorava, con gioia, palpando ogni nuovo oggetto. Poi rimise tutto dentro la cesta; lasciò fuori solo il pennello, la pentolina e i gusci, deciso di tentare, più tardi, la composizione delle uova false. Per il momento la fame lo spingeva di nuovo in cucina. Assistè con attenzione avida a tutti i preparativi del pranzo. Di tanto in tanto buscava qualche cosetta: un pezzettino di formaggio, un pezzettino di burro: non sdegnava neppure il lardo già pestato col prezzemolo.

Tutto era buono. E ogni volta rideva, gorgheggiando, come i rondinotti dell’atrio quando la madre rondine portava loro qualche insetto.

La Tognina, triste e taciturna, andava e veniva e si curava poco del ragazzetto. Tirò fuori sei bottiglie di lambrusco, e il più bel salame ch’ella conservava ancora fra la cenere. [p. 24 modifica]

Adone andò a comprare il pane: al ritorno raggiunse lo zio Giovanni, completamente ristabilito dal suo malore, e il fratello della Tognina che era invitato a pranzo. Fratello e sorella si rassomigliavano assai: il Pirloccia però era più brutto, quasi deforme: sembrava davvero una trottola, e le sue piccole gambe sostenevano come per miracolo un grosso corpo dal petto sporgente.

Egli si faceva perdonare la sua bruttezza con l’amabilità dei modi: era allegro e chiacchierone quanto la sorella era indifferente e di poche parole.

Adone però non lo amava: sentiva per lui un’antipatia istintiva e gliela dimostrava.

Quell’ometto dal viso sbarbato e olivastro, coi suoi riccioli neri sulla fronte sporgente, coi suoi occhietti azzurri maliziosi e i denti piccoli e candidi, gli dava l’idea d’un fanciullo cattivo, di quelli che qualche volta lo molestavano.

— Come, non sei stato a messa? — gli domandò l’ometto, quando furono per mettersi a tavola.

— No, brutto! — egli rispose francamente.

E lo zio Giovanni, curvo, intento a sturare una bottiglia che stringeva fra le gambe, sollevò il volto e gridò:

— Ma aspetta, miclòn, ti voglio dare una bella lezione!

— Bè, bè, non lo farò più! — disse Adone; ma gli parve che anche lo zio guardasse con poca simpatia il Pirloccia, e ricordò che una volta lo aveva chiamato «mezzo uomo».

— Tognina, su; pronti? — gridò Giovanni. [p. 25 modifica]

— Pronti! — rispose la donna, accorrendo con due scodelle, entro le quali aveva messo un po’ di tagliatelle cotte.

Giovanni versò il vino spumante nelle scodelle, e tutti sedettero a tavola, mangiando con voluttà quella specie di antipasto paesano.

Pirloccia si leccò le labbra violacee di vino, e cominciò a raccontare le solite storie, mentre Giovanni ricordava il cugino che viaggiava verso Roma.

Anche l’ometto aveva viaggiato: conosceva bene il mondo. Col suo carrettino carico di scope egli aveva attraversato quasi tutta l’Europa ed anche parte dell’Africa e dell’America. Sì, egli aveva girato tutto il mondo, — egli diceva, — sempre in cerca della fortuna. Ma la fortuna è come l’anello sepolto dove comincia e dove finisce l’arcobaleno. Pare lì, vicino, ma non si arriva mai a trovarlo.

— Corpo, — egli gridava, agitandosi, — sono stato anche a Montecarlo, dove tutti quelli che vanno o s’impiccano o diventano ricchi, lo non mi sono impiccato eppure non sono diventato ricco, Dio te stramaledissa, fortuna!

Giovanni colmò il suo piatto enorme di tagliatelle sottili e gialle come fili di seta.

— Ma, hai giuocato? — domandò con calma.

— Non sono andato al di là dell’ingresso: solo ho venduto trenta scope al portiere, — ammise Pirloccia.

— Chi sa, — osservò malinconicamente Giovanni, — qualcuna di quelle scope avrà spazzato il sangue di qualche suicida... [p. 26 modifica]

— Ma che credi si ammazzino dentro casa? — disse l’altro ridendo. — Si impiccano agli alberi: ne ho veduto penzolare dieci o dodici.

