Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo IX
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CAPITOLO IX
(5-20 febbraio 1563).
[Si sottopongono ad esame otto articoli del matrimonio. Questione di precedenza fra i teologi francesi e spagnoli. — Ipotesi e timori dei legati circa la visita del Lorena all’imperatore. — Il procuratore dell’arcivescovo di Salisburgo chiede d’aver voto in concilio: risposta dilatoria.— I teologi iniziano la discussione sul matrimonio. — I matrimoni segreti. — Il re di Francia scrive al concilio della vittoria sugli ugonotti e insiste per la riforma. Ardito discorso del Ferrier. — Il Lorena recasi a Innsbruck. — Esame degli articoli del matrimonio, particolarmente sulla sua istituzione divina, sulla facoltá di rendere irriti i matrimoni segreti, sul consenso dei parenti, sul divorzio, sulla poligamia.— Nuovi accenni alla questione della residenza.]
Il seguente giorno furono dati fuori gli articoli del matrimonio, per esser disputati la settimana seguente da’ teologi. Nel che immediate nacque disputa di precedenza tra francesi e spagnoli; alla quale non si potè trovar altro modo che sodisfacesse ad ambe le parti, se non con mutar l’ordine giá dato ed eseguito sino allora, e dar li luochi anteriori secondo l’ordine della promozione del dottorato. Ma a questo si opponevano li teologi pontifici, dicendo che se per francesi e spagnoli nasce la difficoltá, si facesse la provvisione per loro soli, e non s’alterasse il luoco alli teologi del pontefice, che era il primo indubitato. Li legati, dando loro ragione, concludevano che la prima classe, nella quale i pontifici erano, parlasse secondo il consueto, le altre tre secondo l’ordine della promozione. Li francesi non si contentavano se nella prima classe non era posto uno delli loro; e il secretario spagnolo fece instanza che si facesse pubblico istrumento del decreto, acciò sempre si potesse vedere che se qualche francese parlasse inanzi li spagnoli, non era per ragion di precedenza del regno. In conclusione, per dar sodisfazione a tutti, fu fatto l’istrumento, e compiaciuto alli francesi che dopo il Salmerone, primo dei pontifici, parlasse il decano di Parigi, e seguendo gli altri della prima classe; il rimanente procedesse secondo la promozione.
Erano li articoli otto, sopra quali si doveva disputare se erano ereticali e si dovessero dannare.
I. Che il matrimonio non sia sacramento instituito da Dio, ma introduzione umana nella Chiesa, e che non abbia promessa alcuna di grazia.
II. Che li progenitori possino irritar li matrimoni secreti, e non esser veri matrimoni li contratti in quella maniera, anzi esser ispediente che nella Chiesa per l’avvenire siano irritati.
III. Che sia lecito, essendo ripudiata la moglie per causa di fornicazione, contraer matrimonio con un’altra, vivente la prima, ed esser errore far divorzio per altra causa che di fornicazione.
IV. Che sia lecito ai cristiani aver piú mogli, e le proibizioni delle nozze in certi tempi dell’anno esser superstizion tirannica, nata dalla superstizione de’ gentili.
V. Che il matrimonio non si debbe posporre, ma anteporre alla castitá, e che Dio dá maggior grazia alli maritati che agli altri.
VI. Che li sacerdoti occidentali possino lecitamente contraer matrimonio, non ostante il voto o la legge ecclesiastica; e che il dire il contrario altro non sia se non condannar li matrimoni; ma tutti quelli che si sentono non aver il dono della castitá, possino contraer matrimonio.
VII. Che debbino esser guardati li gradi di consanguinitá e affinitá descritti al XVIII del Levitico, e non piú né meno.
VIII. Che la inabilitá alla congionzion carnale e l’ignoranzia intervenuta nel contrattare siano sole cause di disciogliere il matrimonio contratto; e che le cause del matrimonio s’aspettino alli principi secolari.
Sopra i quali articoli acciò fosse con brevitá parlato, furono in quattro classi divisi, a dui per ciascuna.
