Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo VIII

Libro settimo - Capitolo VIII (gennaio 1563)

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CAPITOLO VIII

(gennaio 1563).

[Gli ambasciatori francesi presentano ai legati un piano di riforma, che viene comunicato a Roma a mezzo del Gualterio. — Malcontento degli imperiali per essersi trascurate le loro proposte precedenti.—Tenore dei trentaquattro articoli francesi. — Informato dal Visconti, il papa consulta la congregazione conciliare e trasmette al concilio, modificati, i canoni sull’istituzione dei vescovi e la residenza. — Scontento delle richieste di riforma francesi comunicategli dal Gualterio, Pio IV fa presente a quel re l’opportunitá d’una diretta trattazione con Roma. — Rinvio al concilio degli articoli modificati, previo parere della congregazione romana. — Propositi di riforma di Pio IV. — Opposizione degli spagnoli e dei francesi alla formula papale dell’istituzione.— Si riparla della residenza. — I contrasti fanno sospendere le congregazioni. — Lagni dei francesi a Trento ed a Roma per la poca libertá lasciata al concilio: minaccia d’indire un concilio nazionale. — Per timore d’un segreto accordo fra spagnoli, imperiali e francesi, i legati inviano il Commendone all’imperatore. — Azione dei legati per impedire il disgregarsi del concilio. Il ritorno del Visconti contribuisce a riportare la calma. — L’arrivo dell’ambasciatore sabaudo offre occasione di riprendere le congregazioni. — Uffici del Vigerio presso il Lorena, il quale insiste nelle opposizioni fatte dai francesi. Anche gli spagnoli persistono nel loro atteggiamento. — Di fronte alle gravi difficoltá i legati, non senza incontrare forti contrasti, prorogano la sessione al 22 aprile.]

L’anno 1563 ebbe principio in concilio con l’atto della presentazione che li ambasciatori francesi fecero delli capitoli della riforma, che alti legati e a tutti li pontifici parvero molto ardui: nelli particolari, massime dove si trattava di alterar li riti della chiesa romana, e dove erano toccati gli emolumenti e dritti che la sede apostolica riceve dalle altre Chiese. E gli ambasciatori alla presentazione aggionsero la solita appendice, per non chiamarla protesta, cioè che se quelle [p. 115 modifica] proposte non fossero abbracciate, averebbono provveduto alli loro bisogni in Francia. Furono certi li legati che dal pontefice sarebbono stati visti con alterazione, attesa la promessa fattagli che non si sarebbe intorno le annate e altre ragioni pecuniarie trattato in concilio, ma amicabilmente con lui. Ebbero per necessario mandar un prelato a portarli e informar la Santitá sua: inclinarono a mandar il vescovo di Viterbo, come ben informato delle cose di Francia, per esservi dimorato molti anni noncio, e consapevole delli pensieri del cardinale e prelati francesi di concilio, con quali aveva conversato dopo il loro arrivo. Il che inteso dal Cardinal di Lorena, li confortò a cosí fare, ed esso ancora gli diede istruzioni per parlar al pontefice. Quel vescovo fu cosí destro, che quantunque fosse dal cardinale tenuto essergli mandato per esploratore e osservatore, nondimeno seppe cosí ben maneggiarsi che acquistò la confidenza del cardinale e delli ambasciatori, senza diminuir quella che il pontefice e li legati avevano in lui. Andò questo prelato con istruzione di dover rappresentar al papa tutte le difficoltá che li legati sentivano, e di riportare risoluzione e ordine come in ciascun particolare dovessero governarsi. Da Lorena ebbe instruzione di supplicare il pontefice a ricever in buona parte che fosse dal re ricercato quello che era necessario per il suo regno; e da loro, che eseguivano li comandamenti regi; e di offerire a Sua Santitá l’opera sua per accomodare le differenze della instituzione de’ vescovi e residenza, che tenevano il concilio impedito in cose leggieri.

Li cesarei, veduta la riforma de’ francesi e considerato il proemio, parve loro di esser notati come di poca autoritá. Si dolsero con li legati che gli articoli di riforma, raccordati dall’imperatore o da loro, non fossero stati proposti, quantunque ne avessero date fuora copie, mandate a Roma e disseminate per Trento. E ricercando che si ponessero insieme con quei de’ francesi, si scusarono li legati, per la facultá data loro dall’imperatore con lettere, e da essi ambasciatori a bocca, che proponessero e tralasciassero quelli che a loro pareva, [p. 116 modifica] soggiongendo che aspettavano tempo opportuno; e che veramente li francesi non avevano trovato buona congiontura, mentre che vive la differenza delli due canoni, che dá molta molestia a Sua Santitá. Non restarono sodisfatti gli ambasciatori, dicendo esser differenza dal tralasciar il tutto ad una sola parte, e dal differire, tenendo tra tanto le cose col debito rispetto, al propalarle e metterle in derisione. E replicando Simonetta che era troppo difficile discernere quei da proporre, dove erano manifesti quei da tralasciare, in fine si contentarono li cesarei che s’aspettasse quello che il papa avesse detto alle proposte francesi, e poi si fossero date fuori le loro. Li prelati francesi avevano acconsentito, con parole generali, alli capitoli spettanti alli riti e altri di gravame alli vescovi, che in secreto loro non approvavano, credendo che nella ventilazione di essi dovessero aver gli spagnoli e buona parte delli italiani contrari; ma, vedendo che si mandavano a Roma, ebbero timore che, opponendosi il papa a quelli che toccavano le sue entrate, fosse condesceso agli altri, e per composizione contentatosi delli pregiudiciali a loro, per fuggir quei di suo interesse. Per questa causa si diedero a far qualche secrete pratiche con altri prelati, persuadendo la moderazione; il che facendo alla francese senza intiera cauzione, fu noto agli ambasciatori. Per il che Lansac li congregò tutti, e riprese acremente che ardissero opponersi alla volontá regia, della regina, del conseglio tutto e del regno; li esortò non solo a non contraoperare, ma a promover la regia deliberazione: e l’ammonizione fu in forma che si conosceva non senza rigore.

