L'avventuriere onorato/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di don Filiberto.
Don Filiberto, poi Berto con una lettera.
Filiberto. Mia moglie non fa che tormentarmi a causa di questo forestiere; non è mai contenta del trattamento ch’io gli fo. Non farebbe tanto, se fosse un nostro parente... Basta: conosco donna Aurora; so ch’è una moglie onorata; lo so, lo credo, e non mi voglio inquietare.
Berto. Signore, una lettera.
Filiberto. Chi la manda?
Berto. Favorisca d’aprirla, e lo saprà subito.
Filiberto. Bravo il signor dottore!
Berto. (La mia dottrina non la scambierei colla sua). (da sè, e parte)
Filiberto. (Apre la lettera e osserva la sottoscrizione) Il Conte di Brano. Oh! che mi comanda il signor Conte? Amico, voi avete in casa un impostore, che ebbe l’ardire di passar per medico, tuttochè confessi egli medesimo di non esser tale, sagrificando al vile interesse la vita degli uomini. Io l’ho conosciuto in Gaeta, da dove sarà fuggito per la scoperta della sua impostura. La vostra casa onorata non dee prestar asilo a simil sorta di gente, onde vi consiglio scacciarlo, e se volesse resistere, assicuratevi della mia assistenza. Oh, che cosa sento! Dica ora mia moglie ciò che sa dire, da qui a quattro giorni al più, voglio per assoluto ch’ei se ne vada. Piuttosto gli renderò il suo denaro.
SCENA IL
Il Conte Portici e detto.
Conte. Amico, si può venire?
Filiberto. Ohi signor conte Portici, mi fate onore. Che cosa avete da comandarmi?
Conte. Non avete voi in casa un forestiere, che ha nome Guglielmo?
Filiberto. È verissimo.
Conte. Io vi parlo da amico: non vi consiglio tenerlo più lungamente con voi. Non si sa chi egli sia. Fa da poeta, ma credo che per causa di certa satira, sia stato scacciato dal paese dov’era prima; e se i suoi nemici lo trovano in casa vostra, avrete de’ guai.
Filiberto. Signore, vi ringrazio con tutto il cuore. Mi prevarrò dell’avviso che voi mi date.
Conte. Ognuno poi anche si stupisce di voi, che tenghiate in casa un giovine sconosciuto. Vi parlo da amico, si mormora assai di vostra moglie, e la vostra riputazione è in pericolo.
Filiberto. Dite davvero?
Conte. Il zelo di buon amico mi ha spinto ad avvertirvi di ciò. Non crediate già ch’io sia sì temerario di credere che donna
Aurora sia una donna di poca prudenza, ma il mondo è tristo; facilmente si critica, e voi vi renderete ridicolo.
Filiberto. Caro signor Conte, quanto vi son tenuto!
Conte. Prevaletevi dell’avviso. Schiavo, a rivederci.
Filiberto. Vi son servo, signor Conte.
Conte. (Costui non resterà lungo tempo in Palermo). (da sè, e parte)
SCENA III.
Don Filiberto, poi Berto con un altro viglìetto.
Filiberto. Si mormora di me? Si mormora di mia moglie? Domani lo licenzio senz’altro.
Berto. Signore, ecco un altro viglietto. (Ora almeno a un bisogno non ci mancheranno fogli). (da sè)
Filiberto. Il signor Guglielmo è in casa?
Berto. C’è la padrona, ci avrebbe da essere egli pure.
Filiberto. Che c’entra la padrona con lui? (alterato)
Berto. Che so io? Parlo a aria, signore.
Filiberto. Di’ al signor Guglielmo, che favorisca di venir qui.
Berto. Subito. (Se c’entra o se non c’entra, lo saprà la padrona). (da sè, parte)
SCENA IV.
Don Filiberto solo, poi Guglielmo.
Filiberto. Chi è che scrive? Se ci fosse colui, direbbe: favorisca di aprire, che lo saprà. Non ha tutto il torto però; vediamo: Il Marchese d’Osimo. Che dice il signor Marchese mio padrone? Guardatevi dal forestiere che avete in casa. Non sapendosi chi egli sia, e reso sospetto al Governo, e voi siete in vista, prestando asilo ad una persona che può essere macchiata di reità. Rimediate per tempo al pericolo che vi sovrasta, e gradite l’avviso di chi vi ama. Non occorr’altro. Eccolo; lo licenzio in questo momento.
Guglielmo. Che mi comanda il signor don Filiberto?
Filiberto. Signor Guglielmo carissimo, vi ho da dire una cosa che mi dispiace infinitamente.
Guglielmo. Dite pure senza riguardi. Cogli amici non ci vogliono certe riserve.
Filiberto. Davvero, quasi non so come principiare.
Guglielmo. Dite su liberamente.
Filiberto. Vedo che siete un uomo pieno di virtù e di merito; ma io... Oh, quanto me ne dispiace!
Guglielmo. Via, senza che diciate altro, v’ho capito, e vi risparmierò la fatica di terminar il discorso. Volete dirmi essere ormai tempo che vi levi l’incomodo, e che me ne vada di casa vostra; non è egli vero?
Filiberto. Non intendo scacciarvi di casa mia... Ma... non saprei... Avrei da servirmi di quelle camere.
Guglielmo. Benissimo. Tanto mi basta. Vi ringrazio di avermi sofferto con tanta generosità. Assicuratevi che conosco le mie obbligazioni, che so le mie convenienze, e che sarei andato via prima d’ora, se dalla bontà della vostra signora consorte non fossi stato soavemente violentato a restare.
Filiberto. (Hanno ragione, se mormorano di mia moglie), (da sè)
Guglielmo. Domani vi leverò l’incomodo. Vorrei pregarvi soltanto di questa grazia sola, che mi diceste il motivo, perchè mi licenziate così su due piedi?
Filiberto. Per ora, compatitemi, non posso dirvi di più. Dunque anderete domani?
Guglielmo. (Dubito ch’egli sia diventato geloso della moglie. Quelle dieci doppie chi sa che cosa abbiano partorito? ) (da sè) Signore, se così vi aggrada, son pronto a partire in questo momento.