— Bene, finitela con queste storie, — pregò Tognina, che aveva una grande paura della morte e non amava che se ne parlasse. — Giuanin, stura piuttosto quest’altra bottiglia.

Giovanni sturò la bottiglia, e tutti presero a parlare di cose più allegre. Ma Adone, che se non amava il Pirloccia, ne ascoltava avidamente le storielle, continuò a pensare a Montecarlo, agli uomini che penzolavano dagli alberi, a quelli che se non s’impiccano diventano ricchi; e cominciò a fantasticare cose bizzarre, tanto che dimenticò persino le uova false. Se ne ricordò nel pomeriggio, quando frugò nuovamente nella cesta, stando questa volta attento a non sporcarsi la camicetta nuova, a quadratini bianchi e neri, alla quale teneva moltissimo. Ma era già tardi, ed egli doveva andare dalla mamma. Prese dunque due soldini, uno per mano, cacciò le manine dentro le saccoccie dei calzoncini nuovi — chiusi dietro e davanti! — e s’avviò.

La mamma stava a Co’ de’ Brun, che era una specie di sobborgo di Casalino, o per meglio dire il quartiere dei poveri. I ricchi e gli aristocratici, cioè i mercanti e gl’industriali, stavano tutti verso la chiesa.

Il ragazzetto doveva fare circa venti minuti di strada per arrivare dalla sua mamma. Attraversò tutto il paese. Era l’ora del passeggio: le [p. 27 modifica]fanciulle vestite di rosa e di celeste, le donne anziane con lo scialle ricamato, i giovanotti con la cravatta verde, i vecchi contadini vestiti di fustagno, i mercanti dai grandi cappelli grigi, insomma tutti i personaggi più importanti che passeggiavano lungo i fossi o chiacchieravano davanti alla chiesa chiamavano Adone e gli rivolgevano paroline graziose. Egli camminava e spesso correva, senza voltarsi, sempre con le mani in tasca. Non aveva tempo da perdere, lui: sapeva che se si fermava le donne l’avrebbero afferrato e baciato forte, e gli uomini l’avrebbero trattenuto per insegnargli parole maliziose e per ridere con lui.

Arrivato davanti alla chiesa, invece di proseguire per la bella strada comunale, svoltò e percorse di nuovo il viottolo Dargenti.

Questo viottolo era per lui un luogo delizioso. Percorrendo le altre strade, larghe o strette, l’argine, le cavdagne6 erbose, egli era un monello cattivuccio come tutti i monelli: lungo il viottolo Dargenti, invece, come il bandito nel folto del bosco, egli si sentiva padrone di sè; considerava sua proprietà i nidi, le erbe, le bacche, le rane del fosso verdastro che stendevasi lungo il muro del parco: ma diventava pensieroso, quasi cosciente.

Qualche volta, di sera, quei due muri egualmente tristi, corrosi, verdastri, gli davano un senso di tristezza, gl’incutevano paura. Là dietro, da una parte e dall’altra, sorgevano invisibili [p. 28 modifica]fantasmi. Spesso egli si fermava davanti al cancello arrugginito, sempre chiuso.

Nulla di più melanconico di quel palazzo del Settecento, già decaduto come un vecchio castello.

Il padrone del palazzo viveva ancora ma non ci veniva mai. Solo qualche volta Adone vedeva il vecchio Jusfin, l’antico cacciatore dei signori Dargenti, attraversare il giardino e il parco che egli aveva in custodia. L’ex—cacciatore conservava ancora il costume, — giacca di velluto, calzoni stretti, cappello con penna di fagiano, — ed aveva ancora un aspetto decorativo; era alto, col petto largo, una lunga barba d’argento dorato. Ma anch’egli non era più che un ricordo d’altri tempi, una figura e nulla più. Era vecchio, decaduto: un panereccio gli aveva portato via il pollice destro. Con le altre dita non si può premere il grilletto del —fucile, anche quando si ha il tempo e la comodità d’andare a caccia nel bosco o nel fiume. Jusfin andava invece in fondo al parco, dove ogni anno seminava segretamente la sua provvista di granoturco e di patate.

Ecco la ragione per cui neppure pagando si riusciva a visitare il parco ed il palazzo. Jusfin aveva ancora un gran rispetto per il suo ultimo padrone: ma vivere bisognava.