Ma prima che narrare la negoziazione di Roma, è ben portar qui la sostanza della proposta francese, la qual fu immediate stampata in Ripa e a Padoa. E conteneva: che gli ambasciatori giá molto tempo avevano deliberato, eseguendo il comandamento del re, di proponer al concilio le cose contenute in quel scritto; ma avendo l’imperator fatto propor quasi le stesse, per non importunar li padri avevano aspettato di veder la risoluzione sopra le proposte di Sua Maestá cesarea. Ma ricevuto novo comandamento dal re, e vedendo [p. 117 modifica] l’instanzia dell’imperatore portata piú in longo che non si pensava, avevano deliberato non differir piú, non volendo essi cosa singolare, separata dal rimanente della cristianitá; e che il re, desiderando che si tenga conto delle cose da lui proposte, rimette nondimeno il giudicio e la cognizione di tutte ai padri.

Erano li capi trentaquattro:

I. Che non siano ordinati sacerdoti se non vecchi, con buona testimonianza del populo ed esperimentati per buona vita passata; e siano punite le carnalitá e trasgressioni loro, secondo li canoni.

II. Che gli ordeni sacri non siano conferiti in un istesso giorno o tempo, ma chi ha d’ascender alli maggiori sia provato nelli minori.

III. Che non sia ordinato prete, al qual insieme non sia dato beneficio o ministerio, secondo il concilio calcedonense, quando non era conosciuto il titolo presbiterale senza ufficio.

IV. Che sia restituita la debita fonzione ai diaconi e altri ordeni sacri, acciò non appaiano nudi nomi e in sola ceremonia.

V. Che li preti e altri ministri ecclesiastici attendino alla loro vocazione, né s’intromettino in altro ufficio che nel divino ministerio.

VI. Che non si faccia vescovo se non di etá legittima, di costumi e dottrina, che possi insegnar e dar esempio ai populi.

VII. Che non sia fatto piovano se non di bontá provata, che possi insegnar al populo, ben celebrare il sacrificio, e amministrare li sacramenti, e insegnar l’uso ed effetto di quelli alli recipienti.

VIII. Che non sia creato abbate o prior conventuale, se non ha insegnato lettere sacre in una celebre universitá e ottenuto il magisterio o altro grado.

IX. Che il vescovo per se stesso, o per mezzo d’altri predicatori, in tanto numero che basti secondo la grandezza della diocesi, ogni dominica e festa, e nella quadragesima, [p. 118 modifica] giorni di digiuno e nell’avvento, e sempre che sará opportuno, debbia predicare.

X. Che l’istesso faccia il piovano, quando vi sono audienti.

XI. Che l’abbate e prior conventuale legga la sacra Scrittura, e instituisca ospitale, sí che siano restituite alli monasteri le antiche scole e ospitalitá.

XII. Che li vescovi, piovani, abbati e altri ecclesiastici, inetti a far il loro officio, ricevino per quello coadiutori, o cedino alli benefici.

XIII. Che per conto del catechismo e instruzione summaria della dottrina cristiana sia ordinato quello che la cesarea Maestá ha proposto al concilio.

XIV. Che un sol beneficio sia conferito ad uno, levata via la differenza della qualitá di persone e de benefici compatibili e incompatibili (division nova, incognita agli antichi decreti, causa di gran turbo nella chiesa cattolica); e li benefici regolari siano dati a’ regolari, e li secolari a’ secolari.

XV. Che chi al presente ne ha due o piú, retenga quel solo che eleggerá tra breve tempo, altramente incorra la pena degli antichi canoni.

XVI. Che, per levar ogni nota d’avarizia dall’ordine sacerdotale, sotto qualsivoglia pretesto non sia richiesta alcuna cosa per l’amministrazione delle cose sacre, ma sia provvisto che li curati con due o piú chierici abbiano di che vivere ed esercitar l’ospitalitá; dando ordine il vescovo con unione de benefici o assignazione di decime, o vero, dove ciò non si potrá, provvedendo il prencipe per subvenzioni e collette imposte sopra le parrocchie.

XVII. Che nelle messe parrocchiali sia esposto l’Evangelio chiaramente, secondo la capacitá del populo; e le preghiere che il parroco fa insieme col populo siano in lingua volgare; e finito il sacrificio in latino, facciano pubbliche orazioni in lingua volgare parimente, e si possi in quel tempo e nell’altre ore cantar nella medesima lingua canti spirituali o salmi di David, approvati dal vescovo. [p. 119 modifica]

XVIII. Che l’antico decreto della comunione sotto ambedue le specie, di Leone e Gelasio, sia renovato.

XIX. Che inanzi l’amministrazione di ciascun sacramento preceda nella lingua volgare un’esposizione, sí che li ignoranti intendino l’uso e l’efficacia.

