L'ombra del passato/Parte I/Capitolo II

Capitolo II

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II.


Sì, fu durante quella sera indimenticabile che la sua sorte mutò.

Egli era appena tornato a casa, e stava nel cortile assieme con la Tognina, aiutandola a sgranare fagiuoli.

Sopra il tetto dei tienili, dietro le cime degli alberi, il cielo era tutto rosso: la luce rosea ma sempre più smorta della sera illuminava il cortile.

A un tratto la donna e il fanciullo credettero di sognare. Sullo sfondo del portone spalancato vedevano due uomini, il cordaio e Jusfin, che reggevano il corpo esanime di Giovanni.

Seguivano altre persone, fanciulle vestite di chiaro, giovanotti e uomini; bambini che guardavano spauriti quel grosso corpo cascante, quel viso livido reclinato sul petto, quelle mani aspre che parevano addormentate, quei piedi pesanti che non volevano staccarsi dal suolo.

Sulle prime Tognina credette che suo marito fosse ubbriaco; cosa che gli succedeva di rado, ma gli succedeva. [p. 36 modifica]

Adone invece ricordò come lo zio quella mattina s’era sentito male, e si mise a piangere, credendolo morto.

Anche la donna allora diede un grido e corse come una pazza incontro al gruppo che s’avanzava. La gente rimase fuori; solo il prevosto, seguito da un cagnolino nero, entrò correndo nel cortile, prese Tognina per un braccio e le gridò sul viso:

— Calma! calma! È niente: è uno svenimento. Forse ha bevuto troppo.

Poi, siccome qualche persona entrava nel cortile, egli tornò indietro e gridò ferocemente:

— Via! via! E che ci sono le marionette, qui? Via, sacri tabernacoli, via!

Egli stesso chiuse il portone, mentre i due uomini trascinavano verso la casa il gigante svenuto.

Il cagnolino cominciò ad annusare, i fagiuoli caduti per terra, poi guardò Adone e abbajò.

Adone gli diede un calcio e fuggì nel portico, dove si mise in un angolo, ascoltando e guardandosi intorno spaurito. E da quel momento cominciò per lui una specie di sogno pauroso.

Egli desiderava ardentemente salire nella camera ove lo zio era stato portato, e gridava piangendo: «Zio mio, zio mio, svegliati!» ma aveva paura di muoversi. La sua angoscia era pari al suo terrore. Era morto, lo zio? Avrebbe riaperto gli occhi, sollevato la testa? sollevato le mani? Egli non sapeva: egli sapeva che se lo zio era morto non era più il suo zio caro: era un morto, ed egli aveva paura dei morti. [p. 37 modifica]

La luce mancava: tutto si velava, tutto diventava triste e misterioso.

La gente andava e veniva, e le figure apparivano sempre più nere sullo sfondo ancora un po’ chiaro della porta spalancata.

La scaletta che dal portico conduceva al piano superiore risuonava di passi rapidi e pesanti: poi questi passi diventarono lievi, lenti, quasi furtivi, e le figure nere meno numerose: lo sfondo della porta si oscurò, e una voce cantò al di là della siepe, nell’aja del zolfanellajo:

Mi vestirò da monaca
Per ingannar gli amanti:
Ne ho ingannati tanti,
Tanti tanti tanti,
Ingannerò anche te.

Adone strinse i pugni, infuriato. Perchè cantavano? Non sapevano che lo zio era malato? Forse morto?

La voce riprese a cantare:

Tanti tanti tanti...

Egli si rimise a piangere, per dispetto.

Nessuno badava a lui. La voce tacque, tutto fu silenzio. La rondine e i rondinotti di tanto in tanto pispigliavano, come in sogno.

D’un tratto il portico si ripopolò di figure nere: qualcuno rise; una campanella squillò nel cortile.

— Ecco il dottore! [p. 38 modifica]

— È finita! — pensò Adone. — Il dottore! Mio zio deve morire.

La voce iraconda del cordaio lo trasse dal suo sogno doloroso.

Si potrebbe accendere un lume! Adone!

Egli si mosse: entrò in cucina, prese un zolfanello e si curvò sul focolare per accendere il lume.

Sulla cenere calda stavano alcune fette di polenta che Tognina aveva messo ad abbrustolire: da una padellina usciva il grato odore delle rane in umido. E per istinto egli toccò la polenta, annusò le rane, e si accorse che aveva fame: e si senti ancora più triste e disperato.

Fu una notte indimenticabile.