Filiberto. No, non dico in questo momento. Ma... che so io? Se non v’incomodasse andar questa sera.
Guglielmo. Non vi è niente di male. In meno d’un’ora, senza che nessuno sappia i fatti nostri, me ne vado in un altro quartiere.
Filiberto. Caro amico, me ne dispiace, torno a dirvi, infinitamente, ma credetemi, non posso far a meno di non far così. Un giorno poi vi dirò ogni cosa.
Guglielmo. Ed io per ora non parlo, perchè voi siete il padrone di casa vostra, e a chi m’ha fatto del bene, non voglio arrecar dispiaceri. Ma un giorno verremo in chiaro di tutto. Signor don Filiberto, vi domando perdono degl’incomodi che vi ho cagionati; vi ringrazio infinitamente, e mi darò l’onore con comodo di riverirvi. (in atto di partire)
Filiberto. Ehi. Sentite. Di quelle dieci doppie cosa facciamo?
Guglielmo.1 (Cospetto! le dieci doppie adunque sono provenute da lui), (da se) Non so che dire; farò tutto quello che voi volete. (Se le vorrà indietro, converrà metterle fuori). (da sè)
Filiberto. Gli uomini d’onore non si approfittano dell’altrui denaro.
Guglielmo. Se siete voi un galantuomo, tale mi professo di essere ancora io.
Filiberto. Le dieci doppie... (tirando fuori la borsa)
Guglielmo. Sì signore, ecco qui le sue dieci doppie, (mostra la borsa)
Filiberto. Come! Sono qui le vostre dieci doppie, (scuote la borsa)
Guglielmo. Le mie? Dico che le vostre sono in questa borsa.
Filiberto. Oh bellissima! Non avete voi dato dieci doppie effettive di Spagna a mia moglie, perchè comprasse della cioccolata?
Guglielmo. Oh! che dite voi? Ella ha dato a me dieci doppie per le mie occorrenze.
Filiberto. Come va questa faccenda?
Guglielmo. Ecco la signora donna Aurora; ella diluciderà ogni cosa.
SCENA V.
Donna Aurora e detti.
Filiberto. Moglie mia, queste dieci doppie a chi vanno?
Guglielmo. E queste di chi sono? (ciascheduno mostra la borsa)
Aurora. (Che cosa2 ho da dire io?) (da sè) Chi le ha, se le tenga.
Filiberto. Io non le voglio in questa maniera.
Guglielmo. Nemmeno io certamente.
Aurora. Chi non le vuol, non le merita. Le prendo io. (E le restituirò a donna Livia). (leva la borsa di mano a don Filiberto e a don Guglielmo, e parte)
SCENA VI.
Don Filiberto e Guglielmo.
Filiberto. Dunque voi non avete dato a mia moglie le dieci doppie?
Guglielmo. Vi dico, signore, che ella ha favorito me delle altre dieci.
Filiberto. (Come va la cosa dunque? Mia moglie avea venti doppie?) (da sè)
Guglielmo. (Questo è un imbroglio. Sarà meglio ch’io me ne vada). (da sè) Don Filiberto, vi sono schiavo.
Filiberto. Amico, scusate.
Guglielmo. Scusate voi l’ardire con cui...
Filiberto. Non parliamo altro.
Guglielmo. (Ora è il tempo di accettare l’esibizione della vedova; chi sa ch’ella non mi aiuti davvero? Tutto il male non vien per nuocere). (da sè, parte)
Filiberto. Venti doppie? Venti doppie? Di dove le può aver avute? Io non sono mai stato geloso, ma queste venti doppie mi farebbero far de’ lunari. (parte)
SCENA VII.
Camera in casa di donna Livia.
Donna Livia, poi il Paggio.
Livia. Chi pretende violentar il mio cuore, s’inganna. Io non ho ricchezza maggiore della mia libertà, e mi crederei miserabile nell’abbondanza, se non potessi disporre di me medesima. Guglielmo sempre più m’incatena, e se assicurar mi potessi de’ suoi natali, non esiterei a sposarlo in faccia di tutto il mondo, e a dispetto di tutti quelli che aspirano alle mie nozze.
Paggio. Signora, è qui il signor maestro.
Livia. Chi?
Paggio. Il signor maestro. Quello che mi ha favorito, con riverenza, de’ cavalli.
Livia. Non lo chiamare mai più con questo nome. Egli è il signor Guglielmo. Fa che passi.
Paggio. (Ancora quando lo vedo, mi fa tremare). (da sè, parte)
SCENA vili.
Donna Livia, poi Guglielmo.
Livia. Non ha tardato a venirmi a vedere. Segno che conosce la mia parzialità, e l’aggradisce.
Guglielmo. Servitor umilissimo, mia signora.
Livia. Riverisco il signor Guglielmo: vi ringrazio che siete venuto a vedermi. Che vuol dire, che ora non mi parete più tanto allegro?
Guglielmo. Mah! S’è cangiato il vento, signora. Il mare parea per me abbonacciato, ma ora è più che mai in burrasca.
Livia. Che c’è? Qualche novità?
Guglielmo. La novità non è picciola. Il signor don Filiberto con gentilezza mi ha dato il mio congedo, ed io sono un uccellin sulla frasca, senza nido, senza ricovevo e senza panico.
Livia. Per che causa don Filiberto vi ha licenziato?
Guglielmo. Non saprei; male azioni io non ne ho fatte certo. Si sarà stancato di favorirmi.
Livia. Ma si licenzia di casa un galantuomo così da un momento all’altro? (La cosa mi mette un poco in pensiero!) (da sè)
Guglielmo. In fatti il mio decoro ne tocca in questo fatterello ch’è qui. Non ha voluto dirmi il perchè; credo per altro potermelo immaginare.
Livia. Sarebbe bene che in ogni modo si venisse in chiaro della verità.
Guglielmo. Ho paura, per dirgliela, che quelle dieci doppie che mi ha dato donna Aurora questa mattina...