XX. Che, secondo gli antichi canoni, li benefici non siano conferiti dalli vicari, ma dalli medesmi vescovi fra termine di sei mesi, altrimenti la collazione si devolva al prossimo superiore e gradatamente al papa.

XXI. Che li mandati di provvedere le espettative, li regressi, le resignazioni in confidenzia e le commende siano revocate e bandite dalla Chiesa, come contrarie ai decreti.

XXII. Che le resignazioni in favore siano in tutto esterminate dalla corte romana, essendo un eleggersi o dimandare il successore, cosa proibita dalli canoni.

XXIII. Che li priorati semplici, ai quali contra la fondazione è stata levata la cura delle anime, e assignata ad un vicario perpetuo con una picciola porzione di decima o d’altra entrata, alla prima vacanzia siano restituiti nello stato di prima.

XXIV. Che [al]li benefici, a’ quali non è congionto alcun officio di predicar, amministrar sacramenti o altro carico ecclesiastico, dal vescovo, col conseglio del capitolo, sia imposta qualche cura spirituale; o siano uniti alle parrocchiali vicine, non dovendo né potendo esser alcun beneficio senza officio.

XXV. Che non siano imposte pensioni sopra benefici, e le imposte siano abolite, acciocché le entrate ecclesiastiche siano spese nel viver dei pastori, dei poveri e in altre opere pie.

XXVI. Che alli vescovi sia restituita intieramente la giurisdizione ecclesiastica in tutta la diocesi, levate tutte le esenzioni, eccetto alli capi dei ordeni e monasteri che sono soggetti a loro, e a quelli che fanno capitoli generali, a’ quali le esenzioni sono con titolo legittimo concesse, provvedendo però che non siano esenti dalla correzione. [p. 120 modifica]

XXVII. Che il vescovo non usi la giurisdizione né tratti negozi gravi della diocesi, se non col conseglio del capitolo; e li canonici resedino continuamente nella cattedrale, siano di buoni costumi e scienza, e almeno di venticinque anni; perché inanzi quell’etá non avendo per le leggi libera potestá sopra i suoi beni, non debbono esser dati per consiglieri ai vescovi.

XXVIII. Che li gradi di consanguinitá, affinitá e parentela spirituale siano osservati, o vero di novo reformati; ma non sia lecito dispensar in quelli, eccetto tra li re e principi per ben pubblico.

XXIX. Che essendo nate molte perturbazioni per causa delle immagini, provvedi la sinodo che il populo sia insegnato che cosa debbia credere di quelle; e che siano levati gli abusi e superstizioni, se alcune sono introdotte nel culto di essi. Il medesmo si faccia delle indulgenzie, peregrinaggi, reliquie di santi, e delle compagnie o confraternitá.

XXX. Che sia restituita nella chiesa cattolica la pubblica e antica penitenzia per li peccati gravi e pubblici, e posta in uso; e ancora, per placar l’ira di Dio, sia restituito l’uso delli digiuni e altri esercizi luttuosi e preghiere pubbliche.

XXXI. Che la scomunica non sia decretata per ogni sorte di delitto o contumacia, ma solo per li gravissimi, e nei quali il reo perseveri dopo le ammonizioni.

XXXII. Che per abbreviar o levar in tutto le liti beneficiali, da quali tutto l’ordine ecclesiastico è contaminato, sia tolta via la distinzione di petitorio e possessorio, novamente trovata in quelle cause; siano abolite le nominazioni delle universitá, sia comandato ai vescovi di dar li benefici non a chi li ricerca, ma a chi li fugge ed è meritevole: e il merito si potrá conoscere se, dopo il grado ricevuto nell’universitá, s’averá adoperato qualche tempo col voler del vescovo e approbazione del populo nelle prediche.

XXXIII. Che, nascendo lite beneficiale, sia creato un economo, e li litiganti eleggano árbitri; il che se non faranno, il vescovo li dia; e quelli fra sei mesi terminino la lite inappellabilmente. [p. 121 modifica]

XXXIV. Che le sinodi vescovali si faccino almeno una volta all’anno; e le provinciali ogni tre anni; e le generali, quando non vi sará impedimento, ogni dieci.