Il malato riprese i sensi, ma non parlava e non si moveva. Verso le nove arrivò la mamma di Adone, e benchè il medico avesse ordinato di non lasciar entrar gente nella camera del malato, ella volle salire a tutti i costi. Per un momento Adone stette sulla porticina della scala, guardando la sua mamma che saliva in punta di piedi e appoggiandosi al muro per non far rumore. Egli chiamò sottovoce!

— Mamma? Mamma?

La donna si volse, gli accennò di star zitto. Allora egli prese una grave decisione: salì, cautamente, afferrò un lembo della sottana della mamma, e per quanti gesti ella facesse, egli non volle più lasciarla. Così, stretti l’uno all’altra, entrarono nella camera del malato. Era una camera vastissima, bassa, con le pareti e le travi tinte di calce: un gran letto di noce, due cassettoni, un tavolino, [p. 39 modifica]una lunga cassa massiccia si perdevano nella vastità di quel camerone, che nonostante tutti quei mobili sembrava vuoto.

Adone e lo zio dormivano assieme in quel gran letto molle, dai materassi e i cuscini di piume. Lo zio russava e parlava in sogno; ma Adone dormiva così bene che non si accorgeva di niente.

Nelle notti d’inverno egli si avvicinava al gigante, e gli pareva d’essere accanto al fuoco, tanto calore il grosso corpo emanava. Di solito, appena svegliati, zio e nipote prendevano il caffè, servito loro da Tognina, che dormiva in un’altra camera e si alzava prima dell’alba. Dopo il caffè, qualche volta, mangiavano un po’ di suc, sugo d’uva congelato. Adone aveva fretta: avrebbe voluto bere il caffè e mangiare il suc nello stesso tempo. Ma lo zio diceva!

— Santa pazienza! Aspetta che vada giù il caffè: ora è qui, nel barbussin, ora è qui nella gola, ora qui nello stomaco.

E col suo ditone peloso gli toccava il mento, la gola, il petto, gli faceva il solletico, lo costringeva a ridere pazzamente.

Sì, l’omone voleva bene all’omino goloso e ridente. Lo conduceva spesso con sè, attraverso i campi, lo copriva fin su gli occhi col suo mantello, e gli domandava:

— Dove siamo, ora?

Se Adone indovinava il punto preciso dove si trovavano, lo zio gli dava una palanchina da due centesimi. Un giorno andarono n Viadana. Era [p. 40 modifica]d’autunno, faceva freddo e Adone camminava sotto il mantellone dello zio. A un certo punto della strada l’omone si fermò e gli mise sulla testa un oggetto che pesava assai.

— Indovina cosa è, - gli disse.

— Un pezzo di parmigiano.

— Hai indovinato il colore. Non è parmigiano, però. Indovina cosa è.

Adone non riuscì a indovinare. Impazientito si sottrasse al peso e sollevò il mantello. E vide che lo zio teneva in mano un sacchettino di tela giallognola.

— Dimmi che cosa è, zio! Dimmelo!

— Se lo domandi per piacere.

— Sì, zio, per piacere!

L’uomo guardò di qua e di là, da una parte e dall’altra dell’argine. Nessuno. Silenzio. I campi erano tutti gialli: gli alberi sembravano d’oro; e il cielo era grigio e freddo, e il fiume pareva immobile, grigio e freddo come il cielo.

Con gesti misteriosi lo zio slegò il sacchetto, e lo abbassò tenendolo con ambe le mani: e Adone potè vedere tante tante monetine gialle fra le quali biancheggiava qualche grossa moneta d’argento.

— E di chi sono? - domandò, abbassando istintivamente la voce.

— Tue.

— Mie? E allora dammele!

— No, caro: quando sarai grande.

— E ora dove le porti? [p. 41 modifica]

— Alla Banca.

— Che cosa è la panca?

— La Banca, non la panca! Un luogo ove si custodiscono i denari. Altrimenti i ladri ce li rubano.

— Io darò tante bastonate ai ladri! Romperò loro la testa, e anche le gambe, - gridò Adone, tacendo atto di bastonare.

Lo zio rise; intanto aveva ancora legato e messo sotto il braccio il prezioso sacchettino.

Ripresero la via. Adone era già stato altre volte a Viadana, e la considerava come una città grandiosa. Sopratutto egli ammirava l’acciottolato delle vie; anche il ponte di chiatte sul Po gli sembrava una cosa magnifica.

Durante il viaggio, del resto molto breve, egli pensò sempre alle monetine gialle, e fu allora che gli venne in mente di comprare un molino, una barca, una carriuola, il palazzo Dargenti. Domandò allo zio perchè non gli consegnava subito le monete, dal momento che egli non aveva paura dei ladri.