Livia. Dieci sole ve ne ha date?
Guglielmo. Dieci sole. Non ha sentito?
Livia. E vi ha lasciato uscire di casa sua, senza darvene dieci altre?
Guglielmo. Anzi ha ripigliate anche quelle che mi aveva donato.
Livia. Le ha ripigliate? Questa è un’azione indegna. A questo passo non so più contenermi. Sappiate che io stamane ho mandate venti doppie a donna Aurora, acciò, per via d’amicizia, senza che voi sapeste da chi venissero, fossero a voi donate.
Guglielmo. Ora capisco il mistero. Le venti doppie le ha divise a puntino: metà a me, e metà a suo marito. Sempre più, signora donna Livia, si accrescono le mie obbligazioni verso di lei; e sempre più mi maraviglio come don Filiberto abbia potuto farmi la mal’azione.
Livia. L’avranno fatto per profittar delle venti doppie; ma non gliela vo’ menar buona. Mi sentirà donna Aurora...
Guglielmo. La supplico, signora; se son degno di sperar qualche grazia, non mi nieghi questa per amor del cielo. Dissimuliamo, doniamo tutto a donna Aurora, a don Filiberto. Mi hanno mantenuto per tanto tempo, non è giusto ch’io paghi con un risentimento le obbligazioni che ho seco loro contratto.
Livia. Siete un uomo di belle viscere. Ammiro la vostra gratitudine, e me ne compiaccio.
Guglielmo. La gratitudine è un debito, che non si cancella nemmeno cogl’insulti di quello che ci ha una volta fatto del bene.
Livia. (Sempre più con queste belle massime m’innamora), (da sè) Che cosa dunque risolvete di fare?
Guglielmo. Non lo so nemmen io. (sospirando)
Livia. Caro signor Guglielmo, se la casa mia vi aggrada, ve ne fo padrone.
Guglielmo. Signora, la sua esibizione mi consola. Ma un giusto riguardo mi tiene in dubbio, se io la debba accettare.
Livia. E qual è questo dubbio?
Guglielmo. Ella è sola, io sono un forestiere; con qual titolo onesto vorrebbe ella ch’io stessi in casa?
Livia. Se vi degnate, avrete la bontà di assistere agli affari della mia casa, e di rispondere per me a qualche lettera di rimarco.
Guglielmo. Se mi degno, ella dice? Una signora com’ella è, rende onore e dà fregio a chi ha la sorte di poterla servire.3
SCENA IX.
Il Paggio e detti
Paggio. Signora, è domandata.
Livia. Chi mi vuole?
Paggio. Una giovane forestiera ch’io non conosco.
Livia. Fatti dire chi è.
Paggio. Non lo vuol dire. Desidera parlar con lei.
Livia. Dille che si trattenga, che ora sono da lei.
Paggio. (Il signor maestro viene spesso a dar le lezioni alla mia padrona). (da sè)
Livia. Chi può esser costei? Or ora la vedrò. Signor Guglielmo, tenete questa lettera; vi supplico di rispondere immediatamente.
Guglielmo. Come comanda ella che io risponda? Mi dica il suo sentimento.
Livia. Rispondete come vi piace. Sentite il tenor della lettera, e formate voi quella risposta che le dareste, se foste nel caso mio. (Nella maniera con cui risponderà a questa lettera da me inventata, rileverò s’egli ha il coraggio di aspirare alle nozze di una persona, che da tanti soggetti nobili vien ricercata). (da sè, e parte)
SCENA X.
Guglielmo solo. Bella, bella davvero! Vuol ch’io risponda alla lettera, e non mi dice la sua intenzione. A questo modo, ella non mi fa solamente suo segretario, ma mi rende arbitro del suo cuore. Oh, se ciò fosse vero, felice me! Chi sa? Di questi casi se ne sono dati degli altri. Ma Eleonora? Eleonora si è scordata di me, ed io non mi ricorderò più di lei. Sentiamo il tenore di questa lettera, per pensare a quello che dovrò rispondere. A chi è diretta? A donna Livia. Chi la scrive? Non c’è nemmeno la sottoscrizione. Ella conoscerà il carattere; ma io, se non so chi scrive, non saprò nemmeno in quai termini concepir la risposta. Leggiamo: Cugina amatissima. Scrive un suo cugino. A Voi è noto quanto interesse io mi prenda in tutto ciò che vi può render contenta, poichè, oltre il titolo della parentela, ho una particolare tenerezza per voi... Un cugino ha della tenerezza per lei? Alle volte anche i parenti... Basta, tiriamo innanzi. Non posso perciò dissimulare aver io inteso con qualche sorpresa, che voi distinguete un giovine forestiere, a segno che, ingelositi di lui tutti quelli che aspirano alle vostre nozze, si teme che lo vogliate altrui preferire nel possesso della vostra mano. Si teme dunque ch’ella voglia me preferire? I pretendenti suoi hanno di me gelosia? Convien dire ch’ella abbia dato loro motivo di sospettare così. In fatti ella mi fa arbitro del suo cuore; mi fa rispondere a lettere di questa sorta a piacer mio, dunque siamo a cavallo; donna Livia mi ama, donna Livia è poco meno che mia... Ma adagio, non andiamo di galoppo. Sentiamo il resto di questa lettera. Niuno si può opporre al piacer vostro, ma ricordatevi che perdereste tutta la vostra estimazione, se vi sposaste ad un uomo di vil condizione... In quanto alla nascita, le farò vedere e toccar con mano, che potrei aspirare alle nozze di una che fosse nobile. Questo di cui sento parlare, è un incognito che non sa dar conto di sè. Molti lo credono un impostore. Evvi chi dice ch’ei possa essere con altra donna legato, onde pensateci, e s’egli non si dà bene a conoscere, allontanatelo dalla vostra casa, e discacciatelo dal vostro cuore. Ho capito. A questa lettera ella vuol ch’io risponda, e vuole che la risposta sia a genio mio. Risponderò, e dal tenore della mia risposta capirà chi scrive; e capirà chi diede a me questa lettera, che Guglielmo è bensì un uomo che non sa alzare l’ingegno per farsi ricco: ma non è sciocco nemmeno, per lasciarsi fuggir dalle mani le trecce della fortuna. (parte)
SCENA XI.