Ma in Roma arrivò il primo di gennaro Vintimiglia, fatto il viaggio in sette giorni. Presentò al pontefice le lettere, ed espose la sua credenza, e diede conto delli pensieri e vari fini che erano in concilio, e delli umori diversi, e del modo come pareva alli legati e agli altri buoni servitori di Sua Santitá che dovessero pigliare e maneggiare le difficoltá. Tenne il pontefice congregazione il terzo giorno, diede conto della relazione di Vintimiglia, mostrò sodisfazione della diligenza e prudenti azioni delli legati, e lodò la buona volontá di Lorena; e ordinò che si consultasse sopra il capo dell’instituzione de’ vescovi, che stringeva allora principalmente. Il giorno sesto, anniversario della coronazione sua, tenne un’altra congregazione, nella quale pubblicò cardinali Ferdinando de’ Medici e Federico Gonzaga, quello per consolar il padre della miserabil morte d’un altro figliuolo cardinale, e questo per gratificare il legato Mantoa e gli altri della casa, strettamente seco congionti per il matrimonio d’un nepote del legato e della sorella del Cardinal Borromeo; non intermettendo però il pontefice d’intervenire alle consulte delle cose conciliari. Nelle quali, dopo longa discussione, fu risoluto di scrivere alli legati che il canone dell’instituzione de’ vescovi fosse formato con dire: che li vescovi tengono nella Chiesa luoco principale dependente dal romano pontefice, e che da lui sono assonti in partem sollicitudinis; e nel canone, che della potestá del papa era introdotto, si dicesse che egli ha autoritá di pascere e reggere la Chiesa universale in luoco di Cristo, dal quale gli è stata comunicata tutta l’autoritá, come vicario generale. Ma nel decreto della dottrina estendessero le parole del concilio fiorentino, le quali sono che la santa sede apostolica e il romano pontefice ha il primato in tutto il mondo, ed è successore di san Pietro, principe degli apostoli, e vero vicario di Cristo, capo di tutte le Chiese, padre e maestro di tutti li cristiani, al quale in san Pietro da Cristo nostro Signore è [p. 122 modifica] stata data piena potestá di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, soggiongendo che non si dipartissero da quella forma; quale teneva certo che sarebbe ricevuta, perché, essendo tolta di peso da un concilio generale, chi vorrá opporsi si mostrerá scismatico e incorrerá nelle censure; le quali per divina provvidenza essendo sempre state punite nelli contumaci con maggior esaltazione della sede apostolica, confidava che dalla Maestá sua divina e dalli buoni cattolici la causa della Chiesa non sarebbe abbandonata. E fra tanto sarebbe ritornato il Vintimiglia, che in breve averebbe spedito con piú ampie instruzioni. Deliberò di transferirsi a Bologna, per esser vicino e poter abbracciar le occasioni di finir o separar o transferir il concilio; le quali, prima che gli avvisi giongessero a Roma, svanivano. Fece formar una bolla che, occorrendo la morte sua mentre fosse assente, l’elezione si facesse in Roma dal collegio de’ cardinali.

Non cosí tosto fu il corriero spedito per Trento con queste lettere, che arrivò Viterbo con la reforma de’ francesi, e fece rincrudir la piaga della molestia. Sentí il papa leggere quella reforma la prima volta con estrema impazienza, e proruppe a dire che il fine di quella era levar la dataria, la rota, le segnature e finalmente tutta l’autoritá apostolica; poi, rasserenato alquanto per la esposizione del vescovo che gli dava speranza che Sua Santitá averebbe potuto qualche cosa divertire e qualche altra moderare, concedendone alcune, gli espose l’instruzione di Lorena. La qual era che li principi dimandano molte cose per ottener quelle che premono, le quali non sono le importanti alli rispetti della sede apostolica, come la comunione del calice, l’uso della lingua volgare, il matrimonio de’ preti: se di quelle Sua Santitá si contentasse sodisfarli, trovarebbe breve ed espedita via di aver onor del concilio e venir al fine desiderato. Gli narrò molti di quei articoli non esser ben sentiti dalli stessi vescovi francesi, che si preparavano di mettervi impedimenti. Queste cose udite, ordinò il papa che li articoli fossero discussi in congregazione, nella quale introdusse e il Viterbo e il Vintimiglia, acciò [p. 123 modifica] instruissero a pieno delle occorrenze. Nella congregazione fu deliberato che si facesse scrivere da teologi e canonisti sopra quelle proposte, e ognuno mettesse in carta il suo parere; e per far qualche diversione dalla parte di Francia, ordinò il papa al Cardinal di Ferrara che rilasciasse al re li quarantamila scudi senz’altra condizione; che gli esponesse esser le proposte degli ambasciatori suoi in Trento in molte parti utili per riforma della Chiesa, le quali desiderava veder non solo decretate, ma mandate anco in esecuzione: però non le approvava tutte, essendone alcune con diminuzione dell’autoritá regia, che resterá privata di conferir le abbazie, il che al re è un grande aiuto per premiar li buoni servitori. Che li re antichi, avendo vescovi troppo potenti per la grande autoritá e contumaci alla potestá regia, ricercarono li pontefici romani di moderarla; e ora per quelle proposizioni gli ambasciatori suoi restituivano alli vescovi la licenza, che dalli precessori di Sua Maestá prudentissimamente fu procurato di metter sotto maggior regola. Quanto all’autoritá pontificia, che non si poteva levarli quella che da Cristo gli era data, dal quale san Pietro e li successori furono fatti pastori della Chiesa universale e amministratori di tutti li beni ecclesiastici; che levando le pensioni, se gli leva la facoltá di far limosine, che è uno delli carichi principali che il papa ha per tutto il mondo; che per grazia era comunicata alli vescovi, come ordinari, facoltá di conferire alcuni benefici, la qual non era giusto estendersi tanto che si pregiudicasse all’universale ordinaria, che il papa ha per tutto. Che sí come le decime sono debite alla Chiesa de iure divino, cosí la decima delle decime si debbe da tutte le chiese al sommo sacerdote; che per maggior comoditá quella è stata commutata nelle annate; che se quelle portano incomodo al regno di Francia, non ricusava di trovarvi temperamento, purché alla sede apostolica fosse in modo conveniente conservato il suo dritto. Ma, come piú volte aveva fatto intendere, questo non si poteva trattar con altri che con lui, né il concilio poteva mettergli mano. Commise in fine al cardinale che, poste tutte queste cose in [p. 124 modifica] considerazione al re, l’esortasse a dar novi ordini agli ambasciatori suoi.