— Potresti perderle, anche!

— Ma no; le metterò nella cesta.

Ma lo zio non si lasciò convincere. Allora un’altra inquietudine turbò il ragazzetto.

— E me le daranno, poi? E se tu morrai?

— Lo lascerò scritto. Lascerò scritto che tutta la mia roba è tua.

— E... se morrò prima io? Te le riprendi? Senti, devi fare così: le darai alla mia mamma. [p. 42 modifica]

— Speriamo non sia il caso.

Ma intanto erano giunti. Sotto i suoi piedini Adone sentiva il lastrico della via, e la gioja e l’emozione di trovarsi nella città gli faceva dimenticare ogni altra cosa.

Ed ora lo zio giaceva sprofondato fra i cuscini di piume. Il suo viso diventava sempre più cadaverico: le sue mani, abbandonate sulle lenzuola, sembravano già morte.

Tognina, col viso reclinato sul povero gigante abbattuto come una quercia dal fulmine, gli copriva la fronte con pannolini bagnati; e di tanto in tanto gli sollevava ora l’una ora l’altra mano e dopo averla tenuta alquanto sospesa la lasciava ricadere sul lenzuolo umido.

Adone guardava, con tristezza e paura. Domandò sottovoce!

— È morto?

Nessuno rispose. Soltanto Pirloccia si mise un dito sulle labbra, e Adone non osò più fiatare.

L’ometto s’era installato accanto al Ietto di Giovanni, e pareva non avesse intenzione di muoversi. Nella penombra, coi suoi occhietti lucidi come quelli di un to|M>, intenti a spiare il momento della morte del gigante, egli pareva uno gnomo maligno pronto a compiere qualche opera cattiva. [p. 43 modifica]

La mamma di Adone s’era avvicinata a Tognina e le diceva qualche parola sottovoce. A un tratto gli occhi vitrei del malato parvero animarsi; le sue labbra si mossero. Egli aveva sentito la presenza del fanciullo e Tognina comprese ch’egli voleva vederlo. Si volse, guardò Adone con gli occhi pieni di lagrime, gli fece cenno di avvicinarsi. Adone si gettò sul letto, guardò avidamente il caro viso e non lo riconobbe più. Il suo zio rosso e sorridente era già morto: di lui non rimanevano che i capelli e i baffi: tutto il resto s’era trasformato orribilmente.

Sotto gli occhi del malato, ridiventati vitrei, si disegnavano due vene, livide e gonfie: Adone passò il ditino sopra queste vene, quasi volendole far sparire; poi si mise a piangere dirottamente. Li mamma lo prese per le spalle, lo trascinò fuori della camera e lo sgridò, piano, piano, minacciando di batterlo se non stava zitto. Allora egli tacque: si volse e vide che l’ometto silenzioso s‘era alzato e chiudeva l’uscio della camera.

Egli e la mamma rimasero nel pianerottolo. Ella gli strinse la mano, se lo tirò dietro, giù per la scaletta. Nell’atrio, che era un lungo andito sul quale s’aprivano gli usci delle stanze terrene, v’erano parecchie persone, fra le quali due figli del Pirloccia, due gemelli uno dei quali era bruno e olivastro come il padre e l’altro così albino che pareva canuto. Un vecchio bifolco, fratello di Jusfin l’ex-cacciatore, accendeva un lumino ad olio davanti all’immagine di San Simone [p. 44 modifica]Giuda, inchiodata dentro una piccola nicchia del muro. Grosse lagrime gli solcavano il viso rugoso e andavano a perdersi fra i peli ispidi dei balli grigi. Adone vide la sua mamma avvicinarsi al vecchio e dirgli sottovoce qualche parola: poi uscirono nell’aja e di là nella strada.

Era una notte soavissima. Gli usignuoli cantavano, fra un coro dispettoso di rane e di rospi; il profumo del fieno e del grano ondeggiava nell’aria, quasi fondendosi col canto degli usignuoli e con lo splendore delle lucciole. La luna grande e dorata saliva dietro i pioppi, sul cielo azzurro; l’acqua dei fossi rifletteva i tronchi neri, le erbe grigie brillanti di lucciole, e in fondo in fondo il cielo azzurro e le stelle d’oro.

Questi riflessi destavano sempre una grande meraviglia in Adone. Ma quella sera egli pensava ad altro. Un mistero terribile, ben più profondo di tutte le meraviglie della terra, turbava la sua piccola anima. Madre e figlio camminarono per un buon tratto di strada, silenziosi. Egli sentiva che la mamma voleva dirgli qualche cosa e la seguiva volentieri.

