Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo VII

Libro settimo - Capitolo VII (10-31 dicembre 1562)

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CAPITOLO VII

(10-31 dicembre 1562).

[Si propone in congregazione il decreto della residenza: incerta opinione del Lorena. — I capitoli di riforma dell’ordine, formulati dai legati per la futura sessione, non sodisfano i francesi, e tanto meno gli imperiali.— Nuove dispute sulla residenza: i francesi si dichiarano pel diritto divino. — Nel sostenere la propria opinione, tutti ostentano di preoccuparsi solo di avvantaggiare l’autoritá pontificia. — Pio IV comunica ai legati la formula dei canoni sull’istituzione dei vescovi e sulla residenza, da sottoporsi al concilio. — I legati, a mezzo del Visconti, lo informano delle difficoltá che prevedono. — Missione bavarese a Roma per ottenere l’uso del calice. — Vicende della guerra religiosa in Francia: battaglia di Dreux. — Cerimonie a Trento per la vittoria dei cattolici. — Bolla di riforma, particolarmente della sacra romana rota.]

Ma nel concilio, finito di dir li voti sopra la materia dell’instituzione tanto ventilata, non si fece alcuna resoluzione, aspettando li legati che da Roma venisse. Ma diedero fuora il capo della residenza, participato prima col Cardinal di Lorena; il qual era, come s’è di sopra detto, senza la dechiarazione se fosse de iure divino o no, ma con premi e pene. E Lorena, dicendo prima di tutti il voto, vi aggionse che era necessario conceder alli vescovi il poter assolvere dai casi riservati In cœna Domini, il che protestava di non dire per diminuire l’autoritá di Sua Santitá, ma perché avendo visto in Francia che nessun trasgressor di quella si curava andar o mandar a Roma per l’assoluzione, gli pareva peggio, e per le anime dei populi e per la dignitá della sede apostolica, il lasciarli in quelle censure. Aggionse anco che non gli pareva bene astringer li vescovi alla residenzia, in maniera che non [p. 102 modifica] potessero assentarsi per giuste cagioni, le quali si avevano da rimetter al giudicio di Sua Santitá. Disse di piú che erano da eccettuar li occupati nei pubblici negozi delli regni e repubbliche, perché quelli ancora si hanno da reputar non alieni dal carico episcopale, massime nei regni dove l’ordine ecclesiastico è un membro dello stato, come è in Francia e nelli regni di Spagna ancora. Fu il Cardinal molto prolisso, e se ben replicava spesso che la residenzia era necessaria e conveniva provveder che si servasse, nondimeno andava interponendo tante eccezioni e iscusazioni, che in fine nessun seppe giudicar se egli approvasse o non approvasse che decreto alcuno della residenza fosse statuito.

Comunicarono anco li legati alli ambasciatori, secondo la promessa, li capitoli della riforma per la futura sessione, prima che si proponessero in congregazione, li quali tutti erano per remedi degli abusi spettanti al sacramento dell’ordine. E perciò si radunarono gli ambasciatori e vescovi francesi in casa di Lorena, per parlar sopra di quelli; e deputarono quattro vescovi tra loro che li considerassero, pensando se vi era cosa pregiudiciale ai privilegi della chiesa gallicana, e se se gli poteva aggiongere alcuna cosa per servizio del paese loro: e insieme diedero carico all’ambasciator Ferrier che in congregazione delli medesimi vescovi si raccogliessero tutte le riforme proposte giá in Trento sotto Paulo e Giulio, e nel presente ancora, e nella congregazione di Poissi, per farne un estratto; e aggiontovi il contenuto nelle instruzioni regie, e quel di piú che loro paresse, ne formassero articoli per tutta la cristianitá e principalmente per la Francia.