Altra camera di donna Livia.
Donna Livia ed Eleonora.
Livia. Qui in questa stanza staremo con maggior libertà. Qui potete svelarmi ogni arcano, senza timore che nessuno ci ascolti.
Eleonora. Prima ch’io passi a narrarvi la serie delle mie disavventure, permettetemi ch’io vi chieda se sia a vostra notizia, che trovisi qui in Palermo un giovine Veneziano, nominato Guglielmo.
Livia. Sì, egli è in Palermo; lo conosco benissimo. (Oimè! mi trema il cuore). (da sè)
Eleonora. Deh, assicuratemi se sia vero ciò che poc’anzi mi venne asserito, cioè s’egli trovisi nella vostra casa.
Livia. È verissimo, egli è in mia casa.
Eleonora. Ah! signora, sappiate che Guglielmo è il mio sposo.
Livia. Come! vostro sposo Guglielmo?
Eleonora. In Napoli ei mi diede la fede.
Livia. Le nozze sono concluse?
Eleonora. Egli partì nel punto in cui si dovevano concludere.
Livia. Per qual ragione vi abbandonò?
Eleonora. Guglielmo in Napoli avea intrapreso un certo traffico mercantile...
Livia. (Ha fatto anche il mercante). (da sè)
Eleonora. Ed era unito in società con un altro. Lo tradì il suo compagno, gli portò via i capitali, e il pover’uomo fu costretto a partire.
Livia. Dove andò egli?
Eleonora. A Gaeta.
Livia. A fare il medico?
Eleonora. È vero; la necessità lo fece prender partito.
Livia. Torno in Napoli a rivedervi?
Eleonora. Tornovvi dopo il giro di pochi mesi. Ma siccome lo insidiavano i creditori, assassinati dal compagno infedele, dovette nuovamente partire, e si è ricoverato in Palermo.
Livia. Con voi ha tenuto corrispondenza?
Eleonora. Appena ebbi la prima lettera, mi partii tosto da Napoli per rintracciarlo. I venti contrari mi tennero quattro mesi per viaggio: egli non ha avute mie lettere, e forse mi crederà un’infedele.
Livia. (Ah, mie perdute speranze! Ah Guglielmo, tu non mi dicesti di essere con altra donna impegnato!) (da sè)
Eleonora. Deh, movetevi a pietà di me. Concedetemi ch’io veder possa il mio adorato Guglielmo.
Livia. Eccolo ch’egli viene alla volta nostra. (La gelosia4 mi divora). (da sè)
Eleonora. Oh cielo! La consolazione mi opprime il cuore.
SCENA XII.
Guglielmo con un foglio in mano, e dette.
Guglielmo. Eccomi, signora, colla risposta... (a donna Livia)
Livia. Ecco a chi dovete rispondere. (prende la lettera con disprezzo) Osservate una sposa, che viene in traccia di voi.
Guglielmo. (Eleonora!) (da sè, con ammirazione)
Eleonora. Caro Guglielmo, adorato mio sposo, eccomi a voi, dopo il corso di quattro mesi...
Guglielmo. Quattro mesi senza nemmeno scrivermi? Siete un’ingrata.
Eleonora. Quattro mesi ho consumato appunto nel viaggio. Mi partii all’arrivo della vostra lettera; ed ecco registrato in queste fedi il giorno della mia partenza.
Guglielmo. (Questo è un colpo grande; ma ci vuole franchezza e disinvoltura). (da sè) Cara Eleonora, siete arrivata in tempo che il cielo ha provveduto per me, e spero avrà provveduto anche per voi. Questa buona signora, piena di carità, degnossi appoggiare a me gli affari domestici della sua casa; mi ha ella beneficato con un assegnamento di trenta ducati al mese; onde con questo, sposati che noi saremo, potremo vivere comodamente.
Livia. Male avete fondate le vostre speranze. Io non tengo in mia casa persone in matrimonio congiunte, e molto meno sposi, amanti, incogniti, fuggitivi. Provvedetevi altrove; voi non fate per me.
Guglielmo. Come! Ella mi licenzia?
Livia. Sì, vi licenzio.
Eleonora. Signora, se per causa mia lo private di tanto bene, pronta sono a partire.
Livia. Non più. Andatevene immediatamente di casa mia. (a Guglielmo)
Guglielmo. Non so che dire. Vi vuol pazienza. Ma non ho mai creduto però, che ad una persona di garbo, saggia e civile, com’ella è, potesse spiacere un uomo che sa mantenere la fede; un uomo che, per non vedere sagrificato l’onore di una fanciulla, si contenta piuttosto di perdere la sua fortuna, e di passare miseramente i giorni della sua vita. Signora, me n’anderò; penerò fra gli stenti, ma non mi pentirò mai di un’azione onorata: e mi saranno sempre care le mie miserie, rammentando avermele io medesimo procurate, per non mancare alla mia parola, per non abbandonare una giovane, che ha posto a rischio per me la propria vita e la propria riputazione. (parte)
SCENA XIII.
Donna Livia ed Eleonora.
Livia. (Eppure mi muove ancora a pietà). (da sè)
Eleonora. Infelice Guglielmo! Oimè! per mia cagione ti sarai tu medesimo precipitato? Ma qualunque sia il tuo destino, teco mi avrai a parte. Ti seguirò per tutto... (in atto di partire)
Livia. Fermatevi. Tralasciate di piangere e ritiratevi in quella stanza.
Eleonora. No, signora, non lo sperate. Voglio seguitare il mio sposo.
Livia. Se amate Guglielmo, se avete premura del di lui bene, non partite di qui per ora.
Eleonora. Oh cielo! Che volete voi far di me?
Livia. Una donna onorata non può che procurar di giovarvi.
Eleonora. Perchè licenziar di casa vostra Guglielmo?
Livia. Perchè in casa mia riunir non voglio due amanti, dopo essere stati per quattro mesi disgiunti.