L’ex—cacciatore era molto amico di Sison il cordaio, e spesso andava a trovarlo, e parlava dei bei tempi passati: non era bugiardo, come tutti i cacciatori; era piuttosto uomo di poche parole, ma qualche volta si beffava del prossimo. Adone [p. 29 modifica]correva dal cordaio ogni volta che vedeva Jusfin, e ascoltava ansioso ogni parola del vecchio: per lui nulla esisteva di più meraviglioso del palazzo Dargenti. Il parco, del quale invano tentava saltare i muri, lo attirava in modo speciale.

Nell’interno di quel grande palazzo chiuso, egli aveva sentito raccontare da Jusfin, — v’erano cose magnifiche, mobili d’oro e di velluto, specchi enormi, uccelli imbalsamati, armi rare che avevano ucciso uomini maligni e tedeschi cattivi.

E nel folto del parco chiuso, sotto quegli alberi altissimi, dei quali egli non sapeva ripetere i nomi strani, v’erano altre casette coperte d’edera, con piccole porte e piccole finestre; e un laghetto popolato di anitre selvatiche, di pesci rossi, di cicogne; e v’era una barchetta di argento, e sulle sponde di questo laghetto crescevano le fragole, e in mezzo ad un campo di avena c’era il nido del passero solitario.

Tutte queste cose, mai vedute, esercitavano un fascino straordinario sul ragazzetto: neppure la città sepolta nel fiume era per lui più misteriosa ed attraente del parco e del palazzo abbandonali.

Certi nomi specialmente gli davano un senso quasi morboso di curiosità e di piacere.

I nomi strani degli alberi, le «armi», gli «uomini maligni», le «cicogne», e sopratutto il «passero solitario», s’erano impressi nel suo pensiero come nomi di cose belle ed ignote.

— Le armi? — gli spiegava lo zio Giovanni. — Cosa vuoi che siano? Bagai, fucili, coltelli, [p. 30 modifica]

spade; perfino il coltello col quale tua zia taglia il salame e le fojade è un’arma...

— Il passero solitario? — diceva la maestra dai capelli biondi tirati sulle tempia. — È un uccellino dal dolce canto, che ama vivere nei luoghi solitari. Hai capito?

— Si ìssignora — gridava Adone con voce cadenzata, come gli aveva insegnato la signora maestra; ma non restava soddisfatto e sentiva che nessuno al mondo avrebbe mai potuto spiegargli «che cosa erano» gli oggetti misteriosi, i fiori, gli uccelli, le meraviglie che la sua fantasia intravedeva al di là del muro verdiccio del parco Dargenti.



Egli entrò nel cortiletto assiepato e vide sua madre, una donna ancora bella, ma scalza e lacera, che attingeva acqua dal basso pozzo dietro la casetta. Ella era vedova da poco tempo, e come le vedove delle fiabe aveva sette figli, pei quali doveva lavorare di e notte ed anche nei giorni di festa.

Adone amava e ammirava la sua mamma. Gli pareva una donna bellissima, coi suoi capelli neri e gli occhi d’un azzurro verdognolo, grandi, vivi, allegri. [p. 31 modifica]

— Mamma! — egli gridò fervidamente, correndo verso il pozzo, senza levare le mani dalle saccoccie.

— Viscere care, — rispose la donna, senza troppo commuoversi.

Eva, la sorellina, bionda e tosea come un angioletto, udendo la voce di Adone corse, scalza ed affannata, con un puttino che le dondolava fra le braccia e minacciava di cadere all’indietro.

— Che belle scarpe nuove! E delle altre che ne hai fatto? — gridò.

— La zia le ha date ai figli di Pirloccia.

— Tutto ai suoi! — sospirò la madre, staccando la secchia dal ramo uncinato che serviva per attingere l’acqua. Poi sedette sullo scalino della porta, attirò a sè Adone e gli disse: — Raccontami che cosa hai fatto oggi. Chi c’era a pranzo?

Ella volle sapere tutto: persino che cosa avevano mangiato quel giorno, e quante bottiglie avevano bevuto.

