Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo III
Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - Capitolo II | Libro secondo - Capitolo IV | ► |
CAPITOLO III
(febbraio-marzo 1546).
[Terza sessione: lettura del simbolo niceno-costantinopolitano. — Conferenza religiosa e dieta di Ratisbona: riaffermato contrasto fra luterani e cattolici. — Lavori del concilio: congregazioni sul canone della sacra Scrittura. — Critica delle dottrine luterane. — Dell’autoritá della sacra Scrittura e della tradizione. — Dell’autenticitá dei libri sacri. — Lagnanze di vescovi in concilio pel pagamento delle pensioni. — Breve soggiorno del Vergerio a Trento: sua apostasia. — Dell’autoritá della Volgata in relazione col testo e con le altre traduzioni. — Della moderna interpretazione della Scrittura. — Si approva la Volgata, proponendone la correzione. — Se ne condanna ogni interpretazione contraria alla dottrina della Chiesa e dei Padri. — Si condanna l’abuso dei testi sacri in azioni profane o superstiziose. — Dell’insegnamento religioso e della predicazione.]
Avvicinando il tempo prefisso per la sessione, e non avendo ricevuto da Roma instruzione, si ritrovarono li legati in molta perplessitá. Il passar quella sessione in ceremonie, come la precedente, pareva un perder tutta la riputazione; il dar mano ad alcuna materia era giudicato cosa pericolosa, non avendo ancora prefisso il scopo dove mirare. Quello che pareva portare manco rischio era formar un decreto sopra la resoluzione presa nella congregazione di trattar insieme la materia della fede con quella della riforma, a che si opponeva che era un obbligarsi e anco un determinare cosa quasi giá decisa dal pontefice nella convocazione. In quest’ambiguitá era proposto che si passasse con un decreto dilatorio, sotto pretesto che molti prelati erano in viaggio e s’aspettavano di corto. Il Cardinal Polo messe in considerazione che, essendosi in tutti li antichi concili pubblicato un simbolo di fede, si dovesse in quella sessione far l’istesso, pubblicando quello della chiesa romana.
Fu in fine deliberato di formar il decreto con titolo semplice, e in quello far menzione di dover trattar della religione e della riforma, ma tanto in generale che si potesse accomodare ad ogni opportunitá, e recitar il simbolo, e passarsela facendo un altro decreto di rimetter le materie ad altra sessione; allegando per causa l’esser molti prelati in procinto e alcuni in viaggio; e per non esser ridotti piú in tal angustie, allongar il termine della seguente il piú inanzi che si poteva, non differendola però dopo Pasca.
Quello formato, fu comunicato alli prelati piú confidenti; fra’ quali il vescovo di Bitonto considerò che il fare una sessione per recitar il simbolo, giá mille dugento anni stabilito e continuamente creduto, e al presente da tutti accettato intieramente, potrá esser ricevuto dagli emuli con irrisione e dagli altri con sinistra interpretazione; che non si può dire di seguire in ciò l’esempio dei Padri antichi, perché essi o vero hanno composto simboli contra l’eresie che condannavano, o vero replicati li anteriori contra eresie giá condannate per darli autoritá maggiore, aggiontovi qualche cosa per dechiarazione, o vero per ritornarlo in memoria e assicurarlo contra l’oblivione. Ma allora non si componeva simbolo novo, non vi s’aggiongeva dechiarazione; il darli maggior autoritá non esser cosa da loro né da quel secolo; il rammemorarlo, recitandosi almeno ogni settimana in tutte le chiese ed essendo in memoria recente d’ogni uomo, esser cosa superflua ed affettata. Che col simbolo fossero convinti gli eretici, esser vero di quelli che erravano contra esso; però non potersi far cosí contra luterani, che lo credono come li cattolici. Se dopo l’aver fatto questo apparato, mai sará usato il simbolo a questo effetto, s’interpreterá l’azione come fatta non per altro che per trattener e dar pasto, non avendo ardire di toccar li dogmi né volendo dar mano alla riforma. Consegliò che fosse meglio metter dilazione, attesa l’espettazione delli prelati, e con quella passar la sessione. Il vescovo di Chiozza vi aggionse che anzi le ragioni addotte nel decreto potrebbono esser dalli eretici adoperate a proprio favore, con dire che se il simbolo può servire a convertir infedeli, espugnar eretici, confermar fedeli, non si debbe costringerli a credere altra cosa fuori di quelle.