Arrivò in Trento il vescovo di Rennes, ambasciator di Francia all’imperatore; il quale avendo trattato con Lorena, quel cardinale andò alli legati e diede loro conto che sino al suo partire di Francia aveva ricevuto commissione dal re di andar alla Maestá cesarea; il che disegnava fare tra pochi dí, dovendo esser Cesare in Inspruch, ed essendo venuto Rennes a levarlo. Diede anche conto del medesmo viaggio al papa con sue lettere, nelle quali toccò il modo di procedere degl’italiani nel concilio; aggiongendo un motto: che, continuandosi in tal guisa, pregará Dio che l’ispiri a far cosa di suo santo servizio. Di questa andata s’era ragionato qualche mese prima; e però quando si pubblicò, non furono cosí grandi li sospetti come se sprovvista fosse stata. Si teneva per fermo da tutti che fosse per concertare nelle cose del concilio, e particolarmente per trattare come introdur l’uso del calice; e questo perché il cardinale in piú occasioni e con diversi prelati detto aveva che l’imperatore, li re de’ romani e di Francia, sin tanto che non ottenghino l’uso del calice, daranno sempre nove petizioni di riforma, quantunque si dovesse star doi anni in concilio; ma concedendo loro questa grazia, si quieterebbono facilmente; e che il sodisfar quei principi era un ottimo rimedio per ritener quei regni in obedienzia; che non era possibile ottener quella grazia dal pontefice per la contrarietá che averebbe dalli cardinali, aborrenti da questa concessione; che non s’era ottenuta giá in concilio, perché non fu ben maneggiato il negozio: vi era però speranza che, portandosi coi debiti modi, si ottenesse. Ma quelli che piú attentamente osservavano li progressi del cardinale, avvertivano una gran varietá di parlare, perché ora diceva che, non si risolvendo le cose, sará costretto partire alla Pasca o alla Pentecoste, ora che si stará in Trento due anni; e ora proponendo modi di finir presto il concilio, ora promuovendo partiti da eternarlo: indici manifesti che egli non aveva ancora scoperto la sua intenzione. E prendevano sospetto del cauto procedere, il quale argumenta animo di voler con arte giustificar le sue ragioni e onestar la sua causa. Onde, considerando che in Inspruch dovevano intervenire ancora il re de’ romani, il duca di Baviera, l’arcivescovo di Salzburg e l’arciduca Ferdinando, si teneva che quell’abboccamento non potesse apportar se non novitá, attesa la poca sodisfazione mostrata dall’imperatore sino allora del concilio, e l’unione che in tutte le cose s’era veduta tra lui e Francia; potendosi pensare che il re di Spagna aderisse anco a quella parte, essendo tanto congionto con loro di sangue; massime essendosi divulgato che quel re per lettere sue delli 8 gennaro al conte di Luna gli aveva commesso d’intendersi con l’imperatore e con Francia nelle cose della riforma e della libertá del concilio.
In questi giorni fra’ Feliciano Ninguarda, procurator dell’arcivescovo di Salzburg, presentò lettere di quel principe, e fece instanzia che li procuratori de’ vescovi di Germania potessero dar voto in congregazione, affermando che, se cosí si facesse, altri vescovi di Germania manderebbono procuratori; ma negandolo, ed esso e gli altri, per non star lá oziosi, partirebbono. Fu risposto che s’averebbe avuto considerazione e deliberato conforme al giusto; e di tanto fu dato conto a Roma, per non risolvere manco questo particolare senza avviso di lá. Ma, per le occupazioni nell’uno e l’altro luoco in cose maggiori, non se ne parlò piú.
Il 9 del mese di febbraro fu la prima congregazione de’ teologi sopra il matrimonio. Parlò il Salmerone con molta magniloquenza: e sopra il primo articolo disse le cose solite del scolastici; sopra il secondo portò la determinazione del concilio fiorentino, che il matrimonio riceve la perfezione col solo consenso de’ contraenti, né il padre o altri vi ha sopra autoritá. Sostenne che si dovevano dannar per eretici quelli che attribuiscono potestá alli padri d’annullarli. Aggionse che l’autoritá della Chiesa era grandissima sopra la materia delli sacramenti; che poteva alterare tutto quello che non appartiene all’essenza; che essendo la condizione del pubblico o secreto accidentale, la Chiesa vi aveva sopra potestá. Narrò li grand’inconvenienti che dalli matrimoni secreti nascono, e innumerevoli adultèri che seguono, e concluse esser ispediente che vi sia posto rimedio coll’irritarli. Fece insistenza grande sopra quel caso inestricabile: se alcun, dopo aver contratto e consumato matrimonio in secreto, contrae poi in pubblico con un’altra, dalla quale volendo partire e ritornar alla prima e legittima, sia costretto con censure di rimanere nel pubblico contratto; dove il misero da ambe le parti resta inviluppato, o vero in adulterio perpetuo, o vero in censure con scandalo del prossimo.