Eleonora. Vi ritornerà egli?
Livia. Sì, forse vi tornerà.
Eleonora. Abbiate compassione di noi.
Livia. Ritiratevi e non dubitate.
Eleonora. Cieli, a voi mi raccomando. (parte)
SCENA XIV.
Donna Livia sola.
Perchè scacciarlo da me? Perchè privarlo della mia casa? Di che è egli reo? Mi ha forse giurato la di lui fede? Mi ha egli promesso amore? Mi ha assicurato di non essere con altra donna legato? Ah, che soverchiamente la gelosia mi ha acciecato! Infelice Guglielmo, andrai ramingo per mia cagione? No, torna in casa, torna ad occupare quel posto... Ma che? avrei cuor di soffrirlo vicino, colla rivale dinanzi agli occhi? Potrei vederlo porgere alla cara sposa gli amplessi? No, non fia mai: vada pure da me lontano. Egli non è degno di me. A tempo m’illumina il cielo, mi provvede il destino. Ma giacchè ha egli formato la risposta alla lettera da me finta, vedasi con quai sentimenti ha risposto. Può essere che i sensi di questo foglio servano a maggiormente disingannarmi. (Apre e legge) Signore. L’interesse che voi prendete per la delicatezza dell’onor mio, non è che una costante prova del vostro amore verso di me; onde trovomi in debito prima di ringraziarvi e poi di giustificarmi. Se io ho mirato con occhio di parzialità l’incognito di cui parlate, ciò non è derivato per una cieca passione, ma perchè non mi parve degno del mio disprezzo. Se quelli che hanno qualche pretensione sopra di me, lo guardano con gelosia, conosceranno di meritare assai meno di lui, e non mi curo delle critiche mal fondate, risguardando in me stessa l’onestà del mio cuore e de’ miei pensieri. So ancor io preferire il decoro alle mie passioni, e quando amassi un incognito, non caderci nella debolezza di farmi sua, senza prima conoscerlo. Io non amo il signor Guglielmo: se l’amassi, non mi dichiarerei alla cieca; ma certa sono, che se assicurarmi volessi della sua nascita, non sarebbe egli indegno della mia mano. Mi direte: chi di ciò vi assicura? Risponderò francamente, che chi per quattro mesi ha dato saggi di onesto e discreto vivere, non fa presumere che abietti sieno i di lui natali. Oimè! Che lettera è questa? Che lettera piena di misteriose parole! Può egli con maggior delicatezza rispondere? Sostiene il diritto della mia libertà, senza offendere la persona a cui suppone di scrivere. Parla di se con modestia, e fa conoscere che è nato bene. Tratta l’amor mio con tale artifizio, che nell’atto medesimo in cui mi fa dire: Non amo il signor Guglielmo, il resto della lettera prova tutto il contrario. E un uomo di questa sorta potrò io privarlo della mia grazia? Ma a che impiegare la grazia mia per uno che ad altra donna ha donato il cuore? E non potrei averlo meco, senza pretendere il di lui cuore? No, non è possibile ch’io lo faccia. O deve esser tutto mio, o non l’ho più da vedere. Come mai potrebbe egli divenir mio? Amore assottiglia l’ingegno de’ veri amanti. Io non dispero, qualche cosa sarà. (parte)
SCENA XV.
Strada colla casa di donna Livia.
Il Conte di Brano, poi Guglielmo che esce di casa
di donna Livia.
Conte. Donna Livia è una bella donna, è una ricca vedova; e non ci sarà in Palermo chi vaglia a contrastarmi l’acquisto di una sposa piena di merito e di fortuna. Guglielmo, scacciato per ora da don Filiberto, sarà esiliato dalla città.
Guglielmo. (Esce di casa di donna Livia melanconico.)
Conte. (Come! Colui in casa di donna Livia?) (da sè)
Guglielmo. (Ci vuol coraggio; qualche cosa sarà. Eleonora è venuta in tempo per rovinarmi. Pazienza. L’attenderò qui in istrada per ringraziarla). (da sè)
Conte. (Temerario!) (guardando bruscamente Guglielmo, nel mentre che gli passa vicino)
Guglielmo. Servitor umilissimo. (al Conte)
Conte. Con qual coraggio siete tornato voi in quella casa?
Guglielmo. Un galantuomo può andar per tutto.
Conte. Voi non siete un galantuomo.
Guglielmo. Non lo sono? Con qual fondamento può dirlo, padron mio?
Conte. Se avete avuto l’ardire di passar per medico, e non lo siete, vi manifestate per un impostore.
Guglielmo. Se non sono medico di attual professione, posso esserlo quando voglio, perchè ho cognizione, ho abilità, ho teorica, ho pratica per far tutto quello che fanno gli altri.
Conte. Siete un gabbamondo.
Guglielmo. Mi maraviglio di voi, sono un uomo d’onore.
Conte. E se anderete in quella casa, giuro al cielo, vi farò romper le braccia.
Guglielmo. Ora lo capisco. Sono un impostore, un gabbamondo, perchè vo in casa di donna Livia. Signor Conte, ella parla assai male.
Conte. Giuro al cielo, così si dice a un mio pari?
Guglielmo. Vi venero, vi rispetto, ma non mi lascio calpestar da nessuno.
Conte. Vi calpesterò io co’ miei piedi. (alterato, con agitazione)
Guglielmo. La cosa sarà un pochetto difficile. (Or ora gli vengono i flati ipocondriaci). (da sè)
Conte. Se non temessi avvilir la mia spada, vorrei privarti di vita.
Guglielmo. S’ella si proverà d’avvilire la di lei spada nel mio sangue, io cercherò di nobilitar la mia nel suo petto.
Conte. Ove sono i miei servitori? (guardando per la scena)
Guglielmo. Ha bisogno di nulla? Son qui, la servirò io. (ironico)
Conte. Voglio farti romper le braccia.
Guglielmo. Se ne avessi quattro, potrei servirla di due. (come sopra)
Conte. Temerario! ancor mi deridi? Ti bastonerò.