Ma li cesarei, veduto che non si proponeva alcuna delle riforme da loro raccordate, congregarono tutti gli ambasciatori. Praga parlò a loro, raccordando il longo tempo consumato in concilio in far niente, le promesse tante volte fatte dalli legati che s’averebbe trattato della riforma, e con tutto ciò erano trattenuti con speculazioni o con provvisioni di abusi leggieri; che era tempo di far instanza efficace che s’attendesse alle cose importanti e urgenti; che se tutti fossero comparsi uniti [p. 103 modifica] a richiedere l’esecuzione di tante promesse fatte dal papa e dalli legati, si poteva sperar di ottenere. Tutti consentirono; ma quando si venne al li particolari, si trovarono tanto differenti, che non poterono convenir se non nel generale di addimandar riforma: onde si risolvè che Praga nel dir il suo voto la richiedesse per nome di tutti. E cosí fece.

E in materia della residenza con poche parole disse che bastava levar alli prelati li trattenimenti che godono in corte di Roma e in quelle degli altri principi, e ogni decreto sará bastante. Il parer dell’arcivescovo d’Otranto fu che bastasse il decreto dell’istesso concilio fatto sotto Paulo III, aggiongendovi solo la bolla del pontefice data del 1560 a’ 4 settembre. Altri appresso a quella bolla ricercarono anco che fosse fatta espressione delle cause dell’assenzia che la sinodo ha per legittime, essendo questo il punto sopra il qual può nascer maggior difficoltá. La sostanza della bolla nominata da Otranto conteneva un precetto della residenza personale sotto le medesme pene dal concilio dechiarate, e quattro grazie alli residenti: cioè che non possino esser citati alla corte, se non per commissione segnata dal papa; che siano esenti da ogni imposizione ordinaria ed estraordinaria, eziandio a petizione de’ prencipi imposta; che possino esercitar giurisdizione contra ogni chierico secolare esente, e regolare abitante fuori del claustro; che non si possi appellar dalle loro sentenzie, se non dalla difinitiva. Altri si contentavano del decreto proposto dalli legati, ma con qualche alterazione, tutte accomodate alli propri rispetti, che erano tanti quante le persone. Altri ancora fecero instanzia che fusse dechiarata de iure divino: e una quarta opinione fu anco che, quantunque sia de iure divino, non è ispediente farne dechiarazione.

Congregò il cardinale di Lorena li teologi francesi per disputare sopra questo punto; li quali tutti uniformi conclusero che fosse de iure divino. E il vescovo di Angers fu il primo tra li francesi a dir il parer suo in quella sentenzia, e cosí fu seguito dagli altri. Ma nelle congregazioni generali della sinodo usavano li prelati incredibil longhezza; di che si [p. 104 modifica] doleva il Cardinal di Lorena con li legati, mostrando desiderare che quelle materie si spedissero per venir alla riforma, replicando le tante volte usate parole, che se non averanno sodisfazione in Trento, la faranno in casa loro.

Fra’ Alberto Duimio vescovo di Veglia, allegando che la materia della residenza fu discussa nel concilio sotto Paulo III e rimessa ad altro tempo la decisione, aggionse che però sarebbe necessario veder le ragioni allora dette dalli prelati. Al presente avevano detto il suo parere senza allegar ragioni; ma egli non giudicava dover far l’istesso, come pretendendo per autoritá e a numero di opinioni, e non per ragione. E poi si diede a recitar tutte le ragioni per prova che sia de iure divino, e a risolvere le contrarie. Fece gran riflesso sopra il detto di Cristo che «il buon pastore va inanzi il gregge, chiama ogni pecorella per nome, scorre per il deserto a cercarne una perduta, e mette la vita per loro». Mostrò che questo s’intendeva di tutti quelli che Cristo ha instituiti pastori, che sono tutti quelli che hanno cura d’anime, li vescovi massime, come san Paulo disse e scrisse agli efesi. Che chiunque non si riputava per decreto di Cristo obbligato a questi uffici, o era piú utile per li negozi delli regni e repubbliche, lasciasse il carico di pastore e attendesse a quei negozi soli: che è ben molto far bene un carico, ma due contrari è impossibile. Non piacque alli cardinali per la longhezza, per esser stato il primo a disputar quella materia con ragione, e perché parlò con veemenzia dalmatina, con assai delli modi di san Geronimo e parole tolte da quello di peso. Simonetta l’averebbe volentieri interrotto, ma restò, per l’occorrenza del vescovo di Guadice: nondimeno lo chiamò in presenza di molti prelati e lo riprese acremente che aveva parlato contra il papa. Il vescovo si difese umilmente e con ragioni; e pochi dí dopo, allegando indisposizione, chiese licenza, e l’ebbe, e si partí il 21 del mese.