L’altro giorno seguí il decano di Parigi, che della instituzione del matrimonio, e della grazia che in quello si riceve, e del dannare chi l’asserisce invenzione umana, parlò abbondantemente, con dottrina scolastica. Ma sopra l’articolo dei clandestini, avendo disputato che erano veri matrimoni e sacramenti, pose difficoltá se la Chiesa avesse potestá d’irritarli. Contradisse a quell’opinione che nella Chiesa vi sia autoritá sopra la materia de’ sacramenti; discorse che nessun sacramento al presente legittimo può la Chiesa far che all’avvenire non sia valido; esemplificò della consecrazione dell’eucaristia, e passò per tutti li sacramenti. Disse non esser tale la potestá ecclesiastica che alcun debbi presupporsi di poter impedir tutti li peccati; che la chiesa cristiana era stata millecinquecento anni soggetta a quello che adesso vien descritto per intollerabile; e quel che non meno si debbe stimare, dal principio del mondo li matrimoni secreti sono stati validi, e nessun ha pensato di volerli annullare, con tutto che frequentemente sia occorso il caso d’un pubblico contratto dopo d’un matrimonio secreto; che par sii un insolubile, il qual da ogni canto porti inconvenienti; che il primo matrimonio tra Adam ed Eva, esemplare di tutti gli altri, non ebbe testimoni. Non restò senza esser stimato il parer di questo dottore; ma fu molto grato alli prelati italiani che, occorrendoli una volta nominar il papa, aggionse formalmente questo epiteto con la seguente esposizione, dicendo: «rettor e moderator della chiesa romana, cioè dell’universale». Con che diede anco materia a molti ragionamenti; perché, valendosene li pontifici per concludere che parimente nel canone dell’istituzione si poteva dir che il papa ha potestá «di reggere la chiesa universale», rispondevano li francesi esser gran differenzia dir assolutamente «la chiesa universale» (che s’intende l’universitá de’ fedeli), dal dire «la chiesa romana, cioè universale»; dove quel «romana» dechiara l’«universale», inferendo che è «capo dell’universale», e che tutti li luochi dove si dá autoritá al papa «sopra tutta la Chiesa» s’intendono «disgiontivamente», non «congiontivamente», cioè «sopra ciascuna parte della Chiesa, non sopra tutte insieme».