Queste ragioni non furono giudicate dalli legati cosí efficaci come la contraria, che il non far decreto fosse con perdita della riputazione; per il che, risoluti a questa parte e accomodate meglio alcune parole secondo li avvertimenti dei prelati, proposero il decreto nella congregazione del 1° di febbraro. Sopra il quale furono dette varie cose, e se ben fu approvato dalla maggior parte, nondimeno con poco gusto. Nel partire della congregazione alcuni delli prelati ragionando l’un all’altro ebbero a dire: «Si dirá che con negozio di venti anni si ha concluso di ridursi per udire a recitar il Credo».
Venuto donque il di 4, giorno destinato alla sessione, con la medesima ceremonia e compagnia s’andò alla chiesa. Nella quale cantò la messa Pietro Tagliavia, arcivescovo di Palermo, fece il sermone frate Ambrosio Catarino senese, dominicano, e l’arcivescovo di Torre lesse il decreto. La sostanza del quale fu che la sinodo, considerando l’importanzia delli dui capi che aveva da trattare, dell’estirpazione dell’eresie e reformazione delli costumi, esorta tutti a confidar in Dio e vestirsi delle arme spirituali; e acciocché la sua diligenzia abbia principio e progresso dalla divina grazia, determina incominciar dalla confessione della fede, seguitando gli esempi dei Padri, che nei principali concili nel principio delle azioni hanno opposto quel scudo contra le eresie, e con quel solo alcune volte hanno convertito gl’infedeli e vinti gli eretici; nel quale concordano tutti li professori del nome cristiano. E qui fu recitato tutto di parola in parola, senza soggionger altra conclusione; e interrogò l’arcivescovo li padri, se gli piaceva il decreto. Fu resposto da tutti affirmativamente, ma da alcuni con condizioni e addizioni non di gran momento, con displicenzia del Cardinal del Monte, al quale non poteva piacer che in sessione si descendesse a particolari, temendo che quando s’avesse trattato cosa di rilievo, potesse nascer qualche inconveniente. Fu letto dopo l’altro decreto, intimando la sessione per li 8 aprile, allegando per causa della dilazione che molti prelati erano in pronto per il viaggio e alcuni in via, e che le deliberazioni della sinodo potranno apparere di maggior stima, quando saranno corroborate con conseglio e presenzia di piú padri, non differendo però l’esame e discussione di quelle cose che alla sinodo pareranno.
La corte romana, che al nome di riforma era tutta in spavento, sentì con piacere che il concilio si trattenesse in preambuli, sperando che il tempo averebbe portato rimedio; e li cortegiani intemperanti di lingua esercitarono la dicacitá, dando fuori, sì come si costumava allora in tutti li avvenimenti, diverse pasquinate molto mordaci, chi con lodare li prelati congregati in Trento d’aver fatto un nobilissimo decreto e degno d’un concilio generale, e chi confortandoli a conoscer la propria bontá e scienzia.
Li legati, nel dar conto al papa della sessione tenuta, avvisarono anco esser cosa difficile per l’avvenire opponersi e vincere quelli che volevano finir il titolo colla rappresentazione della Chiesa universale; nondimeno si sarebbono sforzati di superar le difficoltá: ma che di trattener piú i prelati senza operare cosa di momento e venir all’essenziale, non era possibile, e che però aspettavano l’ordine e instruzione tante volte richiesta; che a loro sarebbe parso bene trattar della sacra Scrittura quelle cose che sono controverse con luterani, e li abusi introdotti nella Chiesa in quella materia, cose con quali si poteva dar molta sodisfazione al mondo senza offender nissuno: e di ciò averebbono aspettato la risposta, essendovi tempo assai longo per poter esaminar quelle materie e molte occasioni di portar tempo sino al principio di quadragesima.
Ma in questo tempo, benché il concilio fosse aperto e tuttavia si celebrasse, non mutarono stato in Germania le cose. Nel principio dell’anno l’elettor palatino introdusse la comunione del calice, la lingua populare nelle pubbliche preghiere, il matrimonio de’ preti e altre cose riformate giá in altri luochi. E li destinati da Cesare ad intervenir nel congresso per trovar modo di concordia nelle differenze della religione si ridussero in Ratisbona al colloquio, del quale Cesare deputò presidente il vescovo di Eicstat e il conte di Furstemberg: dove non riusci alcun buon frutto, per le suspizioni che ciascuna delle parti concepì contra l’altra, e perché li cattolici incontravano ogni occasione di dar all’altra parte maggior sospetti e fingerli dal canto proprio. Li quali fecero finalmente dissolvere il convento.