La controversia della residenza dopo questo tempo mutò stato; e quelli che l’aborrivano non si faticavano piú a mostrare con ragioni o vero autoritá, come sin allora s’era fatto, che fosse di legge umana, ma si diedero a spaventar quelli della [p. 105 modifica] contraria opinione, con dire che l’attribuirla alla divina era un diminuire l’autoritá del papa, perché ne seguirebbe che non potesse piú accrescere o diminuire, dividere o vero unire, mutar o transferir le sedi episcopali, né lasciarle vacanti o darle in amministrazione o commenda; che non potrebbe restringere, né meno levare l’autoritá d’assolvere; che con quella determinazione si veniva a dannar in un tratto tutte le dispense concesse dalli pontefici, e levar la facoltá di concederne all’avvenire. L’altra parte, che ben vedeva seguir per necessitá quelle consequenze, non però esser inconveniente quello che ne seguiva, anzi esser la stessa veritá e uso legitimo della Chiesa vecchia, e che non per altro si proponeva la dechiarazione, se non per levar quelli inconvenienti; essa ancora, tralasciato di usar ragioni e autoritá per provarla de iure divino, si diede a mostrar che, restituendo con quella dechiarazione la residenza, tornerebbe in aumento della potestá pontificia, si accrescerebbe la riverenza verso il clero, e maggior verso il sommo pontefice, il quale ha perso in tante provincie l’autoritá, perché li vescovi, non resedendo e governando per vicari inetti, hanno lasciato aperta la strada alla disseminazione delle nove dottrine, che con tanto detrimento dell’autoritá pontificia hanno preso piede. Se li vescovi resederanno per tutto, sará predicata l’autoritá del papa, e confermata dove ancora è riconosciuta, e restituita dove ha ricevuto qualche crollo. Non potevano però né l’una né l’altra parte parlar in questi termini, che la contraria non si accorgesse della dissimulazione, e che l’interno occultato non restasse pur troppo aperto: erano tutti in maschera, e tutti però conosciuti. Ma ridotti al giorno 16 del mese di decembre, né essendo per ancora detti li voti dalla metá delli prelati, propose il Cardinal Seripando la prorogazione della sessione; né potendo prevedere quando fossero per espedirsi, fu deliberato che fra quindici giorni s’averebbe prefisso il termine. E ammoní il cardinale li prelati della soverchia longhezza nel dir i voti, la quale non mirava se non ad ostentazione, levava la reputazione del concilio, ed era per mandarlo in longo, con grave incomodo di tutti loro. [p. 106 modifica]