Il dí 11 febbraro in congregazione presentarono li francesi una lettera del re loro delli 18 gennaro, nella quale diceva che se ben era certo esser stato dato parte alla sinodo dal cardinale di Lorena della felice vittoria contra li inimici della religione, alla audacia de’ quali egli ha sempre fatto e fa alla giornata opposizione, senza rispetto di difficoltá o pericoli, esponendo anco la vita sua propria, come conviene ad un figlio primogenito della Chiesa e cristianissimo, con tutto ciò voleva anco egli medesimo dar loro parte della stessa allegrezza. E sapendo che li remedi salutari per li mali che affliggono le provincie cristiane sono sempre stati richiesti dalli concili, li pregava per amor di Cristo d’una emendazione e reformazione conveniente all’espettazione che il mondo ha concetto di loro; e sí come egli e tanti uomini singolari con lui hanno consecrato la vita e sangue a Dio in quella guerra, cosí essi per il carico loro voglino con sinceritá di conscienzia attender al negozio per il quale sono congregati. Le qual lettere lette, l’ambasciator Ferrier parlò alli padri in questa sostanza: che avendo essi inteso dalle littere del re, e per l’inanzi dalle orazioni del Cardinal di Lorena e vescovo di Metz, la desolazione di Francia e alcune vittorie del re, non voleva replicarle; ma li bastava dir che l’ultima vittoria, attese le forze dell’inimico, fu miracolosa; e di ciò esserne indicio che l’inimico vinto vive e trascorre danneggiando per le viscere di Francia: ma voleva voltar il parlar a loro, unico refugio delle miserie, senza quali la Francia non poteva conservar le tavole del naufragio. Diede l’esempio dell’esercito israelitico, che non bastò vincere Amalech, se le mani da Moisé a Dio elevate, e sostentate da Aaron e Ur, non avessero aiutato li combattenti. Che al re di Francia non mancano forze; un magnanimo capitano, il duca di Ghisa; la regina madre per maneggiar il negozio della guerra e pace: ma non vi è altro Aaron e Ur che essi padri per sostentar le mani del re cristianissimo con li decreti sinodali, senza quali li inimici non si reconcilieranno, né li cattolici si conservaranno nella fede. Non esser l’umore dei cristiani quello che giá inanzi cinquantanni fu: ora tutti li cattolici esser come li samaritani, che non credettero alla donna le cose che di Cristo narrò, se non avendone fatto inquisizione e intese per propria cognizione; che buona parte del cristianesmo studia le Scritture; che a questo guardando, il re cristianissimo non aveva dato alli ambasciatori suoi altre istruzioni se non conformi a quelle; ed essi ambasciatori le hanno presentate alli legati, li quali presto le proponeranno ad essi padri, come hanno promesso; a quali il Cristianissimo principalmente le manda, aspettandone il loro giudicio. Che la Francia non dimanda cosa singolare, ma comune con la chiesa cattolica; che se alcuno si maraviglierá nelle proposte loro esser state tralasciate le cose piú necessarie, tenga per fermo che s’è incominciato dalle piú leggieri, per proponer le piú gravi a suo tempo e alle leggieri dar facile esecuzione; la quale se essi padri non incominciaranno inanzi il partir di Trento, grideranno li cattolici, rideranno gli avversari, diranno non mancar scienza alli padri tridentini, ma volontá di operare; aver statuito buone leggi senza toccarle pur con un dito, ma lasciandone l’osservanza a’ posteri. E se alcuno nelle dimande esibite reputa che vi sia cosa conforme ai libri degli avversari, li giudica indegni di risposta; e a quelli che le tengono per immoderate, altro non vuol dire se non quello di Cicerone: esser un’assurditá desiderar temperanza di mediocritá in cosa ottima, tanto megliore, quanto maggiore; e che lo Spirito Santo disse ai tepidi moderatori di «doverli reiettar» fuori del corpo. Considerassero li padri il giovamento che ebbe la Chiesa per l’emendazione moderata nel concilio di Costanza e nel seguente, che non voleva nominar per non offender le orecchie di alcuno; e parimente nelli concili di Ferrara, Fiorenza, laterano e tridentino primo; e quanti generi d’uomini, quante provincie, regni e nazioni dopo quelli si sono dipartite dalla Chiesa. Voltò il parlare alli padri italiani e spagnoli, dicendo che una seria emenda della disciplina ecclesiastica era di loro maggior interesse che del vescovo di Roma, pontefice massimo, sommo vicario di Cristo, successor di Pietro, che ha suprema potestá nella Chiesa di Dio. Trattarsi ora della vita e dell’onor loro: per il che non voleva estendersi piú longamente.
Al contenuto delle lettere del re e all’orazione dell’ambasciatore fu risposto con laude di quella Maestá per le cose piamente e generosamente operate, e con una esortazione, come se fosse presente, ad imitare li suoi maggiori, voltando tutti li suoi pensieri alla difesa della sede apostolica e conservazione della fede antica, e prestar orecchie a quelli che predicano la fermezza del regno in Dio, e non a chi mette inanzi l’utilitá presente e un’immaginaria tranquillitá e pace che non sará vera pace; aggiongendo che il re cosí fará con l’aiuto divino, e per la bontá della sua natura, e per li consegli della regina madre e della nobiltá francese. Ma la sinodo metterá ogni studio per difinir le cose necessarie all’emendazione della Chiesa universale, e ancora quelle che toccano li comodi e interessi della particolare del regno di Francia. In fine della congregazione propose il Cardinal di Mantova che per breve ispedizione le congregazioni de’ teologi si tenessero due volte al giorno, e fossero deputati prelati per propor la correzione degli abusi nella materia dell’ordine. E cosí fu decretato.