— Senti, — ella disse, sottovoce, quando furono alquanto lontani. — Dimmi una cosa. Nel cassetto del tavolino, in camera dello zio, che cosa c’è?

— Tante monete gialle e bianche.

— Le hai proprio vedute?

— Sì, sì, eh, altro!

— E carte ce ne sono?

— Carte da giuoco? [p. 45 modifica]

— No, no. Carte scritte.

Egli pensò, ricordò:

— Sì, sì, ce ne sono.

— Chi ha la chiave? Lo zio?

— Sì, lui, sempre. Di notte la mette sotto il cuscino.

— Senti bene — disse la mamma, fermandosi. — Bisogna che tu ritorni in camera dello zio. Mettiti in un angolo e sta zitto zitto. E sta attento se aprono quel cassetto.

— Io? Io ho paura, — egli disse tremando. — Come farò a star lì, se lo zio muore?

— Senti, caro il mio omino. Bisogna che tu ci stii, là, almeno finchè torno io. Va, fatti coraggio. Io ora corro a casa, cerco qualcuno che dia attenzione ai tuoi fratellini. Poi torno... Se non è troppo tardi!

— Perchè non l’hai fatto prima? Ma perchè?... — egli singhiozzò, attaccandosi nuovamente a lei.

— Caro il mio omino, non credevo che tuo zio stesse così male. Va, ora, va!

Ma egli aveva paura. Lasciò che la mamma si allontanasse e invece di ritornare verso casa s’avvicinò alla chiesa. L’ombra dei pioppi si disegnava nettamente sull’erba del prato: i tronchi sembravano colonne di marmo, e le loro ombre colonne nere buttate per terra. Egli aspettava trepidando il ritorno della mamma: ella lo avrebbe sgridato, di certo, ma egli preferiva ogni tormento a quello di ritornare in camera dello zio. Cautamente s’avvicinò ai pioppi: qualche cosa bisognava pur fare. [p. 46 modifica]

E piano piano cominciò a passare e ripassare su quelle ombre nere, eguali, immobili, che andavano a perdersi nell’ombra compatta verso il cancello Dargenti. Ma ad un tratto egli provò un senso di spavento. Gli parve di vedere un viso deforme e giallo affacciarsi tra il fogliame dei pioppi: un sospiro profondo attraversò l’aria. Egli si mise a correre, e ritornò a casa. Il portone era sempre socchiuso. Nell’andito vegliavano ancora i tigli del Pirloccia, una loro zia sorella di Tognina, e il vecchio bifolco. Nella nicchia, davanti all'immagine rossa e gialla di San-Simone Giuda, ardeva entro un bicchiere una fiammella galleggiante. Il bifolco diceva a voce bassa il rosario; gli altri rispondevano bisbigliando. Adone andò a sedersi sotto alla nicchia, e anch’egli pregò. Guardava sempre verso la porta, aspettando ansiosamente la mamma: aveva sonno, però, e la testa gli si piegava sul petto. A momenti gli occhi gli si chiudevano: allora gli pareva d’essere ancora nel viottolo, con le ciliegie sulle orecchie e il cestino in mano. S’udiva la voce dello zio: tutto era stato un sogno; lo zio era sano e allegro, l’uomo che giaceva sul gran letto molle, nella camera grande, era uno sconosciuto, un essere misterioso del quale egli aveva paura. Anche il Pirloccia gli destava paura. Gli pareva di vederlo: il piccolo uomo nero si alzava piano piano, frugava sotto il cuscino del malato, prendeva la chiave, poi correva lungo il muro come un topo e usciva dalla camera. [p. 47 modifica]

— Se passa di qui lo prendo per le gambe e lo morsico, — pensava Adone, spavaldo anche in sogno.

Ma all’improvviso egli sollevò la testa e trasalì. La Tognina attraversava l’andito, silenziosa, con un bicchiere in mano. Pareva anche lei moribonda, tanto era gialla in viso e sfinita.

La zia Elena le andò incontro e le prese di mano il bicchiere. La donnina tornò su. La zia Elena attraversò anche lei l’andito, col bicchiere in mano.

Adone reclinò ancora la testa. Gli parve di udire il passo della mamma, in lontananza.

— Ella non mi sgriderà se dormo, — pensò. E fìnse di dormire, e fingendo s’addormentò davvero.

Quando egli si svegliò lo zio era morto.