Morì anco a’ 18 di febbraro Martino Lutero. Le qual cose avvisate in Trento e a Roma, non fu sentito tanto dispiacere della mutazione di religione nel Palatinato, quanta allegrezza perché il colloquio non avesse successo e tendesse alla dissoluzione, e fosse morto Lutero. Il colloquio pareva un altro concilio e dava gran gelosia; perché se qualche cosa fosse stata concordata, non si vedeva come potesse poi dal concilio essere regetta; e se fosse accettata, averebbe parso che il concilio ricevesse le leggi d’altrove: e in ogni modo quel colloquio in piedi con intervenienti ministri di Cesare era con poca riputazione del concilio e del papa. Concepirono li padri in Trento e la corte in Roma gran speranza, vedendo morto un instrumento molto potente a contrastare la dottrina e riti della chiesa romana, causa principale e quasi totale delle divisioni e novitá introdotte, e l’ebbero per un presagio di prospero successo del concilio, e maggiormente per essersi divulgata quella morte per l’Italia come successa con molte circonstanze portentose e favolose, le quali s’ascrivevano a miracolo e vendetta divina; se ben non v’intervennero se non di quei stessi evenimenti soliti accader ordinariamente nelle morti degli uomini di sessantatré anni, ché in tanta etá Martino passò di questa vita. Ma le cose succedute dopo sino all’etá nostra hanno dechiarato che Martino fu solo uno de’ mezzi, e che le cause furono altre piú potenti e recondite.
Cesare gionto in Ratisbona si lamentò gravemente che il colloquio fosse dissoluto, e di ciò ne scrisse per tutta Germania lettere, le quali furono con riso vedute, essendo pur troppo noto che la separazione era proceduta dall’opera delli spagnoli e frati, e dal vescovo di Eicstat da lui mandato. E non è difficile, quando sono saputi li operatori, immediate conoscere d’onde venga il principio del moto. Ma il savio imperatore dell’istessa cosa voleva valersi per sodisfar al papa e al concilio e per cercar occasione contra li protestanti; il che l’evento comprobò, quando, replicate le stesse querimonie nella dieta e ricercato dalli congregati novo modo di concordia, li ministri di Magonza e Treveri, separati da quei degli altri elettori e congionti con li altri vescovi, approvarono il concilio e fecero instanza a Cesare che lo proteggesse e operasse che li protestanti vi intervenissero e se gli sottomettessero, repugnando essi e remostrando in contrario che quel concilio non era con le qualitá e condizioni promesse tante volte, e instando che la pace fosse servata e le cose della religione fossero concordate in un concilio di Germania legittimo, o vero in un convento imperiale. Ma le maschere furono in fine tutte levate, quando le provvisioni della guerra non potèro piú esser occultate. Di che a suo luoco si dirá.
Sopra la lettera da Trento scritta ebbe il pontefice molta considerazione, dall’uno canto ponderando li inconvenienti che sarebbono seguiti tenendo, come egli diceva, il concilio sulle áncore, con mala sodisfazione di quei vescovi che ivi erano, e il male che poteva nascere quando s’incominciasse riforma: in fine, vedendo bene che era necessario rimetter qualche cosa alla ventura, e che la prudenzia non consegliava se non evitar il male maggiore, risolvè di riscrivere a Trento che secondo il raccordo loro incamminassero l’azione, avvertendo di non metter in campo nove difficoltá in materia di fede, né determinando cosa alcuna delle controversie tra’ cattolici, e nella riforma procedendo pian piano. Li legati, che sin allora si erano trattenuti nelle congregazioni in cose generali, avendo ricevuto facoltá d’incamminarsi, nella congregazione delli 22 febbraro proposero che, fermato il primo fondamento della fede, la consequenza portava che si trattasse un altro piú ampio, che è la Scrittura divina, materia nella quale vi sono punti spettanti alli dogmi controversi con luterani, e altri per riforma delli abusi, e li piú principali e necessari da emendare, e in tanto numero che forsi non basterá il tempo sino alla sessione per trovar rimedio a tutti. Si discorse delle cose controverse con luterani in questo soggetto, e delli abusi, e fu da diversi prelati parlato molto sopra di questo.
Sino allora li teologi, che erano al numero di trenta e per il piú frati, non avevano servito in concilio ad altro che a fare qualche predica i giorni festivi, in esaltazione del concilio o del papa e per pugna ombratile con luterani; ora che si doveva decider qualche dogma controverso e rimediar alli abusi piú tosto de’ letterati che d’altri, cominciò ad apparire in che valersene. E fu preso ordine che nelle materie da trattarsi per decidere ponti di dottrina fossero estratti li articoli dai libri de’ luterani contrari alla fede ortodossa, e dati da studiare e censurare alli teologi, acciocché dicendo ciascuno d’essi l’opinione sua, fosse preparata la materia per formare li decreti; quali proposti in congregazione ed esaminati dalli padri, inteso il voto di ciascuno, fosse stabilito quello che in sessione s’averebbe a pubblicare. Ed in quello che appartiene alli abusi, ognuno raccordasse quello che li pareva degno di correzione, col rimedio appropriato.