Il pontefice, che era restato molto afflitto per la morte successa in fine del mese inanzi di Federico Borromeo suo nepote, al quale pensava di voltar tutta la grandezza della casa (avendolo maritato in una figlia del duca di Urbino, fattolo governator generale della Chiesa, con trattato di dargli anco il ducato di Camerino), e oppresso dalla gravezza del dolore, era incorso in una indisposizione pericolosa alla sua etá: recreato alquanto, applicò l’animo alle cose del concilio. Tenne diverse congregazioni per trovar temperamento sopra li dui canoni dell’instituzione e della residenzia, giudicati da tutta la corte molto pericolosi all’autoritá pontificia, e a ritrovar modo come provvedere alla prolissitá delli prelati nel dir le opinioni, come quella che portava il concilio in longo, lasciando una porta aperta a tutti quelli che volessero entrar ad attentare contra la sua dignitá. Sopra tutto gli dava molestia quello che dalli francesi era disegnato; massime che non riceveva mai lettere da Trento, nelle quali non si dicesse che o il Cardinal di Lorena o alcuno delli ambasciatori non facessero instanzia di riforma, con aggionta che se non avessero potuto riportar le provvisioni che ricercavano, le farebbono in casa loro; e che ben spesso facevano menzione di voler provvisione sopra le annate e prevenzioni, e altre cose proprie spettanti al pontefice romano. Deliberò di venir all’aperta con li francesi, e disse a quelli che erano in Roma che, avendosi egli tante volte offerto di trattar col re di quello che toccava li suoi propri dritti e venire ad amicabile composizione, e vedendo che li ministri del re in concilio sempre facevano menzione di volerne trattar nella sinodo, era risoluto di vedere se voleva romper con lui a sí aperta dissensione. Diede ordine per corrier espresso in Francia al suo noncio di parlarne. A Lorena scrisse che non si potevano proponer in concilio quelle materie senza contravvenir alle promesse espresse fatte dal re per mezzo di monsignor di Auxerre. Si querelò in consistoro della impertinenza de’ vescovi in Trento nell’allongar le materie per vanitá; esortò li cardinali a scrivere agli amici loro, e alli legati scrisse che adoperassero le minacce e l’autoritá, poiché le [p. 107 modifica] persuasioni non giovavano. Sopra li articoli della instituzione scrisse che il dire assolutamente l’instituzione dei vescovi esser de iure divino era opinione falsa ed erronea, perché la sola potestá dell’ordine era da Cristo, ma la giurisdizione era dal romano pontefice; e in tanto si può dire da Cristo, perché l’autoritá pontificia è dalla Maestá sua, e tutto quello che il papa fa, lo fa Cristo mediante lui. E scrisse per risoluzione che o vero si tralasciassero assolutamente le parole de iure divino, o vero si proponesse nella forma che egli mandava, nella quale si diceva «Cristo aver instituito li vescovi, da esser creati per il romano pontefice, con distribuzione di quale e quanta autoritá pareva a lui, per beneficio della Chiesa, darli; e con assoluta potestá di ristringere e ampliare la data, secondo che da lui è giudicato». Scrisse appresso che nel particolare della residenza, essendo cosa chiara che il pontefice ha autoritá di dispensare, fosse per ogni buona cautela reservata l’autoritá sua nel decreto; nel quale non si poteva metter de iure divino, come aveva ben provato il Catarino; dal parer del quale, come cattolico, non si dovessero partire. E quanto al tener la sessione, scrisse confusamente che non fosse differita oltre li quindici giorni, e che non si celebrasse senza aver le materie in ordine, acciò non fosse presa occasione da’ maligni di cavillare.

Per Trento passò una solenne ambasciaria del duca di Baviera, inviata a Roma per ottener dal papa la comunione del calice. Ebbe audienza dalli legati, e trattò in secreto col cardinale di Lorena. Fu causa di rinnovar la controversia, giá sopita, in quella materia, essendo li spagnoli e molti delli italiani (se ben per voti della maggior parte s’era rimessa la causa al papa) di parere che fosse pregiudicio al concilio se durante esso quell’uso s’introducesse. Si posero anco tutti li padri in moto, per esser da Roma gionte lettere a diversi prelati che s’averebbe sospeso il concilio; la qual fama fu anco confermata da don Giovanni Manriques, che per Trento passò da Germania a Roma.

Ma li legati, ricevute le lettere del pontefice, giudicarono impossibile eseguir li ordini da Roma venuti, e che fosse di [p. 108 modifica] bisogno dar al pontefice informazione piú minuta delle cose occorrenti, di quella che si poteva dar per lettere; e far capace il papa che non si può governare il concilio come a Roma si pensa; e aver instruzione da Sua Santitá piú chiara di quanto dovevano operare. Ed essendo bisogno di persona di buon giudicio, ben informata, e a chi il papa dovesse aver credito, non trovarono migliore del vescovo di Vintimiglia, il qual deliberarono d’ispedire in diligenza. Le feste del Natale instante furono di opportuna comoditá per far prima camminar lentamente, poi per intermettere le congregazioni, e con agio attendere a quell’ispedizione, che fu il 26 del mese di decembre.