Guglielmo. Mi bastonerà? S’ella mi tratterà da villano col bastonarmi, io la tratterò da cavaliere, l’ammazzerò.
Conte. (Oimè! Sento che la bile mi affoga; il mio decoro non vuole che con costui mi cimenti. Mi sento ardere, mi sento crepare). (da sè, va smaniando per la scena)
Guglielmo. Signor Conte, si fermi, si quieti; ella può cascar morto.
Conte. Io? cascar morto? Oimè! come?
Guglielmo. Sì signore; lo conosco agli occhi, al color della faccia. Ascolti un medico che ragiona, non un impostore che parla. La di lei collera è prodotta da un irritamento, che fa la bile nel finimento dell’intestino duodeno e nel principio dell’intestino digiuno, ove bollono i sughi viziosi, onde si stimola eccedentemente il piloro al moto preternaturale e confuso, da che provengono gravissimi sintomi ai precordii. Nel tempo medesimo passa il sugo bilioso per i canali pancreatici e colidochi, e si stempra e si corrompe la massa del sangue, e fra la convulsione prodotta nella diramazione dei nervi, e fra la corruzione che si forma nel sangue, scorrendo questo con troppa espansione per le vene anguste del cerebro, si produce l’apoplessia, la macchina non resiste, e si rimane sul colpo.
Conte. Oimè! Voi mi avete atterrito. Mi palpita il cuore. Farmi aver delle convulsioni.
Guglielmo. Favorisca il polso.
Conte. Eccolo. (Guglielmo gli tasta il polso)
Guglielmo. È sintomatico e convulsivo: ma niente; non tema di nulla, son qua io per lei. E necessario temprar questo fermento acre e maligno, conviene rallentare il moto agli umori con delle bibite acidule, e corroborare il ventricolo con qualche elixir appropriato. Vada subito alla spezierìa, si faccia far delle bibite di qualche cosa di teiforme, si faccia dare una confezione, o un antidoto, o un elettuario. Anzi si faccia dare una presa di elettuario del Fracastoro, che è il più attivo e il più pronto per regolare gli umori tumultuanti e scorretti.
Conte. Addio; vi ringrazio, vado subito. Le gambe mi tremano. Mi manca il respiro. Chi sa se arriverò a tempo alla spezieria, prima di cadere. (parte)
SCENA XVI.
Guglielmo, poi il Marchese d’Osimo.
Guglielmo. Questa volta ne sono uscito con una tirata da medico. Con un ipocondriaco ci vuol poco. Gli ho cacciato in corpo tale spavento, che per del tempo s’asterrà di montar in collera. Ma che fa Eleonora, che non esce di questa casa? Già me l'immagino: curiosità donnesca. Donna Livia le avrà fatto centomila interrogazioni. Ed io che cosa farò? Dove andrò a ricovrarmi? Come potrò io reggere, ora che di più ho una femmina al fianco? Una bella finezza mi ha fatto Eleonora! Basta, son un uomo d’onore, e benchè in oggi non abbia per Eleonora quella passione ch’io aveva per essa un giorno, sono in debito di sposarla, per riparo della di lei riputazione.
Marchese. (Che fa costui intorno alla casa di donna Livia?) (da sè)
Guglielmo. (Oh! mi aspetto dal signor Marchese un altro complimento, simile a quello del signor Conte). (da sè)
Marchese. Che fate qui voi?
Guglielmo. Io cammino per la mia strada.
Marchese. Queste strade le passeggerete per poco.
Guglielmo. Perchè, signore?
Marchese. Nella nostra città noi non vogliamo parabolani.
Guglielmo. Perchè mi dà questo grazioso titolo?
Marchese. Perchè, se foste un uomo dotto, avreste seguitato la professione vostra dell’avvocato, ma siccome l’avrete esercitata con impostura, senza alcun fondamento, sarete stato scoperto e cacciato via.
Guglielmo. Ella s’inganna, signore. Qui son venuto per mia elezione. Gli uomini della mia sorte non si discacciano. Ella mi conosce poco, signor Marchese.5
Marchese. Il bravo signor avvocato! Quanti ne avete assassinati nel vostro studio?
Guglielmo. Io non ho assassinato nessuno, signore; anzi più del sapere, mi sono sempre piccato della sincerità. E se ella, quando aveva la sua causa, fosse venuta a farsi assister da me, in luogo di perderla, l’avrebbe vinta.
Marchese. L’avrei guadagnata? Sapete voi qual fosse la mia causa?
Guglielmo. Sì signore, ne sono informato.
Marchese. E dite che voi me l’avreste fatta vincere?
Guglielmo. Lo dico, e m’impegno di sostenerlo. Mi dà ella la permissione che le dica ora, benchè fuor di tempo, la mia opinione?
Marchese. Sì, dite. (Sentiamo che cosa sa dire costui). (da sè)
Guglielmo. Nella di lei causa si trattava di ricuperare un’annua rendita di seimila scudi. La domanda era giusta, e se il di lei difensore non errava nell’ordine, la causa l’avrebbe vinta. Trovasi ne’ libri antichi della di lei casa, che i Marchesi di Tivoli pagavano a quei d’Osimo seimila scudi l’anno, per più livelli fondati sui beni del debitore. Scorsero sessanta o settant’anni, senza che un tal canone si pagasse. Ella ha mosso la lite, ma si è principiata male. Hanno intentato un giudizio in petitorio, senza poter identificare gli effetti. Conveniva far prima la causa del possessorio, e regolarsi così: ecco l’ordine che tener si doveva, ecco la domanda che andava in caso tal concepita. Per tanti anni la casa di Tivoli pagò alla casa d’Osimo seimila scudi l’anno di canone; sono sessant’anni che non si pagano, petitur condemnari pars adversaria ad solvendum. Che cosa avrebbono gli avversari risposto? non teneri? Avremmo detto loro: redde rationem. E colla ragione dell’uti possidetis sarebbesi convertito a loro debito il peso di provare la soluzione. Ma quando con un Salviano si domandano i fondi, spetta all’attore identificarli, e trattandosi di antichi titoli, trovandosi della confusione nei passaggi, nelle divisioni, nei contratti, si perdono le cause, non per mancanza delle ragioni, ma per difetto dell’ordine e della condotta. E se quest’ignorante ch’ella si compiace di trattar male, avesse avuto l’onor di servirla, scommetterei la testa ch’ella vinceva la causa, andava al possesso delli seimila scudi di rendita, gli pagavano i canoni arretrati di sessant’anni, e poi col tempo si potevano scorporare gli effetti, verificare li titoli, giustificar le ragioni e impossessarsi di una tenuta di beni. Essendo pur troppo vero, dipendere per lo più dalla buona condotta del difensore la fortuna o la rovina della causa, del cliente e della famiglia.