Gli articoli formati per la parte spettante alla dottrina, tratti dalli libri di Lutero, furono:
I. Che la dottrina necessaria della fede cristiana si contiene tutta intiera nelle divine Scritture, e che è una finzione d’uomini aggiongervi tradizioni non scritte, come lasciate da Cristo e dagli apostoli alla santa Chiesa, arrivate a noi per mezzo della continua successione delli vescovi; ed esser sacrilegio il tenerle di egual autoritá con le Scritture del novo e vecchio Testamento.
II. Che tra li libri del vecchio Testamento non si debbono numerare salvo che li ricevuti dagli ebrei; e nel Testamento novo le sei Epistole, cioè sotto nome di san Paulo agli ebrei, di san Giacomo, seconda di san Pietro, seconda e terza di san Gioanni e una di san Iuda, e l’Apocalisse.
III. Che per aver l’intelligenza vera della Scrittura divina, o per allegar le proprie parole, è necessario aver ricorso alli testi della lingua originaria in la quale è scritta, e reprovar la traduzione che dai latini è stata usata, come piena di errori.
IV. Che la Scrittura divina è facilissima e chiarissima, e per intenderla non è necessaria né glosa né commenti, ma aver spirito di pecorella di Cristo.
V. Se contra tutti questi articoli si debbono formar canoni con anatemi.
Sopra li due primi articoli fu discorso dalli teologi in quattro congregazioni: e nel primo tutti furono concordi che la fede cristiana si ha parte nella Scrittura divina e parte nelle tradizioni; e si consumò molto tempo in allegare per questo luochi di Tertulliano, che spesso ne parla e molte ne numera, d’Ireneo, Cipriano, Basilio, Agostino ed altri; anzi dicendo di piú alcuni che tutta la dottrina cattolica abbia per unico fondamento la tradizione, perché alla medesima Scrittura non si crede, se non perché si ha per tradizione. Ma vi fu qualche differenza come fosse ispediente trattar questa materia.
Fra’ Vicenzo Lunello franciscano fu di opinione che, dovendosi stabilire la Scrittura divina e le tradizioni per fondamenti della fede, si dovesse innanzi trattar della Chiesa, che è fondamento piú principale, perché la Scrittura riceve da quella l’autoritá, secondo il celebre detto di sant’Agostino: «Non crederei all’Evangelio, se l’autoritá della Chiesa non mi costringesse», e perché delle tradizioni non si può aver uso alcuno, se non fondandole sopra la medesima autoritá; poiché venendo controversia se alcuna cosa sia per tradizione, sará necessario deciderla o per testimonio o per determinazione della Chiesa. Ma, stabilito questo fondamento che ogni cristiano è obbligato creder alla Chiesa, sopra quello si fabbricherá sicuramente. Aggiongeva doversi pigliar esempio da tutti quelli che sino allora avevano scritto con sodezza contra luterani, come frate Silvestro ed Ecchio, che si sono valuti piú dell’autoritá della Chiesa che di qualonque altro argomento; né con altro potersi mai convincer li luterani. Esser cosa molto aliena dal fine proposto, cioè di poner tutti li fondamenti della dottrina cristiana, lasciare il principale e forse l’unico, ma al certo quello senza il quale gli altri non sussistono.
Non ebbe questa opinione seguaci. Alcuni gli opponevano che era soggetta alle stesse difficoltá che faceva agli altri, perché anco le sinagoghe de eretici s’arrogarebbono di esser la vera Chiesa, a chi tanta autoritá era data. Altri, avendo per cosa notissima e indubitabile che per la Chiesa si debbe intender l’ordine clericale, e piú propriamente il concilio e il papa come capo, dicevano che l’autoritá di quella s’ha da tenere per giá decisa, e che il trattarne al presente sarebbe un mostrare che fosse in difficoltá, o almeno cosa chiarita di novo, e non antichissima, sempre creduta dopo che ci è chiesa cristiana.