Ma a’ 28 arrivò nova della battaglia in Francia successa il di 17, con pregionia del prencipe di Condé. Tutto l’anno fu molto turbulento in quel regno per le differenzie della religione, che diedero principio prima a lenta, e doppoi a gagliarda guerra. Nel principio dell’anno, essendo cresciuto in Parigi il numero de ugonotti, con mala satisfazione del populo cattolico, numerosissimo in quella cittá, e facendo quelli gran seguito al prencipe, il contestabile con li figliuoli e la casa di Ghisa tutta, insieme con alcuni altri, per impedir la grandezza alla quale quel prencipe camminava, fecero lega insieme, con disegno di farsi capi del populo parisino, e con l’aderenzia di quello scacciar il prencipe con li suoi seguaci da Parigi e dalla corte. E partiti ciascuno dalle terre loro per inviarsi verso quella principale cittá, e nel viaggio uccisi e dispersi gli ugonotti che trovarono in diversi luochi adunati, entrarono in Parigi; e tirato dal canto loro il re di Navarra, e fatta armar la cittá a loro favore, fu la regina costretta ad accordarsi con essi. Onde uscito Condé di Parisi, e ritiratosi in Orliens con li suoi aderenti, passarono manifesti e scritture dall’una parte e dall’altra, professando ciascuno di operare, in tutto quello che faceva, per libertá e servizio del re. Ma facendosi ogni giorno piú forte il partito del contestabile e di Ghisa, nell’aprile il principe di Condé scrisse a tutte le chiese riformate di Francia, dimandando soldati e denari e dechiarando la guerra [p. 109 modifica] contra li defensori della parte cattolica, chiamandoli turbatori della quiete pubblica e violatori dell’editto regio pubblicato a favor de’ reformati. Le lettere del principe furono accompagnate con altre delli ministri d’Orliens e di diverse altre cittá, che furono causa di metter le arme in mano alli seguaci di quella religione. E successe accidente che li incitò maggiormente: imperocché nel medesmo tempo fu pubblicato di novo in Parigi l’editto di gennaro, del quale si è fatta menzione, con una aggionta: che nelli borghi di quella cittá e una lega vicino non si potessero far congregazioni di religione o amministrar sacramenti, se non nel modo antico. E in fine di maggio il re di Navarra fece uscir di Parigi tutti quanti di loro erano; se ben in questo procedette con moderazione, ché non lasciò che alcun di loro fosse offeso.

Si ruppe la guerra quasi per tutte le provincie di Francia tra l’una parte e l’altra; e in quell’estate furono sino quattordici eserciti, formati tutti in un tempo in diverse parti del regno. Combattevano anco figliuoli contra padri, fratelli contra fratelli, e sino femmene dall’una parte e l’altra presero le arme per mantenir la loro religione. Quasi nessuna parte delle provincie, Delfinato, Lenguadoca e Guascogna, rimase che non fosse piú volte scossa, in alcuni luochi restando vincitori li cattolici, in altri li riformati, con tanta varietá di avvenimenti, che cosa longa sarebbe raccontarli, e fuori del nostro proponimento; il quale non ricerca che siano narrate le cose fuor di Trento, se non hanno connessione con le conciliari, come sono le seguenti. Che dove gli ugonotti restavano vincitori, erano abbattute le immagini, destrutti gli altari ed espillate le chiese, e li ornamenti d’oro e d’argento fusi per batter moneta con che pagar li soldati. Li cattolici, dove vincevano, abbruggiavano le bibbie volgari, rebattezzavano li fanciulli, constringevano a rifar di novo li matrimoni fatti secondo le ceremonie riformate. E piú di tutti era miserabile la condizione delli chierici e delli ministri riformati, de’ quali, quando capitavano in mano delli avversari, era fatto strazio crudele e inumano; e in termini di giustizia anco si facevano esecuzioni [p. 110 modifica] grandi, massime dalla parte cattolica. Nel luglio il parlamento di Parigi fece un arresto, che fosse lecito uccidere tutti gli ugonotti; il quale per pubblico ordine si leggeva ogni dominica in ciascuna parrocchia. Aggionsero poi un altro, dechiarando rebelli, inimici pubblici, notati d’infamia con tutta la loro posteritá, e confiscati li beni a tutti quelli che avevano preso le armi in Orliens, eccettuando Condé, sotto pretesto che fosse tenuto da loro per forza. E con tutto che molte trattazioni passassero tra l’una parte e l’altra, essendosi eziandio abboccati insieme la regina madre del re e il principe di Condé, l’ambizione de’ grandi impedi ogni componimento, sí che non fu possibile trovar modo come acquetare il moto.

