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110 l’amor costante


Guglielmo. Non altro. Mille grazie a voi.

Marchetto. Eccomi, padrone: che domandate? Guglielmo. Fa’ venir Lucrezia fin qui, cosí nei ferri come l’è.

Marchetto. Adesso sará fatto. Oh padrone! Io ho fatto benissimo l’officio mio.

Guglielmo. Fa’ quel ch’io t’ho detto. Mai areste creduto questo di Lucrezia, se voi l’aveste conosciuta; che parea la miglior giovene che fusse mai.

Messer Giannino. Son piú le promesse, i presenti e i preghi che ho fatti a questa iniqua... E ogni giorno manco conto ne faceva.

SCENA IV

Guglielmo, Lucrezia, Messer Consalvo, Messer Giannino.

Guglielmo. Eccola, questa sfacciata! questa ribalda! Lucrezia. Eh! ch! Guglielmo, vi domando per ultima grazia, inanzi ch’io muoia, che mi vogliate ascoltar quetamente alquante parole: ch’io vi farò conoscer ch’io non so’ sfacciata né ribalda ma disgraziata e sventurata, si.

Messer Giannino. E che vorrai dire, empia, scelerata? Per Lorenzino m’hai cambiato me, ch?

Lucrezia. Ancora a voi, messer Giannino, farò vedere, se m’ascoltate, che di me non vi dolete con ragione.

Messer Consalvo. Lassiamola un poco dire. Questo c’importa poco.

Guglielmo. Or di’, via, quel che vuoi dire. Lucrezia. Primamente voglio che sappiate, Guglielmo, che questo che voi vi tenete per Lorenzino vostro servitore è nobile pari a me e, giá molt’anni sono, mi sposò per sua consorte; né mai poi l’ho rivisto, se non ora in casa vostra. E, per fede che sia cosi, a questo lo potete conoscere: ch’io non ho voluto manifestarvelo prima ch’io mi bevesse la morte acciò che voi non vi pensaste ch’io l’avesse fatto allora per iscusarmi per paura ch’io avesse del morire; dove che ora, non essendo piú rimedio