Ma fra’ Antonio Marinaro carmelitano era di parere che si astenesse dal parlar delle tradizioni, e diceva che in questa materia, per decisione del primo articolo, conveniva prima determinare se la questione fosse facti vel iuris, cioè se la dottrina cristiana ha due parti: una che per divina volontá fosse scritta, l’altra che per la stessa fosse proibito scrivere, ma solo insegnare in voce; o vero se di tutto il corpo della dottrina per accidente è avvenuto che, essendo stata tutta insegnata, qualche parte non sia stata posta in scritto. Soggionse esser cosa chiara che la Maestá divina, ordinando la legge del vecchio Testamento, statuì che fosse necessario averla in scritto; però col proprio dito scrisse il Decalogo in pietra, comandando che fosse riposto nello scrigno perciò chiamato del patto, che si dice Arca fœderis. Che comandò piú volte a Mosé di scriver li precetti in un libro, e che un esemplare stasse appresso lo scrigno, che il re ne avesse uno per legger continuamente. Non fu l’istesso nella legge evangelica, la qual dal figlio di Dio fu scritta nei cuori, alla quale non è necessario aver tavole, né scrigno, né libro. Anzi fu la Chiesa perfettissima inanzi che alcuni delli santi apostoli scrivessero: e se ben niente fosse stato scritto, non però alla Chiesa di Cristo sarebbe mancata alcuna perfezione. Ma sì come fondò Cristo la dottrina del novo Testamento nei cuori, cosí non vietò che non dovesse esser scritta, come in alcune false religioni, dove li misteri erano tenuti in occulto né era lecito metterli in scritto, ma solamente insegnarli in voce; e pertanto esser cosa indubitata che quello che hanno scritto gli apostoli e quello che hanno insegnato a bocca è di pari autoritá, avendo essi scritto e parlato per instinto dello Spirito Santo. Il quale però, sì come assistendo loro gli ha drizzati a scrivere e predicare il vero, cosí non si può dire che abbia loro proibito scrivere alcuna cosa per tenerla in misterio: onde non si poteva distinguere doi generi di articoli della fede, alcuni pubblicati con scrittura, altri comandati di comunicar solo in voce. Disse anco che se alcuno fosse di contraria opinione, averebbe due gran difficoltá da superare; l’una in dire in che consiste la differenza, l’altra come li successori degli apostoli abbiano potuto metter in scritto quello che da Dio fu proibito, soggiongendo esser altrettanto dura e difficile da sostenere l’altra, cioè per accidente esser occorso che alcuni particolari non siano stati scritti, poiché derogherebbe molto alla divina provvidenza nell’indirizzare li santi apostoli nella composizione delle scritture del novo Testamento. Pertanto concludeva che l’entrar in questa trattazione fosse un navigar tra Scilla e Cariddi, ed esser meglio imitar li Padri, quali si sono sempre valuti di questo luoco solo nei bisogni, non venendo però mai in parere di formarne un articolo di competenza con la divina Scrittura. Aggionse che non era necessario passar allora a fare nova determinazione, poiché da’ luterani, se ben hanno detto di non voler essere convinti salvo che con la Scrittura, non però è stata formata controversia in questo articolo; ed esser bene attender alle sole controversie che essi hanno promosse, e non metterne in campo di nove, esponendosi a pericolo di far maggior divisione nel cristianesmo.
A pochi piacque l’opinione del frate; anzi dal Cardinal Polo fu ripreso, con dire che quel parere era piú degno d’un colloquio di Germania che condecente ad un concilio universale della Chiesa; che in questo convien aver mira alla veritá sincera, non come lá dove non si tratta se non d’accordarsi, eziandio con pregiudicio della veritá. Per conservare la Chiesa esser necessario o che luterani ricevino tutta la dottrina romana, o che siano scoperti quanti piú errori di loro si può ritrovare, per mostrar al mondo tanto piú che non si può convenir con loro. Però se essi non hanno formato la controversia sopra le tradizioni, bisogna formarla, e condannar le opinioni loro, e mostrar che quella nova dottrina non è solo differente dalla vera in quello dove professatamente li contradice, ma in tutte le altre parti. Doversi attendere a condannar piú assurditá che si potrá cavar dalli scritti loro, ed esser vano il timor di urtar in Scilla o Cariddi per quella cavillosa ragione, quale chi attendesse concluderebbe che non ci fosse tradizione alcuna.
Nel secondo articolo le opinioni furono conformi in questo: che secondo li antichi esempi si facesse catalogo delli libri canonici, nel quale fossero registrati tutti quelli che si leggono nella chiesa romana, eziandio quelli del vecchio Testamento che dagli ebrei non sono ricevuti; e per prova di ciò fu da tutti allegato il concilio laodiceno, Innocenzo I pontefice, il terzo concilio cartaginense e Gelasio papa. Ma furono quattro opinioni. Alcuni volevano che doi ordini fossero fatti: nel primo si ponessero quelli soli che da tutti sono sempre stati ricevuti senza contradizione, nell’altro quelli, quali altre volte sono stati reietti o di loro dubitato; e si diceva che se ben ciò non si vede fatto precedentemente da nessun concilio o pontefice, nondimeno era sempre cosí stato inteso; perché sant’Agostino fa una tal distinzione, e l’autoritá sua è stata canonizzata nel canone In canonicis; e san Gregorio, che fu posterior anco a Gelasio, sopra Iob dice delli libri dei Macabei che sono scritti per edificazione, se ben non sono canonici.