Penetrò nell’animo de’ pontifici il parlar dell’ambasciatore come pongente, ma in particolare in quello che disse «gli articoli esser inviati principalmente alla sinodo», come parole contrarie al decreto che li soli legati potessero proporre: il qual stimavano principal arcano per conservar l’autoritá pontificia. Ma piú si mossero per quello che disse d’aver differito la proposizione delle cose piú importanti in altro tempo; perché da questo si cavavano gran consequenzie, e massime quello di che avevano sempre temuto, cioè che li francesi non avessero ancora scoperto li loro disegni, e macchinassero qualche grand’impresa. L’aver anco interpellato li padri italiani e spagnuoli, come altramente interessati che il papa, era stimato modo di trattar sedizioso. L’ambasciator Ferrier diede fuori copia dell’orazione da lui fatta; e per quelle parole dove, nominando il papa, di lui disse: «il quale ha suprema potestá nella Chiesa di Dio», notarono alcuni prelati pontifici che nel recitarla avesse detto: «il qual ha piena potestá nella Chiesa universale», tirando a favor della loro opinione quelle parole, e disputando tanto essere «aver piena potestá nella Chiesa universale» quanto «regger la Chiesa universale», che li francesi aborrivano tanto nel decreto dell’instituzione. Ma esso e li francesi affermavano lui aver prononciato come nella scritta si conteneva.
Partí Lorena il dí seguente per Inspruc per visitare l’imperatore e il re de’ romani, con nove prelati e quattro teologi, tenuti li piú dotti. Ebbe prima promessa dalli legati che, mentre stava assente, non s’averebbe trattato l’articolo del matrimonio de’ preti; il che egli cercò instantemente, acciò non fosse deliberato o preconcepito qualche cosa contraria alla commissione che egli aveva dal re, d’ottener dal concilio dispensa che il Cardinal di Borbone potesse maritarsi. Partí ancora per Roma il Cardinal Altemps, richiamato dal pontefice per valersi di lui in maneggiar una condotta de soldati che disegnava fare per sua sicurezza. Perché avendo inteso farsi gente in Germania dalli duchi di Sassonia e Virtemberg e dal langravio di Assia, quantunque fosse tenuto da tutti che fossero per soccorrer gli ugonotti di Francia, nondimeno, considerato che il conte di Luna aveva scritto esser gran desiderio nelli tedeschi d’invader Roma, e che si ricordavano del sacco di giá trentasei anni, giudicava che non fosse prudenzia il lasciarsi sopraprendere sprovvistamente; anzi per questa medesima causa fece rinnovare con tutti li principi italiani il negozio di collegarsi insieme alla difesa della religione.