Mandò anco il papa a Trento le censure sopra quei capitoli, fatte da diversi cardinali, prelati, teologi e canonisti di Roma, ordinando che si differisse a parlar di quella materia quanto piú si poteva; che l’articolo della residenza e li abusi spettanti al sacramento dell’ordine averiano dato trattenimento per molti giorni: e quando vi fosse stata necessitá di proponer quei articoli, incominciassero dalli meno pregiudiciali, che appartengono alli costumi e dottrina, differendo parlar delli riti e della materia beneficiale; e pur costretti a parlar sopra di questi ancora, comunicate le obiezioni con li prelati amorevoli, li mettessero in discussione e controversia; e fra questo tempo egli li averebbe ordinato quel di piú che avesse deliberato. Tanto scrisse alli legati.

Poi, in fine del mese, in consistoro espose come li maggior prencipi del cristianesmo dimandavano riforma, che non poteva esser negata né con vere ragioni né con pretesti; però era risoluto, per dar buon esempio e non mancar del suo debito, incominciar da se medesimo, provvedendo alli abusi della dataria, levando le coadiutorie, li regressi e le renoncie a favore; e che dovessero li cardinali non solo col loro voto acconsentirvi, ma anco farlo noto a tutti. Da molti fu commendata assolutamente la buona intenzione di Sua Santitá; da altri fu considerato che quegli usi erano introdotti per levar abusi maggiori di manifeste simonie e patti illeciti, e che conveniva aver prima buon avvertimento che, levando questi tollerabili (quali finalmente non sono se non contra leggi umane), non si aprisse la porta al ritorno di quelli che sono contra le leggi divine. Il Cardinal di Trento particolarmente disse che sarebbe stato di gran pregiudicio levar le coadiutorie in Germania, perché essendo congionti quei vescovati con li principati, quando non avessero potuto ottener coadiutorie di tutti doi insieme, averebbono introdotto il farlo nel principato solamente, e cosí s’averebbe diviso il temporale dallo spirituale, con total esterminio della Chiesa. Il Cardinal [p. 125 modifica] Navagero contradisse al far differente la Germania, dicendo che li tedeschi essendo stati li primi a dimandar riforma, dovevano esservi primi compresi. Narrò poi il pontefice quanti tentativi erano proposti in concilio contra i privilegi della chiesa romana; parlò delle annate, delle reservazioni e delle prevenzioni; disse che erano sussidi necessari per mantenimento del papa e del collegio de’ cardinali; dei quali si come essi partecipavano, cosí era giusto che si adoperassero in mantenerli; e che voleva mandar un numero di loro a Trento per defenderli.

Ma in Trento, il dí dopo l’arrivo del corriero che portò da Roma li canoni della instituzione, che fu il 15 gennaro, giorno determinato per risolvere il prefisso tempo della sessione, fu fatto congregazione e deliberato di differire a statuirlo sino alli 4 febbraro; e fu data copia delli decreti dell’instituzione, con ordine di reincominciar le congregazioni per parlar sopra di quelli. E fu data cura alli cardinali di Lorena e Madruccio di riformar il decreto della residenzia, insieme con quei padri che a loro fosse parso assumer in compagnia.

E nelli giorni seguenti, continuandosi le congregazioni, furono approvate la formule venute da Roma con facilitá dalli patriarchi e dalli piú antichi arcivescovi. Ma venuto alli spagnoli, furono poste difficoltá; e poi dalli francesi molto maggiori. Fu opposto al passo che diceva «li vescovi tener luoco principale dependente dal pontefice romano», con dire che era forma di parlar ambigua e che conveniva parlar chiaro. E dopo longa discussione si contentavano di admettere che si dicesse «luoco principale sotto il romano pontefice», ma non dependente. Alcuni anco ripugnarono a quelle parole che li vescovi siano assunti dal papa in parte della cura, ma volevano dire che erano dati da Cristo in parte di quella, allegando il luoco di san Cipriano: «Il vescovato è uno, del quale ciascuno tiene una parte in solidum». E nel capo dell’autoritá di pascere e reggere la Chiesa universale, allegando in contrario che quella era il primo tribunale sotto di Cristo, al quale ognuno doveva essere soggetto, e che Pietro istesso fu [p. 126 modifica] inviato alla Chiesa come a giudice, con le parole di Cristo: «Va, dillo alla Chiesa; e chi non udirá la Chiesa, abbilo per etnico e pubblicano»; si contentavano che si dicesse il pontefice aver autoritá di pascere e reggere tutte le chiese, ma non la Chiesa universale: che in latino faceva poca differenza di parole dal dire universalem ecclesiam al dir universas ecclesias. E diceva Granata: «Io sono vescovo di Granata, il papa è arcivescovo della medesma cittá», inferendo che il papa abbia la sopraintendenza delle chiese particolari, come l’arcivescovo di quelle dei suffraganei. E allegandosi per l’altra parte che nel concilio fiorentino era usata questa parola: «la Chiesa universale», si diceva in contrario che il concilio di Costanza e Martino V nella condannazione degli articoli di Gioanni Viglef dannan l’articolo contra il primato della sede apostolica, solo in quanto vogli dire che non sia preposta a tutte le chiese particolari. E qui fu introdotta anco disputa tra francesi e italiani, dicendo questi che il concilio fiorentino fu generale, e il concilio di Costanza in parte approbato e in parte reprovato, e quello di Basilea scismatico; per il contrario sostentando gli altri che il constanziense e basiliense fossero concili generali, e che quel nome non poteva competere al fiorentino, dove intervennero solo alcuni pochi italiani e quattro greci. Non concedevano manco che il papa avesse tutta l’autoritá di Cristo, eziandio con le restrizioni e limitazioni. come uomo e nel tempo della mortalitá, ma si contentavano che si dicesse aver autoritá pari a quella di san Pietro. Il qual modo era molto in sospetto alli pontifici, che vedevano volersi fare la vita e azioni di san Pietro esemplare del pontefice; che sarebbe, come dicevano, ridurre la sede apostolica a niente: la qual dicevano aver una potestá illimitata per poter dar regola a tutti li emergenti, secondo che li tempi richiedono, eziandio in contrario dell’operato da tutti li precessori, e da san Pietro stesso.

