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atto quinto 109


Guglielmo. Perché?

Fra Cherubino. Perch’io non credo che martire mai si conducesse a la morte con tanta costanzia e fervore con quanto hanno fatto l’uno e l’altro di costoro. Come viddero venir la bevanda, subito, rimiratisi in viso, cominciarono a consolarsi l’un l’altro con certe parole piene di tanta affezione e amore ch’io ne rimasi stupefatto a sentirle. Ciascuno voleva essere il primo a por la bocca alla coppa; ognuno piangeva piú della miseria del compagno che della sua. Pur, alla fine, la donna, strappata a tradimento la coppa di mano al giovene, subito se la pose a bocca e, se per forza egli non glie la levava delle mani, tutta se la beveva acciò che per lui non ne rimanesse. Doppo questo, si strinsero insieme per quanto dalle manette gli era concesso. E gli lassai che aspettavano la morte allegramente.

Messer Giannino. Ah poltrona! Parvi ch’ella ne stesse male? Ma l’ha avuto el gastigo che merita.

Fra Cherubino. Ben è vero che la giovine m’impose ch’io vi pregasse in caritá, Guglielmo, e per l’amor di Dio, che voi li voleste far una grazia, innanzi ch’ella morisse, di ascoltarla poche parole e che dipoi morrá contenta. E molto, molto vi si raccomanda.

Guglielmo. Non la voglio udir, questa sciaurata.

Messer Consalvo. Eh! Pedrantonio, fateli questa grazia, che vi costa poco.

Messer Giannino. Dice ’l vero lo zio. Stiamo a udir quel che la ribalda vuol dire.

Guglielmo. Son contento, per amor vostro. Ma vogliamola udir drento in casa o pur qui nella strada? Messer Cònsalvo. È meglio qui fuora, per farli questa vergogna piú. E, se vedremo venir nessuno, entraremo in casa subito.

Guglielmo. Cosí si faccia. Marchetto!

Marchetto. Signore!

Guglielmo. Vien’ da basso.

Fra Cherubino. Se voi non volete altro, Guglielmo, mi ritornare) al convento.