Proseguendosi le congregazioni, nella prima classe furono li teologi tutti concordi in condannare il primo articolo, e tutte le parti sue come eretiche; e nel secondo parimente, in dire li matrimoni secreti esser veri matrimoni. Vi fu però la differenzia di sopra narrata tra il Salmerone e il decano parigino, se la Chiesa avesse facoltá di farli irriti. Quelli che tal potestá negavano, si valevano di quel fondamento che in ogni sacramento sono essenziali la materia, la forma, il ministro e il recipiente; in che, come cose instituite da Dio, non vi è alcuna potestá ecclesiastica. Dicevano che, avendo dechiarato il concilio fiorentino il solo consenso de’ contraenti esser necessario al matrimonio, chi vi aggiongesse l’esser pubblico per condizione necessaria, inferirebbe che il solo consenso non bastasse, e che il concilio fiorentino avesse mancato d’una dechiarazione necessaria. Che Cristo generalmente aveva detto del matrimonio: «non poter l’uomo separar quello che da Dio è congionto», comprendendo e la pubblica e la secreta congionzione. Che nei sacramenti non si debbia asserir alcuna cosa senza autoritá della Scrittura o della tradizione; ma né per l’una né per l’altra si ha che la Chiesa abbia questa autoritá; anzi in contrario per tradizione si ha che ella non l’abbia, poiché le Chiese in ogni nazione e per tutto il mondo sono state uniformi in non pretendervi potestá. In contrario si diceva esser cosa chiara che la Chiesa ha autoritá d’inabilitar le persone a contraer matrimonio, perché molti gradi di consanguinitá e di affinitá sono impedimenti posti per legge ecclesiastica; e parimente l’impedimento del voto solenne è introdotto per legge pontificia: adunque anco la secretezza si può aggiongere appresso questi altri impedimenti con la medesima autoritá. Per l’altra parte era risposto che la proibizione per ragion di parentela è de iure divino, sí come san Gregorio e molti altri pontefici successori hanno terminato che non può esser contratto matrimonio tra doi sin tanto che si conoscono congionti in parentato in qualunque grado. E se altri pontefici dopo hanno restretta questa universalitá al settimo grado, e dopo anco al quarto, questa è stata una dispensa generale, sí come fu una dispensa generale il ripudio al populo ebreo; e che il voto solenne impedisce de iure divino, e non per autoritá pontificia.
Ma fra’ Camillo Campegio dominicano, convenendo con gli altri che nessuna potestá umana si estende alli sacramenti, soggionse però che chiunque può distruggere l’esser della materia, può fare che quella sia incapace del sacramento. Nessun poter fare che qualunque acqua non sia materia del battesmo, e qualunque pane frumentaceo dell’eucaristia: ma chi destruggerá l’acqua convertendola in aria, o chi abbruggierá il pane convertendolo in cenere, fará che quelle materie non siano capaci della forma dei sacramenti. Cosí nel matrimonio il contratto civile nuziale è la materia del sacramento matrimoniale per instituzione divina: chi distruggerá un contratto nuziale e lo fará invalido, non potrá esser piú materia del sacramento; per il che non si ha da dire che la Chiesa possi annullare il matrimonio secreto, ché sarebbe un darli autoritá sopra li sacramenti; ma è ben vero che la Chiesa può annullar un contratto nuziale secreto, il qual, come nullo, non potrá ricever la forma del sacramento. Questa dottrina piacque molto all’universale dei padri, parendo piana, facile e che resolvesse tutte le difficoltá; con tutto che da Antonio Solisio, che parlò dopo di lui, li fosse contradetto, dicendo esser molto vera quella speculazione, ma non potersi applicar al proposito. Imperocché la ragione detta del battesimo e dell’eucaristia, che chiunque può destrugger l’acqua può fare che quella materia sia incapace di forma di battesmo, non argomenta una potestá ecclesiastica, ma una potestá naturale; sí che qualunque ha virtú di destrugger l’acqua, può in questo modo impedire il sacramento; onde seguirebbe che chiunque può annullare un contratto nuzial civile, potesse per conseguenzia impedir il matrimonio. Ma l’annullazione di simil contratti spettare alle leggi e magistrati secolari; onde era molto ben da guardare che, mentre si voleva dar autoritá alla Chiesa di annullar li matrimoni secreti, quella non si dasse piú tosto alla potestá secolare.
Ma tra quelli che asserivano tal potestá alla Chiesa, trattando se fosse ispediente usarla allora, erano due opinioni. Una, di annullar tutti li secreti; e questi non adducevano altro che gl’inconvenienti che ne seguivano. L’altra opinione era che si annullassero anco li pubblici, fatti dai figliuoli di fameglia senza consenso dei progenitori; e questi allegavano due forti ragioni: l’una era che da questi non seguivano inconvenienti minori, per le rovine che avvenivano alle famiglie dalli matrimoni imprudentemente contratti da giovani; l’altra, che la legge di Dio comandando di obedir alli progenitori, include anco questo caso come principale, di ubidirli nel maritarsi. Che la legge divina dá questa autoritá particolare al padre di maritar la figlia, come in san Paulo e nell’Esodo si vede chiaramente. Che vi sono li esempi delli santi patriarchi del Testamento vecchio, tutti maritati dai padri; che anco le leggi civili umane hanno avuto per nulli li matrimoni senza il padre contratti. Che sí come si giudicava allora ispediente de irritar li matrimoni secreti, vedendo che non basta la proibizione pontificia che li ha vietati, chi non vi aggionga la nullitá; maggior ragion convince che, non volendo la malizia umana obedir alla legge di Dio che proibisce il maritarsi senza li progenitori, debbia la sinodo aggiongervi anco la nullitá, non perché li padri abbiano autoritá di annullar li matrimoni delli figliuoli (ché l’asserir questo sarebbe eresia), ma perché la Chiesa ha l’autoritá di annullar e questi e altri contratti proibiti dalle leggi divine o umane. Questo parere, come onesto, pio e tanto ben fondato quanto l’altro, piacque a gran parte delli padri; onde ne fu anco formato il decreto; se ben poi si tralasciò di pubblicarlo, per li rispetti che a suo luoco si diranno.