Ma essendo morto il re di Navarra, che forse averebbe impedito il venire ad aperta guerra, la regina, volendo far sforzo di ricuperar l’obedienzia con le armi, dimandò a tutti li principi soccorso. E perché per li movimenti di Francia li populi dei Paesi Bassi imparavano ad esser sempre piú contumaci e duri, e ogni giorno si diminuiva l’autoritá del re, non potendo li governatori reparare, né volendo il re seguir il parer del Cardinal Granvella, principale in quel governo, il quale lo consegliava a transferirsi per opponer la Maestá regia alla mala disposizione dei populi e sdegno delli grandi (conoscendo quel savio re quanto fosse piú pericolosa cosa esser disprezzato in presenza, e dubitando di non acquistar perciò la Fiandra, ma confermarla nella contumacia maggiormente, e tra tanto perder anco la Spagna); giudicò quel principe che con sottomettere li francesi sollevati al suo re potesse provvedere intieramente alla contumacia dei sudditi propri; e però offerí alla regina potentissimi aiuti di gente, e sufficienti per sottometterli tutto il regno. Ma la regina ricusava aiuti di gente e dimandava de danari, ben conoscendo che col ricever le genti s’averebbe messo in necessitá di regger la Francia non secondo li rispetti propri, ma del re di Spagna: onde convenendo in un partito medio, ricevette aiuto di seimila persone, con le quali e con le forze proprie, maneggiate dal contestabile e dal duca di Ghisa, il giorno sopra detto dei 17 [p. 111 modifica] fu fatta la giornata, dove morirono degli ugonotti tremila e cinquemila de’ cattolici. Da ambe le parti restarono li capitani generali prigioni, Condé e il contestabile; nessuno del li eserciti restò rotto, per il valore delli luogotenenti dell’uno e dell’altro, che erano Ghisa per i cattolici e Coligni per li ugonotti; e la regina immediate confermò il capitaniato a Ghisa. Né per questo Coligni restò di mantener l’esercito in arme, di conservar le terre che aveva, e far anco qualche progresso.

Di questa vittoria, che per tale fu dipinta, se ben non molto meritava il nome, si rese grazie a Dio in Trento da tutti li padri congregati, facendo una processione e cantando una messa. Nella quale Francesco Beicaro vescovo di Metz fece un’orazione, narrando tutta l’istoria delle confusioni di Francia dalla morte di Francesco II; e raccontando il successo dell’ultima guerra, conferí tutta la laude del ben operato nel solo duca di Ghisa: passò a dire la causa di quelle confusioni esser stato Martin Lutero, che, se ben picciola scintilla, accese gran fuoco, occupando prima la Germania e poi le altre province cristiane, fuor che l’Italia e Spagna. Interpellò li padri a sovvenir alla repubblica cristiana, poiché soli potevano estinguer quell’incendio. Disse che era l’anno ventesimosesto dopo che Paulo III diede principio a medicar il male, intimando quivi il concilio; il quale fu differito, poi dissimulato; e finalmente in quello con varie fazioni si contese, sinché fu transferito a Bologna, dove intervennero varie dilazioni, maggior contenzioni e fazioni piú acerbe. Fu poi richiamato in Trento, e per le guerre dissoluto. Ora essersi gionto all’ultimo; non esservi piú luoco di dissimulazione: quel concilio o vero esser per reconciliar tutto ’l mondo, o per precipitarlo in una certa ruina. Però conveniva che li padri non risguardassero agl’interessi privati, non portassero disegni né parlassero in grazia d’altri, trattandosi la causa della religione: se averanno l’occhio ad altra cosa, la religione sará spedita. E le suddette cose dette con libertá temperò con adulazione, prima ai padri, poi verso il pontefice, l’imperatore, il re de’ romani e quello [p. 112 modifica] di Polonia. Passò alle lodi della regina madre di Francia e del re di Portogallo, e in fine esortò alla riforma della disciplina ecclesiastica.