E le contenzioni sarebbono passate molto piú inanzi. Ma li legati, per dar qualche intermissione, a fine di mandar al pontefice, come fecero, la correzione degli [p. 127 modifica] oltramontani e ricevere comandamento come governarsi, e tra tanto per metter a campo materia che facesse scordare questa, tornarono nella residenza. Sopra la quale avendo Lorena e Madruccio composta una formula, e presentatala qualche giorni inanzi alli legati, essi, senza pensar piú inanzi, l’approvarono. Ma avendola poi consultata con li canonisti, non fu da quelli lodata una particola, dove si diceva che li vescovi sono tenuti per divino precetto attendere e invigilare sopra il gregge personalmente. Per il che, dubitando che a Roma non avessero il medesmo senso, mutarono quelle parole, e cosí reformata la proposero in congregazione. Di questa mutazione restarono Lorena e Madruccio offesi gravemente, parendo loro di esser sprezzati; e Lorena diceva che per l’avvenire non voleva pigliar altro pensiero, né piú voleva trattar con prelati, ma attendere a dir il suo voto con modestia, servendo però amorevolmente li legati, se avesse potuto, in qualche opera onesta. E Madruccio non restava di dire che vi era un concilio piú secreto dentro il concilio, che si attribuiva maggior autoritá. Ma li legati, vedendo che ogni remedio tornava in male, lasciarono di far congregazioni. Né questo era abbastanza, perché li prelati facevano private congregazioni tra loro, e li legati continue consulte. E l’arcivescovo d’Otranto e altri aspiranti al cardinalato, dove tenevano certo arrivare se il concilio si separava, erano accordati di opporsi ad ogni cosa per far nascer tumulto; e appassionatamente andavano attorno, eziandio la notte, facendo pratiche e facendo sottoscriver polizze; la qual cosa se ben quanto all’effetto piaceva alli legati, quanto al modo però alla maggior parte di loro dispiaceva, come di cattivo esempio e che poteva partorir gravissimo scandolo. E anco nella parte contraria non mancava chi desiderava la dissoluzione; ma ciascuna parte aspettava occasione che la colpa fosse attribuita all’altra: onde li suspetti dell’una e l’altra parte crescevano.

Il Cardinal di Lorena si doleva con tutti che si cercasse di sciogliere la sinodo, e ne fece querela con tutti li ambasciatori dei principi, pregandoli di scrivere alli loro patroni e [p. 128 modifica] operare che facessero ufficio col pontefice che il concilio proseguisse, che le pratiche fossero moderate e li padri lasciati in libertá; altrimenti in Francia si sarebbe fatto accordo che ognuno vivi a modo suo sino ad un concilio libero: che questo non è tale, non potendosi né trattare né risolvere se non quello che alli legati piace, e li legati non fanno se non quello che il papa vuole: che egli averebbe con pazienza sopportato fino alla futura sessione, e non vedendo le cose andar meglio, farebbe li suoi protesti, e con li ambasciatori e prelati tornerebbe in Francia per far un concilio nazionale, dove forse la Germania concorrerebbe: cosa che a lui sarebbe di gran dispiacere, per il pericolo che la sede apostolica non fosse poi riconosciuta.

Andarono in quei giorni da Trento a Roma e da Roma a Trento frequenti corrieri, avvisando li legati le quotidiane contradizioni che piovevano, e sollecitando il pontefice la proposta delli canoni mandati. E li francesi in Roma fecero col papa la medesma querela che faceva Lorena in Trento, con le stesse minacce di concilio nazionale e d’intervento d’alemanni. Ma il papa, solito sentirne spesso, disse che non si sgomentava di parole, non temeva concili nazionali, sapeva li vescovi di Francia esser cattolici, e che la Germania non si sottometterebbe a’ loro concili. Diceva che il concilio non solo era libero, ma si poteva dir quasi licenzioso; che le pratiche fatte dagl’italiani in Trento non erano con sua participazione, ma nascevano perché li oltramontani volevano conculcar l’autoritá pontificia: che egli aveva avuto tre buone occasioni di disciogliere il concilio, ma voleva che si continuasse; e sperava che Dio non abbandonerebbe la sua Chiesa, e ogni tentativo contra quella promosso tornerebbe in capo delli innovatori.

