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112 l’amor costante


Guglielmo. Se gli è cosi, non fu mai donna piú casta di; te né amor piú costante. Ma non tei credo.

Lucrezia. Vi supplico, se mai mi amaste da figlia, Guglielmo, che mi facciate questa grazia, inanzi la mia morte, di credermelo, perché gli è cosi. E non per altro ve l’ho detto se non per non lassar questa macchia di me, a torto, nell’animo vostro e perché ancora, se mai ve ne viene occasione, possiate far fede nella patria mia e a quel mio zio dell’innocenzia mia e castitá. Il quale lo potrá referire a un mio caro fratello, che ho solo al mondo: a mio padre non dico, perch’io non so dove sia.

Guglielmo. Come vuoi ch’io facci questo, se tu non mi dici qual è la tua patria e chi sia il tuo zio?

Messer Giannino. Mio padre, udite. Mi par esser certo che questa è Ginevra.

Guglielmo. Oh Dio!

Messer Giannino. Dimmi un poco: donde sei? e come si domandava tuo padre?

Lucrezia. Si domandava Pedrantonio Molendini, di Castiglia.

Messer Giannino. O Ginevra, sorella, questo è tuo padre, questo è tuo zio, io son tuo fratello.

Guglielmo. Oh figliuola mia!

Messer Consalvo. Nipote mia cara!

Lucrezia. O padre caro, zio e fratello dolcissimi, quanto morrò or contenta!

Guglielmo. Aimè povero vecchio! sconsolato Pedrantonio!

Sorte crudelissima, che, in un medesimo giorno, m’ha fatto ritrovar mia figliuola e amazzarla! Uh! uh! uh! uh! uh!

Lucrezia. Non piangete, mio padre, perch’io muoio felicissimamente; che, inanzi la morte, ho visto tutte quelle care cose che ho desiderato giá tanti anni ed ho fatto chiaro a tutti, insieme, la mia innocenzia. E Ferrante di Selvaggio, ch’è mio marito, per mio amor, medesimamente muor volentieri.

Guglielmo. Eh! Ginevra, figlia, perdona a questo povero padre di tante ingiurie e villanie che t’ha fatte.