Marchese. Signor avvocato, avreste voi difficoltà di venire a casa mia, e discorrerla alcun poco con li miei difensori?
Guglielmo. Io parlo con chicchessia. Parlo con fondamento, e sono a servirla, se mi comanda.
Marchese. Bene; oggi vi aspetto. Domandate il palazzo del marchese d’Osimo.
Guglielmo. Verrò senz’altro a ricevere i suoi comandi.
Marchese. Compatite, se avessi detto... Io non l’ho fatto per ingiuriarvi.
Guglielmo. Ella è mio padrone, signor Marchese.
Marchese. (Costui parla bene. Mi persuade, e può darsi che colla sua direzione si possa repristinare la causa). (da sè, e parte)
SCENA XVII.
Guglielmo solo.
Anche questa l’ho accomodata, e può essere che di un nemico mi sia fatto un protettore. Sta bene saper di tutto. Vengono di quelle occasioni che tutto serve, e dice il proverbio a questo proposito: impara l’arte, e mettila da parte. Costui che viene, è il servitore di don Filiberto... Briccone! Mi ha sempre veduto malvolentieri. L’ho sofferto sinora per rispetto de’ suoi padroni, voglio sfuggire adesso l’occasione di bastonarlo. Mi ritirerò dietro di questa casa, sino che vedo uscire Eleonora. (si ritira)
SCENA XVIII.
Berto con una borsa, poi il Paggio di donna Livia che esce di casa.
Berto. Oh bellissima! In casa si muor di fame, la mia padrona ha queste venti doppie, e in vece di servirsene, le manda a donna Livia. Mi pare una pazzia questa. Supponiamo che gliele abbia da rendere. Si potrebbe ciò fare un po’ per volta, ma mangiare almeno.
Paggio. Questa mia padrona è curiosa. Manda via il signor maestro, e poi lo fa ricercare, e vuole che torni.
Berto. Addio, giovanotto.
Paggio. Berto, buon giorno.
Berto. È ella in casa la vostra padrona?
Paggio. Sì, è in casa. Sono due ore che non fa altro che ciarlare con una forestiera.
Berto. Bisognerebbe che io le parlassi.
Paggio. Che cosa volete da lei?
Berto. Se sapeste! Ho proprio la saetta.
Paggio. Con chi l’avete voi?
Berto. La mia padrona manda alla vostra queste venti doppie; e scommetto che domani non vi è da far bollire la pentola.
Paggio. Può essere che la mia padrona gliele abbia prestate.
Berto. E per questo, c’era bisogno di rendergliele tutte in una volta? Io so che il padrone è rifinito, e io sono tre mesi che non tiro il salario.
Paggio. Certo che la mia padrona non ne ha bisogno. Affè di mio, ha monetacce che spaventano.
Berto. Quasi quasi mi venebbe voglia di far una di quelle cose che non ho mai fatto.
Paggio. Eh! Se l’è qualche cosa ch’io vi possa aiutare, facciamola.
Berto. Queste doppie... propriamente mi dice il cuore: donna Livia non ne ha bisogno.
Paggio. No, non ne ha bisogno.
Berto. Lasciar di dargliele dunque.
Paggio. A me non preme.
Berto. Paggino, facciamo una cosa? Dividiamole metà per uno.
Paggio. Per me ci sto.
Berto. Alò; ma zitto, veh.
Paggio. Oh! non parlo io.
Berto. E poi?...
Paggio. Fate voi.
Berto. Eh! Con dieci doppie in tasca, chi mi piglia è bravo. Andiamo. Dieci per uno. (vuol aprire la borsa)
SCENA XIX.
Guglielmo e detti.
Guglielmo. Che fate voi, birboni? (leva la borsa di mano a Berto) Così si rubano i quattrini?
Paggio. Io non so nulla.
Berto. Come e’entrate voi, signore scrocco! Datemi i miei quattrini.
Guglielmo. Briccone! Questa borsa l’avrà chi doveva averla, e tu sarai castigato.
Paggio. Fatevela rendere. (piano a Berto)
Berto. Giuro a bacco, vo’ la mia borsa.
Guglielmo. Va via di qua, birbonaccio.
Berto. Vi spaccherò la testa in due pezzi.
Guglielmo. Ti romperò le braccia io.
SCENA XX.
Il Bargello coi Birri, e detti.
Bargello. Che rumore è questo?
Berto. Signor bargello, colui mi ha rubato una borsa con venti doppie.
Bargello. Come! (verso Guglielmo)
Guglielmo. Son un galantuomo, colui volea trafugare questa borsa.
Berto. Sì, io la voleva rubare! La borsa è nelle sue mani, ed io la voleva rubare! L’ha rubata a me il ladraccio.
Bargello. Favorisca, andiamo. (vuole arrestar Guglielmo)
Guglielmo. Fermatevi, signor bargello, e prima di far un affronto ad un povero forestiere, pensateci bene. Volete voi che qui su due piedi vi faccia toccar con mano chi è il ladro, e chi è il padrone di questa borsa? Osservate. Signor Berto garbatissimo, ella dice che è sua questa borsa?
Berto. Lo dico certo, se è mia.
Guglielmo. Se è cosa sua, saprà che monete ci son dentro.
Berto. Sicuro che lo so. Sono venti doppie.