In queste confusioni, essendo partito il Cinquechiese per andar alla corte cesarea, per dar conto a quella Maestá delle cose del concilio e farli relazione dell’unione de’ prelati italiani, ed essendosi scoperto che Granata e li suoi aderenti li avevano dato carico di operare con l’imperatore che scrivesse al re cattolico sopra la riforma e residenzia, acciocché essi potessero in quelle e nelle altre occasioni dir liberamente [p. 129 modifica] quello che dettasse loro la conscienzia, credettero li legati che fosse conseglio di Lorena. E per dar qualche ripiego, pochi giorni dopo essi ancora spedirono all’imperatore il vescovo Commendone, con pretesto di escusare e rendere le cause perché non s’era per ancora potuto proporre le dimande di Sua Maestá; e li diedero commissione di esortar Cesare a contentarsi di ricercar dal pontefice e non dal concilio quei capi concernenti l’autoritá pontificia, posti nelle sue petizioni, e con altri avvertimenti e instruzioni che loro parvero opportuni.

Ma essendo gionto a Trento Martino Cromero vescovo di Varmia, ambasciator del re di Polonia all’imperatore, in apparenza per visitare il cardinale varmiense, antico ed intriseco suo amico, ebbero gran suspizione che fosse mandato da Cesare per informarsi e veder oculatamente le cose del concilio e riferirgliele. Questi tanti moti posero dubbio nell’animo dei legati che il concilio non si dissolvesse in qualche modo che il papa ed essi ne restassero con disonore, osservando che ciò era da molti desiderato, eziandio da alcuni pontifici, e da altri a studio si procuravano disordini, per giustificarsi in caso che cosí succedesse. Mandarono a tutti gli ambasciatori una scrittura continente le difficoltá che vertevano, e li pregarono dar loro conseglio. Ma li ambasciatori francesi con quella occasione diedero per risposta quello che desideravano giá piú giorni dire: che sí come il concilio era congregato per rimediare li abusi, cosí alcuni volevano servirsi di esso per accrescerli; che inanzi ogn’altra cosa conveniva ovviare alle pratiche cosí manifeste, che era intollerabile vergogna; che quelle levate, e posto ogn’uomo in libertá di dire il senso suo, s’averebbe facilmente in buona concordia convenuto; che il papa era capo della Chiesa, ma non però sopra di quella; che era per reggere e indrizzare gli altri membri, non per dominare il corpo; e che il rimedio alle differenze era seguir li decreti del concilio di Costanza, che avendo trovata la Chiesa disformatissima, appunto per causa di simil opinioni, l’aveva ridotta a termini comportabili. Poi aggionsero una delle cause di [p. 130 modifica] discordia essere che dal secretario non erano scritti fedelmente li voti, onde la parte che era maggiore pareva negli atti la minore, e non si poteva aver per risoluto quello che era di parer comune; e però era necessario aggiongerne un altro, sí che due scrivessero. Li imperiali diedero il conseglio loro quasi l’istesso che i francesi, facendo maggior instanza per un aggionto al secretario. Li altri ambasciatori stettero sopra termini generali, consigliando la continuazione del concilio e la unione degli animi.

In questo stato di cose arrivò in Trento il 29 gennaio il Vintimiglia, riespedito dal pontefice, il quale fece relazione della sua credenza alli legati, e poi col parer loro si diede a levar doi opinioni sparse per il concilio: l’una, che il pontefice fosse in stato di poter poco vivere; l’altra, che desiderasse la dissoluzione del concilio. Testificò il desiderio di Sua Santitá d’intender che, deposte le contenzioni, s’attendesse al servizio di Dio e a metter presto fine al concilio. Egli portò bolle de uffici e benefici conferiti dal pontefice a propinqui d’alcuni prelati, e un referendariato al secretario dell’ambasciator portoghese, e una pensione assai grossa al figlio del secretario spagnolo, e ad altri varie promesse secondo le pretensioni. Fece per nome del pontefice col Cardinal di Lorena gran complementi, mostrando che in lui solo aveva la confidenza di un presto e buon fine del concilio.

Nacque opportuna occasione di reassumere le congregazioni, la venuta del vescovo d’Aosta, ambasciator del duca di Savoia. Nella quale disegnando, dopo averlo ricevuto, renovar la proposizione dei canoni, mandarono il vescovo di Sinigaglia al Cardinal di Lorena per pregarlo di trovar qualche maniera come li francesi potessero ricever sodisfazione. Gli demostrò il vescovo che quel termine di «reggere la Chiesa universale» era usato da molti concili: che quell’altro di «esser assonti in parte della sollecitudine» era usato da san Bernardo, scrittore tanto lodato da Sua Signoria illustrissima. A che rispose il cardinale che tutto il mondo era spettatore delle azioni del concilio; che si sapevano le opinioni e voti di ciascuno; che [p. 131 modifica] bisognava ben avvertire quello che si diceva; che di Francia erano state mandate scritture contra le opinioni che in Trento si tengono nelle questioni trattate; che molti si erano doluti di lui che procedi con troppo rispetto; e specialmente in quella materia e della residenzia, che non abbia fatto la debita instanza acciò siano dechiarate de iure divino; che per valersi d’un termine usato da qualche scrittore, non si debbe concludere di parlar secondo il senso di quello, importando molto dove il termine si ponga, e che congionzione abbia con le parole antecedenti e consequenti, da quali possono anco nascere opinioni contrarie; che a lui non danno fastidio li termini, ma li sensi che si disegna canonizzare; che il dire il pontefice aver autoritá di regger la Chiesa universale non poteva esser ammesso da’ francesi in modo alcuno; e se per l’avvenire fosse stato proposto, li ambasciatori non averiano potuto mancar di protestar in nome del re e di centoventi prelati francesi, da’ quali averebbono avuto sempre il mandato di farlo; che quello sarebbe un pregiudicare all’opinione, che si tiene da tutti in Francia, che il concilio sia sopra il papa. Le qual cose riferite da Sinigaglia alli legati in presenza di molti prelati italiani, congregati lá per consultare questa medesima materia, li fece entrar in dubbio che fosse impossibile ridur li francesi. Occorse anco nel medesimo tempo cosa che diede grand’animo a’ spagnoli, la venuta di Martin Gastelún, del quale di sopra s’è parlato. Il quale avendo veduto gli andamenti di qualche giorno, si lasciò intendere di aver chiaramente compreso che il concilio non era libero; lodava molto il Granata, e diceva il re averlo in buona opinione; e che se vacasse il vescovado di Toledo, gliene faria mercede.