Adone non si fece pregare: era un chiacchierone e non sapeva tener un segreto, tanto più se glielo raccomandavano; così raccontò che lo zio s’era sentito male, poi ripetè le ciarle del Pirloccia. La mamma ascoltava e sospirava.

— Sei bottiglie in tre! — Chi troppo e chi nulla! Poteva pur mandarmene una!

Zia Tognina dice che devi venire a trovarla se vuoi qualche cosa! — esclamò egli, tirando fuori dalla saccoccia il piccolo pugno caldo. — Perchè non vieni mai? Ecco, io ti ho portato questo. Non l’ho rubato, sai: me lo ha dato lo zio per comprarmi le mele. [p. 32 modifica]

— Caro il mio omin!— ripetè la mamma prendendo la moneta che Adone le mise in grembo.

E gli diede finalmente un bacio, così dolce, così dolce; più dolce delle mele di cui egli aveva fatto sacrifizio!

— La Tognina si lamenta? Lo sai, non esco mai — ella disse sporgendo uno dei suoi piedi scalzi. — Vedi, non ho neppure le ciabatte! Ah, caro il mio omin, siamo tanto poveri noi! Ma non importa, purchè tu non ti stanchi di obbedire, di amare i tuoi zii, e di farci sperare che un giorno sarai la nostra consolazione.

Poi ella parlò del babbo morto.

Egli era tanto bravo: lavorava giorno e notte, e tu sai quanto lavorano i muratori di ponti. Egli sarebbe diventato capomastro, se Dio non lo chiamava a sè. Tu diventerai bravo come il tuo babbo?

— Sì! — egli rispose vivacemente, contento che la sua mamma gli dimostrasse almeno un po’ d’affetto. E cominciò a esporre i suoi vasti progetti per l’avvenire.

— Eh, certo, io lavorerò giorno e notte e anche un pochino la festa. Voglio fare il maestro o il capomastro. E farò un palazzo alto, alto, con due torri. In una ci starete voi, nell’altra io con mia moglie e i miei puttini...

Mi no! — esclamò Eva, che ascoltava avidamente. — Non voglio cadere, io...

— Bada intanto di non lasciare cadere Ottavio, osservò la mamma. [p. 33 modifica]

— Che sai tu? — disse Adone con disprezzo. — E si cade forse dalla terrazza del palazzo Dargenti?

— Chi lo sa? — rispose la bimba, pensierosa.

— Io ci salirò un giorno o l’altro, invece riprese il ragazzetto, sempre più animandosi. Voglio comprarlo quel palazzo, io!

— Proprio, proprio! — esclamò la mamma, ridendo. — Ecco Reno, il tuo povero fratellino. Sentiamo cosa dice, lui.

Reno, il fratellino rachitico, scendeva zoppicando la scaletta di legno che dalla cucina conduceva alla stanza superiore.

Vedendo Adone, che si era voltato per guardarlo, gli si piantò davanti, con le gambestorte aperte ad arco, con le mani in tasca, gli occhioni verdi spalancati sotto una folta frangia di capelli gialli: e non rispose al suo sorriso, ma lo fissò a lungo, con evidente senso d’invidia. Adone era così ben vestito!

— Renuccio, ti sei svegliato ora? Vieni qui, caro, — disse la mamma porgendo le mani al di sopra delle spalle.

Ma il rachitico era di cattivo umore: aveva troppo dormito. Non rispose, non aprì bocca, ma s’appoggiò alle spalle della mamma, e piano piano ella finì col prenderlo in grembo. E lo baciò sul capo, gli divise sulla fronte i lunghi capelli giallastri, gli disse, con parole velate, che egli era il suo bimbo più caro, perchè il più infelice. E per divertirlo insistè sui folli progetti del «capomastro» mentre Ottavio, che fino a quel momento [p. 34 modifica]non aveva cessato di succhiare il suo cerchietto di osso e di sorridere alle galline e alle rondini, piangeva vedendo il grembo materno occupato da un altro.

E Adone a sua volta, il futuro signore, guardava con invidia il fratellino rachitico, che per il momento era molto più ricco di lui perchè si godeva tutti i baci e tutte le carezze della mamma.

  1. Impacciato.
  2. Pioppo.
  3. Barcajuolo cho tiene il porto.
  4. Ruba.
  5. Levante.
  6. Capezzale.