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atto quinto 111

alla mia vita, non deve te piú dubitar di questo. E vi prego che mei crediate.

Guglielmo. Come puoi dir cosi, bugiarda? che sai che mi dicesti, quando t’ebbi in casa, che eri stata rapita di una tua villa vicina a Valenzia di grembo a tua madre e che non eri per anco maritata.

Lucrezia. Tutte queste cose ve le dissi fintamente. Non Valenzia è la mia patria né Lucrezia è il mio nome. Il che tutto feci perché voi non poteste, conoscendomi, dar notizia a un mio zio dell’esser mio, per la vergogna ch’io avevo d’esser fuggita da la patria mia insieme con costui che voi chiamate Lorenzino.

Guglielmo. O perché te ne vergognavi, s’egli era tuo marito, come tu dici?

Lucrezia. Perch’io dubitavo che quel mio zio non me l’avesse creduto senza ’l testimonio del mio marito proprio il quale mi pensavo che fusse stato amazzato da quei mori che mi predarono. E cosí ho tenuto sempre per fin a ora.

Guglielmo. Oh! Perché ti fuggisti?

Lucrezia. Perché ’l mio zio non si contentò mai ch’io fussi moglie di costui. E, per questo, ci sposammo di nascosto; perch’io avevo deliberato di non essere mai conosciuta da altro uomo che da lui. E voi lo sapete, Guglielmo, se, la prima cosa ch’io feci in casa vostra, vi pregai o che voi mi uccideste o mi prometteste di non parlarmi mai di darme marito; che prima arei consentito a mille morti che darmi in preda d’altro uomo.

Messer Giannino. Oh Dio! Par che m’indovini l’animo non so che.

Guglielmo. E questo, che tu dici esser tuo marito, com’è venuto in casa a servirmi? perché non si scopriva?

Lucrezia. Perché, dubitando che voi non ci credeste, aveamo pensato di partirci, una notte, nascosamente e andarci con Dio. Ma la Fortuna non ha voluto.

Guglielmo. Ed amazzarmi volevate, ingrati! poltroni!

Lucrezia. Questo non volevamo far noi. Ma volea ben Lorenzino, com’egli confessò a voi, difendermi da chi impedir ci volesse.