Guglielmo. Ma in che monete son esse?
Berto. Che ne so io? Sono venti doppie.
Guglielmo. Chi ve l’ha date queste venti doppie?
Berto. È roba mia, e tanto serve.
Guglielmo. Vedete che si confonde? (al bargello) Se è roba vostra, saprete dire che monete sono.
Berto. Io non ho memoria...
Guglielmo. O bene; se non sa egli dire che monete siano, tenete, signor bargello, riscontrate se io so dirlo. (dà la borsa al bargello)
Berto. Vi dico, corpo del diavolone...
Bargello. Fermatevi, signor gradasso. (a Berto)
Guglielmo. Là dentro vi deve essere una doppia da quattro, tre doppie da due, e dieci doppie di Spagna.
Bargello. Per l’appunto; è verissimo. (riscontrandole)
Guglielmo. Che vi pare?... (al bargello)
Bargello. Dico che voi avete ragione, che la borsa è vostra, e costui lo meneremo prigione. (fermano Berto)
Paggio. Salva, salva. (fugge)
Berto. È un’ingiustizia questa...
Bargello. Briccone. Vai, vai, la galera ti aspetta.
Berto. La galera? Se non ho sentito nemmen l’odore. (i birri lo conducono via legato)
Bargello. Scusate. (a Guglielmo)
Guglielmo. Mi maraviglio. Anzi devo ringraziarvi.
Bargello. Certo che... per dirla... a me non toccava far da giudice. Bisognava andar su tutti insieme. Ma so che siete un galantuomo; non so se mi capite?
Guglielmo. Che vorreste voi dire?
Bargello. La mia cattura non la vorrei perdere.
Guglielmo. Vi pagherete sulla pelle di quel briccone.
Bargello. Eh via. Una di quelle doppie la potete spendere.
Guglielmo. Non vi darei un quattrino.
Bargello. No, eh?
Guglielmo. No certo.
Bargello. Ben bene, mi capiterai tra l’ugne.
Guglielmo. Gli uomini onorati non hanno timore de’ pari vostri.
Bargello. Oh, se ci capiterai. E per questo non occorre trattar bene con isperanza di dire... Signor sì... è galantuomo. Tirar giù, corde, manette. Da qui innanzi voglio far così, da uomo d'onore.(parte
SCENA XXI.
Guglielmo, poi Targa cameriere di donna Livia, di casa della medesima.
Guglielmo. È andata meglio ch’io non credeva. Questo vuol dire aver pratica del Criminale. In tutte le cose vi vuole spirito, disinvoltura. Ho più piacere d’averla passata netta senza dar nulla al bargello, che se avessi guadagnato per me questa borsa. Ma io non la deggio tenere. Donna Aurora la rimanda onoratamente a donna Livia, ed io non voglio differire un momento a dar questa giustificazione ad una dorma d’onore. Picchierò all’uscio di casa, e se mi si presenterà alcuno, di cui mi possa fidare, gliela farò tenere. (picchia all’uscio)
Targa. Che comanda, signore?
Guglielmo. Recate queste venti doppie alla vostra padrona. Ditele che donna Aurora le manda, e che Guglielmo le porta. Ditele che le manda una donna d’onore, e che le porta un giovine sfortunato.
Targa. Sarà servita.
Guglielmo. Glielo direte voi bene?
Targa. La non ci pensi. Dirò bene. (Poverino! l’intendo, ma se si può far servizio, perchè non s’ha da fare?) (da sè, entra in casa)
SCENA XXII.
Guglielmo, poi un Messo del Vicerè.
Guglielmo. Questi è il suo camerier più fidato...
Messo. Signore, è ella il signor Guglielmo veneziano?
Guglielmo. Certo: io per l’appunto.
Messo. Venga subito dal Vicerè.
Guglielmo. Eccomi. Sapete voi che cosa voglia da me?
Messo. Io non lo so. Venga meco. Ho ordine di condurla subito.
Guglielmo. Vengo subito. (Ho capito. Qui vi avrebbe a essere qualche imbrogliuccio). (da sè) Andiamo pure, io non ho paura di niente. Posso essere calunniato, ma mi fido nella mia innocenza. In tutte le mie avventure ho salvato sempre il carattere dell’uomo onesto, e siccome nessuno può rimproverarmi una bricconata, son certo altresì che in mezzo alle disgrazie troverò un giorno la mia fortuna; e se altra fortuna io non avessi, oltre quella di vivere e di morire onorato, questo è un bene che supera tutti i beni,6 e che dolcissime fa riescire tutte le amarezze dell’avverso destino. (parte col messo)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «(L’ho detto io che sarà per le dieci doppie). da sè. Non so che dire ecc.».
- ↑ Pap.: Oh diamine! Che cosa ecc.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Liv. Non già a titolo di mercede, che ai pari vostri non si offerisce, ma per alto di mia gratitudine, avrete per ora, oltre il vostro trattamento, un piccolo assegnamento di trenta scudi al mese. Gugl. Mi maraviglio signora. La ricompensa che da lei desidero, ha da essere l’onore della di lei grazia, il compatimento ai miei difetti, qualche occhiata benigna che mi distingua dagli altri suoi servitori, e le prometto attenzione, fedeltà, gratitudine, e sopra tutto zelo e premura di corrispondere alla bontà con cui si compiace di favorirmi. Liv. (Che gentili maniere! Che pensar nobile! Che adorabile tratto!) Gugl. (Ho fatto la mia fortuna). da sè».
- ↑ Pap,: Ah, che la gelosia ecc.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «March. Sì, vi conosco. So che siete un ignorante, e so che di qui dovrete andarcene quanto prima. Gugl. È vero ch’io sono un ignorante, ma se dalla città si discacciassero tutti quelli che sono ignoranti, anch’ella, padron mio, si ritirerebbe al suo feudo. March. (Temerario), da sè. Gugl. Sappia però che mi sta bene la lingua in bocca, come la spada in mano. March. Il bravo signor avvocato! ecc.».
- ↑ Pap. aggiunge: ella è una gloria che rende l’uomo immortale.