Fra’ Aloisio di Catanea dominicano diceva che questa distinzione era fatta da san Gerolamo, ricevuto come regola e norma dalla Chiesa per constituir il canone delle Scritture; ed allegava il Cardinal Gaetano, il quale esso ancora li aveva distinti, seguendo san Gerolamo come regola infallibile dataci dalla Chiesa, e cosí scrisse a papa Clemente VII, mandandoli l’esposizione sua sopra li libri istoriali del vecchio Testamento.
Altri erano di parere che tre ordini fossero stabiliti: il primo di quelli che sempre furono tenuti per divini; il secondo di quelli che altre volte hanno ricevuto dubbio, ma per uso ottenuto autoritá canonica (nel qual numero sono le sei Epistole e Apocalisse del novo Testamento e alcune particole degli Evangelisti); il terzo di quelli che mai sono certificati, quali sono li sette del vecchio Testamento ed alcuni capi di Daniele e di Ester. Altri riputavano meglio non far alcuna distinzione, ma imitar il concilio cartaginense e li altri, ponendo il catalogo senza dire piú parole. Un altro parere fu che si dichiarassero tutti in tutte le parti, come si ritrovano nella Bibbia latina, esser di divina e ugual autoritá. Maggior pensiero diede il libro di Baruch, il quale non è posto in numero né da laodiceni, né da cartaginesi, né dalli pontefici romani, e si sarebbe tralasciato cosí per questa causa, come perché non si sapeva trovar il principio di quel libro; ma ostava che nella Chiesa se ne legge lezione: ragione stimata cosí potente, che fece risolver la congregazione con dire che dagli antichi fu stimato parte di Geremia e compreso con lui.
Nella congregazione del venere 5 marzo, essendo andato avviso che li pensionari del vescovo di Bitonto dimandavano in Roma d’esser pagati, e per questo l’avevano fatto citar inanzi l’auditore, facendo instanza che fosse costretto con scomuniche e altre censure, secondo lo stile della corte, a far il pagamento, egli si lamentava, dicendo che li pensionari suoi avevano ragione, ma né egli aveva il torto, perché stando in concilio non poteva spender meno di seicento scudi all’anno, e detratte le pensioni, non ne restava a lui piú che quattrocento; onde era necessario che fosse sgravato, o sovvenuto delli altri duecento. Li prelati poveri, come in causa comune, s’adoperavano in suo servizio, e alcuni di essi passarono in qualche parole alte, dicendo che questo fosse un’infamia del concilio, quando ad un officiale della corte di Roma fosse permesso usare censure contra un prelato esistente in concilio; esser una mostruositá, che averebbe dato da dir al mondo che il concilio non fosse libero; che l’onor di quel consesso ricercava che fosse citato a Trento l’auditore, o vero usato verso di lui qualche risentimento che conservasse la dignitá della sinodo illesa. Alcuni anco passavano a dannar l’imposizione delle pensioni, dicendo essere ben cosa giusta e usata dall’antichitá che le chiese ricche sovvenissero le povere, non però costrette, ma per caritá, né levando a se stesse le cose necessarie; cosí anco aver insegnato san Paulo; ma che li poveri prelati, di quello che era necessario per la sostentazione propria fossero costretti con censure a refondere alli ricchi, essere cosa intollerabile; e questo esser un capo di riforma da trattar in concilio, riducendo la cosa all’antico e veramente cristiano uso. Ma li legati, considerando quanto fossero giuste le querele e dove potevano capitare, quietarono ogni cosa con promettere che averebbono scritto a Roma e fatto onninamente desistere dal processo giudiciale, e operato che in qualche modo fosse provveduto al vescovo, sì che potesse mantenersi in concilio.
Avendo tutti li teologi finito di parlare, il di 8 fu intimata congregazione per il seguente, se ben non era giorno ordinario, non tanto per venir a fine di stabilir decreto sopra li articoli disputati, quanto per decoro del concilio, che in quel giorno, dedicato a festa profana del carnevale, li padri si occupassero nelle cose conciliari. E allora fu da tutti approvato che le tradizioni fossero ricevute come di ugual autoritá alla Scrittura, ma non concordarono nella forma di tessere il catalogo dei libri divini. Ed essendo tre opinioni, l’una di non descendere a particolar libri, l’altra di distinguer il catalogo in tre parti, la terza di farne un solo ponendo tutti li libri di ugual autoritá; né essendo ben tutti risoluti, furono fatte tre minute, con ordine che si pensasse accuratamente, per dir ciascuno quale ricevesse nella seguente congregazione: che il giorno 12 non si tenne, per l’arrivo di don Francesco di Toledo, mandato dall’imperatore ambasciator per assister al concilio come collega di don Diego: il qual fu incontrato dalla maggior parte delli vescovi e dalle famiglie dei cardinali.