Non si restava però di trattar tra li prelati sopra le cose controverse dell’autoritá del papa e instituzione de’ vescovi. E perseverando li francesi nella risoluzione di non admettere la parola «Chiesa universale», per non pregiudicar all’opinione tenuta in Francia della superioritá del concilio, e se fosse stata proposta averebbono protestato de nullitate e sarebbono partiti, scrisse il papa che la proponessero, segua quello che vuole. Ma li legati, temendo che fosse molto importuno qualsivoglia moto con la nova vicinanza dell’imperatore, rescrissero che era bene differire sino finita la materia del matrimonio.
Nella seconda classe, il dì 17 febbraio, il primo che parlò fu il padre Soto. Il quale sopra l’articolo del divorzio distinse prima la congionzion matrimoniale in tre parti: quanto al ligame, quanto all’abitar insieme, e per quel che tocca la copula carnale, inferendo esser parimente altrettante separazioni. Si estese in mostrare che nel prelato ecclesiastico era autoritá di separar li maritati o di conceder loro divorzio quanto all’abitar insieme e quanto alla copula carnale, per tutte quelle cause che da loro fossero giudicate convenienti e ragionevoli, restando però sempre fermo il ligame matrimoniale, sí che né all’uno né all’altro fosse facoltá di passar all’altre nozze, allegando che questo era quello che «da Dio era legato, né poteva esser da alcun altro disciolto». Si travagliò longamente per le parole di san Paulo, il qual concede al marito fedele, se la moglie infedele non vuol abitar con lui, di restar separato. Non si contentò dell’esposizione comune che «il matrimonio tra gl’infedeli non sia insolubile», allegando che l’insolubilitá sia dalla legge naturale, per le parole di Adam esposte da nostro Signore, e per l’uso della Chiesa, nella quale li maritati infedeli battezzati di novo non contraono matrimonio, e pur il loro non è differente da quello degli altri fedeli. E si resolse di dire esser migliore l’intelligenzia del Gaetano, che anco quella separazione di san Paulo del fedele dall’infedele non s’intende quanto al legame matrimoniale, e che era cosa che doveva esser dal santo concilio ben considerata. Quanto alla fornicazione, disse che quella parimente non doveva esser causa della separazione del legame, ma della copula e dell’abitare solamente. Si trovò però implicato, per aver detto prima che il divorzio poteva esser concesso per piú rispetti, per molte cause; dove che, l’Evangelio non admettendo se non la causa della fornicazione, è necessario che parli in altro senso e di altro repudio, e che questo evangelico si debbia intender quanto al legame, poiché quanto agli altri due vi erano molte cause di divorzio. Diede diverse esposizioni a quel luoco dell’Evangelio; e senza approvarne né reprovarne alcuna, concluse che l’articolo doveva esser dannato, atteso che per tradizione apostolica il contrario si ha di fede, ché, risguardando alle parole dell’Evangelio, non sono cosí chiare che bastino per convincer li luterani.