Il Cardinal di Lorena, ricevuta la nova della prigionia del principe, restò molto allegro, particolarmente per l’onore del fratello; e tanto piú entrò in desiderio di ritornar presto in Francia, per poter aiutar, stando in corte e nel regio conseglio, le cose di quello, e avanzarsi esso ancora qualche grado piú alto, poiché era levato e Navarra e il contestabile, a’ quali era necessario che cedesse.

Il pontefice, in quei giorni, pieno di sospetto per la andata in Inspruc che aveva pubblicato l’imperatore, giudicando che non si movesse senza gran disegni e senza certezza di effettuarli, e però credendo che avesse secreta intelligenza con Francia e Spagna (della quale niente penetrando, non poteva far giudicio se non che fosse macchinazione contra lui), andava pensando di transferirsi esso ancora a Bologna, e di mandare otto o dieci cardinali a Trento; di ristringersi maggiormente con li principi italiani, e di confermar bene li prelati suoi amorevoli in concilio, mentre trovava qualche occasione che si dissolvesse o suspendesse. E per impedir la trattazione in Trento di riformar la sua corte, in quei giorni s’adoperò assai in questo: riformò la rota, pubblicando un breve dato sotto il di 27 decembre, con ordinazione che nessun auditore possi venir alla definitiva (se ben in causa chiara), non fatta la proposizione a tutto il collegio, eccetto se intervenisse il consenso delle parti; che le sentenzie prononziate ut in schedula siano prodotte tra quindici giorni; che le cause degli auditori o loro consanguinei e parenti sino al secondo grado, o familiari, non siano conosciute in rota; che non si constringano le parti a ricever avvocato; che non si faccia decisione contra le stampate, se non con doi terzi dei voti; che siano tenuti a rimetter qualunque causa dove si scuopra suspezione di delitto. Fece nella medesima bolla una tassa della moderazione delle sportule. Riformò ancora, con altre bolle pubblicate il primo di gennaro seguente, la segnatura di giustizia, li tribunali di Roma, l’ufficio [p. 113 modifica] dell’avvocato fiscale, ordinando le sportule che dovessero avere. Ma tanto fu lontano che per queste provvisioni cessassero le consuete estorsioni, che anzi dalle transgressioni di questi novi ordini s’imparò a violar anco li vecchi che erano in qualche uso.

Li cortegiani romani, reputando che li cattolici in Francia avessero avuto intiera vittoria e che li protestanti fossero affatto annichilati, erano allegri, credendo che, essendosi ottenuto con le armi quello che si aspettava dal concilio quanto alla Francia, (non dovendo aver piú risguardo alla Germania che gli aveva protestato contra), cessassero totalmente le cause di far concilio, e si potesse suspenderlo o differirlo, e liberar loro dal travaglio, che ogni settimana sentivano a crescere per le novitá che da Trento avvenivano. Il pontefice non vi fece gran capitale sopra; perché, ben avvisato che le forze de’ cattolici non erano accresciute né quelle de’ ugonotti diminuite, e che quella giornata darebbe occasione ad ambe le parti di trattar di pace, che non poteva esser senza pregiudicio suo e senza dar materia in Trento di maggior novitá, restava con maggior timore e molestia che prima. Con questo stato di cose finí l’anno 1562, avendosi in Trento tenuta congregazione il di 30 del mese, dove fu deliberato di prolongar a statuir il giorno della sessione per altri quindici giorni.