Arrivò in Trento in questo tempo il Vergerio, di sopra piú volte nominato, andato non per volontá d’intervenir al concilio, ma fuggendo l’ira del suo populo, concitato contra lui come causa della sterilitá della terra da frate Annibal Grisone inquisitore: né sapeva dove poteva star con dignitá e aver comodo maggiore di giustificarsi dalle imputazioni del frate, che lo pubblicava per luterano non solo nell’Istria, ma appresso il noncio di Venezia ed il papa; delle qual cose essendo anco li legati del concilio avvisati, l’esclusero d’intervenire negli atti pubblici come prelato, se prima non si fosse giustificato appresso il pontefice, dove lo esortarono efficacemente andare. E se non avessero temuto di far parlare contra la libertá del concilio, sarebbono usciti dalle esortazioni. Ma egli, vedendo di star in Trento con maggior indignitá, pochi dì dopo si partì con animo di tornar al vescovato, reputando la sedizione populare esser acquetata. Ma gionto a Venezia, li fu proibito andarvi dal noncio, quale aveva ricevuto ordine da Roma di formare processo contra di lui; di che sdegnato o intimorito, o per qualche altra causa die fosse, non molti mesi dopo uscì d’Italia.
Il dì 15, proposte le tre formule, se ben ciascuna ebbe chi la sostentò, la terza però fu approvata dalla maggior parte. Nelle seguenti congregazioni parlarono li teologi sopra li altri articoli, e molta differenza fu nel terzo sopra la translazione latina della Scrittura, tra alcuni pochi che avevano buona cognizione di latino e gusto di greco e altri nudi di cognizione di lingue. Fra’ Aloisio da Catanea disse che per risoluzione di quell’articolo non si poteva portar cosa piú a proposito e accomodata alli presenti tempi e occasioni che il giudicio del cardinale Gaetano, versatissimo nella teologia, avendo studiato fino dalla fanciullezza, e per la felicitá dell’ingegno e laboriosa diligenza riuscito il primo teologo di quello e molti altri secoli, al quale non era prelato né altro soggetto in concilio che non cedesse in dottrina e non tenesse d’esser in stato d’imparare da lui. Questo Cardinal, andato in Germania legato del 1523, accuratamente investigando come si potesse ridurre alla Chiesa li sviati e convincer gli eresiarchi, trovò il vero rimedio: l’intelligenza litterale del testo della sacra Scrittura nella sua lingua originale in quale è scritto. E tutto il rimanente di sua vita, che undici anni furono, si diede solo allo studio delle Scritture, esponendo non la translazione latina, ma li fonti, ebreo nel vecchio e greco nel novo Testamento: delle qual lingue non avendo egli alcuna cognizione, adoperò persone intendenti che di parola in parola li facessero costruzione del testo, come le opere sue scritte sopra li sacri libri mostrano. Esser solito dire quel buon cardinale che l’intender il testo latino non era intendere la parola di Dio infallibile, ma quella del traslatore, soggetto e succombente agli errori; che ben disse Geronimo, il profetare e scriver sacri libri provenire dallo Spirito Santo, ma il transitargli in altra lingua esser opera della perizia umana; e che dolendosi diceva: «Piacesse a Dio che li dottori delli secoli inanzi avessero cosí fatto, che le eresie luterane non averebbono trovato luoco!» Soggionse non potersi approvar translazione alcuna, se non reprovando il canone Ut veterum d. 9, che comanda di aver il testo ebreo per esaminar la realtá delli libri del vecchio Testamento, e il greco per norma di quei del novo. L’approvar un’interpretazione per autentica esser condannar san Geronimo e tutti quelli che hanno tradotto: se alcuna è autentica, a che potrebbono servir le altre non autentiche? Una gran vanitá sarebbe produr copie incerte, avendone in forma probante; doversi tenir con san Geronimo e col Gaetano che ogni interprete abbia potuto fallare, con tutto che abbia usato ogni arte per non scostarsi dall’originale. Così certa cosa essere che, se il santo concilio esaminasse ed emendasse al testo vero un’interpretazione, lo Spirito Santo, che assiste alle sinodi nelle cose della fede, gli soprastarebbe che non facesse errore; e una tal traduzione cosí esaminata ed approvata si potrebbe dir autentica. Ma se senza tal esamine si possi approvarne una e promettersi che lo Spirito Santo assista, non ardiva dirlo, se dalla santa sinodo non fosse cosí determinato, vedendo che nel concilio delli santi apostoli precesse una grande inquisizione. Ma essendo una tal opera di decene d’anni, né potendosi intraprendere, pareva meglio lasciar le cose come erano state mille cinquecento anni, che le traduzioni latine fossero verificate con li testi originali.