Negoziate queste cose, venne la dominica di ultimo gennaro, quando era intimata la congregazione generale per ricever l’ambasciator di Savoia sopra nominato. Egli fece un breve ragionamento, mostrando li pericoli in quali era lo stato del suo principe per la vicinitá degli eretici, e le spese grandi che faceva; esortò a finire presto il concilio e a pensar a’ modi come far ricever li decreti alli contumaci; e offerí tutte le forze del suo [p. 132 modifica] patrone. Li fu risposto lodando la pietá e prudenza di quel duca e rallegrandosi della venuta dell’ambasciatore. Continuando le congregazioni, le dissensioni crescevano, e molti dimandavano che fosse proposto il decreto della residenza formato dalli due cardinali. Li legati, vedendo tanti dispareri, dopo longhe consulte tra loro e consegli presi con li prelati amorevoli, deliberarono che non fosse tempo di far decisione alcuna, ma necessario interponervi tanta dilazione che li umori da se medesmi deponessero tanto fervore, o vero si trovasse qualche ispediente per accordar le differenzie con prolongar il tempo della sessione: e per farlo d’accordo, andarono tutti a casa di Lorena per conferirli il loro pensiero e dimandarli conseglio e aiuto. Egli si dolse con loro delle conventicule, e che con modi cosí illeciti si pretendesse dar al papa quello che non li veniva, e togliere alli vescovi quello che da Cristo era stato dato loro; mostrò che li dispiacesse il differire la sessione tanto tempo; nondimeno, per compiacere, se ne contentava; ma ben li pregò, poiché questo era a fine di moderar gli animi, a far uffici efficaci che l’inquieti e ambiziosi fossero raffrenati.

Nella congregazione delli 3 febbraro propose il Cardinal di Mantoa che, essendo prossimo il principio quadragesimale, dovendo poi succedere li giorni santi e le feste di Pasca, si differisse la sessione sino dopo quella, e in quel mentre si trattasse nelle congregazioni la riforma pertinente all’ordine sacro e la materia del sacramento del matrimonio. La proposta ebbe gran contradizione. Li francesi e spagnoli quasi tutti fecero instanza che si deliberasse una breve prorogazione e fosse difinita la materia dell’ordine insieme con la sua riforma, prima che trattare del matrimonio; alla qual opinione aderivano anco alquanti italiani. Aggionsero anco alcuni che la sessione si facesse con le cose decise; e in particolare si stabilisse il decreto della residenza formato dalli cardinali; e da alcuni fu accennato che era grand’indignitá del concilio l’aver prolongato tante volte di termine in termine, e che si mostrava di voler violentar li padri con la stanchezza ad acconsentire alle opinioni che non sentivano in conscienzia: [p. 133 modifica] però che si dovesse far la sessione e risolvere le materie secondo il numero maggiore. Non fu anco taciuto che quella distinzione di sessione e congregazione generale non era reale, e intervenendo cosí in questa come in quella le medesme persone, e l’istesso numero intiero, si dovesse aver per deciso quello che fosse deliberato nella congregazione generale. Dopo gran contenzione fu risoluto per il numero del piú la dilazione sino alli 22 aprile, non removendosi l’altra parte dalla contradizione. Il Cardinal di Lorena, se ben mostrò consentire a compiacenza, ebbe però cara per proprio interesse la dilazione per quattro cause: perché fra tanto averebbe veduto quello che succedesse della salute del papa, averebbe avuto comoditá di trattar con l’imperatore e intendere la mente del re cattolico, e averebbe visto il successo delle cose in Francia, onde potesse poi deliberar con fondamento maggiore.

Il dí seguente li ambasciatori francesi fecero grande e longa instanza alli legati che si trattasse la riforma e fossero proposte le loro petizioni prima che s’incominciasse a trattar la materia del matrimonio. Li legati risposero che il concilio non doveva ricever leggi da altri; e se da principi sono proposte cose convenienti, è il dovere avervi sopra considerazione in quelle opportunitá che giudicassero li presidenti; che se nelle petizioni loro vi saranno cose pertinenti alla materia dell’ordine, proponeranno quelle insieme, e successivamente le altre a suo tempo. Questa risposta non contentando gli ambasciatori, replicarono l’instanza, aggiongendo che se non volevano far la proposizione, si contentassero che da loro medesmi fosse fatta, o vero li dassero aperta negativa; soggiongendo quasi in forma di protesto che il continuare con risposte ambigue sarebbe da loro tenuto per equivalente ad una negativa derisoria. Presero li legati termine di tre giorni a darli risposta piú precisa, e in questo mezzo fecero opera con Lorena che li acquietasse, facendoli contentar di aspettar sinché venisse da Roma risposta sopra gli articoli loro mandati.