Sopra il quarto articolo quanto alla poligamia, disse esser contra la legge naturale; né potersi permettere eziandio agli infedeli che siano sudditi de’ cristiani. Disse che li Padri antichi ebbero molte mogli per dispensa; e gli altri che non furono da Dio dispensati, vissero in perpetuo peccato. Della proibizione delle nozze a certi tempi, brevemente allegò l’autoritá della Chiesa e la disconvenienza delle nozze con alcuni tempi; e con questa occasione passò a dire che nessuno con ragione si può gravare, poiché in questo può dispensare il vescovo. E ritornò su le cause delli divorzi, e concluse che il mondo non si dolerebbe di alcuna di queste cose, quando li prelati usassero con prudenzia e caritá l’autoritá loro; ma l’occasione di tutti li mali esser perché essi non risedono, e dando il governo ad un vicario, ben spesso senza conveniente provvisione, viene mal amministrata la giustizia e mal distribuite le grazie. E qui si estese a parlar della residenzia, allegando che senza dechiararla de iure divino era impossibile levar e quelli e gli altri abusi e chiuder la bocca agli eretici, li quali, non guardando che il male viene dalla esecuzione abusiva, lo attribuiscono alle constituzioni delli pontefici. E però mai l’autoritá pontificia sará ben difesa se non con la residenza ben fermata; né questa mai sará stabilita, senza la dechiarazione de iure divino; esser preso notabile errore da quelli che dimandavano pregiudiciale all’autoritá del papa quello che era unico fondamento di sostentarla e conservarla. Concluse che il concilio era tenuto a determinare quella veritá; e parlò con efficacia, e fu udito con gusto delli oltramontani e con disgusto delli pontifici, alli quali parve tempo molto impertinente di toccar quella materia. E diede occasione che dall’una e l’altra parte fossero renovate le pratiche.
Fra’ Gioanni Ramirez franciscano, nella congregazione dei 20 febbraro sopra li medesmi articoli, dopo aver parlato secondo la comune opinione delli teologi della indissolubilitá del matrimonio, disse le medesme ragioni che sono tra marito e moglie esser anco tra il vescovo e la chiesa sua; che né la chiesa può repudiar il vescovo né il vescovo la chiesa; e si come il marito non debbe partire dalla moglie, cosí il vescovo non debbe partir dalla chiesa sua; e che questo legame spirituale non era di minor forza che quell’altro corporale. Allegò Innocenzo III, il qual decretò che un vescovo non potesse esser transferito se non per autoritá divina, perché il legame matrimoniale, che è minore (dice il pontefice), non può esser sciolto per alcuna autoritá umana. E longamente si estese a mostrare che non per questo si sminuiva, anzi s’accresceva l’autoritá del papa, il qual come vicario universale poteva servirsi delli vescovi in altro luoco, dove fosse maggior bisogno; sí come il principe della repubblica per li pubblici bisogni può servirsi delli maritati mandandogli in altri luochi, restando fermo il vincolo matrimoniale. E si diede a risolvere le ragioni in contrario con molta prolissitá.
Ma nella congregazione della sera dello stesso giorno il dottor Cornelio disse ambidue gli articoli terzo e quarto esser eretici, perché erano dannati in piú decretali ponteficie. E con assai parole esaltò l’autoritá papale, dicendo che tutti gli antichi concili nelle determinazioni della fede seguivano pontualmente l’autoritá e la volontá del pontefice. Addusse per esempio il concilio costantinopolitano di Trullo, che seguí l’instruzione mandata da Agatone pontefice, e il concilio calcedonense, il quale non solo seguí, ma venerò e adorò la sentenzia di san Leone papa, chiamandolo anco ecumenico e pastor della Chiesa universale. E dopo aver portato diverse autoritá e ragioni per mostrare che le parole di Cristo dette a Pietro: «Pasci le mie pecorelle» significhino altrettanto, quanto se avesse detto: «Reggi e governa la mia Chiesa universale», si estese in amplificar l’autoritá pontificia e nel dispensare e nelle altre cose ancora. Portò l’autoritá dei canonisti, che il papa può dispensare contra li canoni, contra gli apostoli, e in tutto il ius divino, eccetto li articoli della fede. In fine allegò il capo Si papa, che ciascuno debbe riconoscer che la propria salute dopo Dio depende dalla santitá del papa; amplificandole assai, per esser parole d’un santo e martire, il qual nessun può dire che abbia parlato se non per veritá.