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226 | ATTO SECONDO |
Filiberto. Signor Guglielmo carissimo, vi ho da dire una cosa che mi dispiace infinitamente.
Guglielmo. Dite pure senza riguardi. Cogli amici non ci vogliono certe riserve.
Filiberto. Davvero, quasi non so come principiare.
Guglielmo. Dite su liberamente.
Filiberto. Vedo che siete un uomo pieno di virtù e di merito; ma io... Oh, quanto me ne dispiace!
Guglielmo. Via, senza che diciate altro, v’ho capito, e vi risparmierò la fatica di terminar il discorso. Volete dirmi essere ormai tempo che vi levi l’incomodo, e che me ne vada di casa vostra; non è egli vero?
Filiberto. Non intendo scacciarvi di casa mia... Ma... non saprei... Avrei da servirmi di quelle camere.
Guglielmo. Benissimo. Tanto mi basta. Vi ringrazio di avermi sofferto con tanta generosità. Assicuratevi che conosco le mie obbligazioni, che so le mie convenienze, e che sarei andato via prima d’ora, se dalla bontà della vostra signora consorte non fossi stato soavemente violentato a restare.
Filiberto. (Hanno ragione, se mormorano di mia moglie), (da sè)
Guglielmo. Domani vi leverò l’incomodo. Vorrei pregarvi soltanto di questa grazia sola, che mi diceste il motivo, perchè mi licenziate così su due piedi?
Filiberto. Per ora, compatitemi, non posso dirvi di più. Dunque anderete domani?
Guglielmo. (Dubito ch’egli sia diventato geloso della moglie. Quelle dieci doppie chi sa che cosa abbiano partorito? ) (da sè) Signore, se così vi aggrada, son pronto a partire in questo momento.
Filiberto. No, non dico in questo momento. Ma... che so io? Se non v’incomodasse andar questa sera.
Guglielmo. Non vi è niente di male. In meno d’un’ora, senza che nessuno sappia i fatti nostri, me ne vado in un altro quartiere.
Filiberto. Caro amico, me ne dispiace, torno a dirvi, infinita-