In contrario dalla maggior parte dei teologi era detto essere necessario aver per divina e autentica in tutte le parti sue quella traduzione che per li tempi passati è stata letta nelle chiese e usata nelle scole, altrimenti sarebbe dare la causa vinta alli luterani e aprir una porta per introdur all’avvenire innumerabili eresie, e turbar continuamente la quiete della cristianitá. La dottrina della santa madre Chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre, essere fondata in gran parte dalli pontefici romani e dalli teologi scolastici sopra qualche passo della Scrittura; che dando libertá a ciascuno d’esaminar se sia ben tradotto, ricorrendo ad altre traduzioni o cercando come dica in greco o in ebreo, questi novi grammatici confonderanno ogni cosa, e sará farli giudici ed arbitri della fede, e in luoco de teologi e canonisti converrá tener il primo conto, nell’assumer alli vescovati e cardinalati, delli pedanti. Li inquisitori non potranno piú procedere contra li luterani, se non sapranno ebreo e greco, che subito sará risposto dalli rei che il testo non dice cosí e che la traduzione non è fedele. E ogni novitá e capriccio che verrá in testa a qualonque grammatico, o per malizia o per poca perizia delle cose teologiche, pur che possi con qualche apice grammaticale di quelle lingue confirmarlo, troverá fondamento, che mai si venirá al fine. Vedersi adesso, dopo che Lutero ha dato principio a far una traduzione della Scrittura, quanto diverse e contrarie tra loro sono uscite in luce che meritavano esser in perpetue tenebre occultate; quante volte esso Martino ha mutato quello che aveva prima in un modo tradotto, che mai si è ristampata la traduzione senza qualche notabil mutazione, non di un passo o due, ma di centenara in una fiata. Dando questa libertá a tutti, presto ridurrete la cristianitá che non si saprá che credere.
A queste ragioni, sentite con applauso dalla maggior parte, altri aggiongevano anco che, se la divina provvidenza ha dato una Scrittura autentica alla sinagoga e un autentico Testamento novo alli greci, non si poteva, senza derogargli, dire che la chiesa romana piú diletta fosse stata lasciata senza tanto beneficio, e però che questo stesso Spirito Santo, qual dettò li libri sacri, abbia anco indettata questa transazione che dalla chiesa romana doveva esser accettata. Ad alcuni pareva ardua cosa fare profeta, o vero apostolo, uno, solamente per tradur un libro; però moderavano l’asserzione con dire che non ebbe spirito profetico o apostolico, ma ben uno a questo molto vicino. E se alcuno si rendesse difficile a dare l’assistenza dello spirito di Dio all’interprete, non la potrá negare al concilio; e quando sará approvata la Vulgata edizione e fulminato l’anatema contra chi non la riceve, quella sará senza errori, non per spirito di chi la scrisse, ma della sinodo che per tale l’ha ricevuta.
Don Isidoro Clario bresciano, abbate benedittino, molto versato in questo studio, con la narrazione istorica cercò di rimover questa opinione, dicendo in sostanza che del vecchio Testamento molte translazioni greche furono nella primitiva Chiesa, quali Origene raccolse in un volume confrontandole in sei colonne: di queste la principale si chiama dei Settanta, dalla quale ne furono tratte anco diverse in latino, sì come anco varie ne furono cavate dalle Scritture del novo Testamento greche, una de quali, la piú seguita e letta nelle chiese, si chiama Itala, da sant’Agostino tenuta per migliore delle altre, in maniera però che si dovesse preferir senza nessun dubbio li testi greci. Ma san Geronimo, perito, come ognun sa, nella cognizione delle lingue, vedendo quella del vecchio Testamento deviare dalla veritá ebraica, parte per difetto dell’interprete greco, parte del latino, ne trasse una dall’ebreo immediate ed emendò quella del novo Testamento alla veritá del greco testo. Per il credito in quale Geronimo era, la traduzione sua fu da molti ricevuta, e repudiata da altri, piú tenaci degli errori dell’antichitá e aborrenti dalle novitá, o, come egli si duole, per emulazione: ma dopo qualche anni cessata l’invidia, fu ricevuta quella di san Geronimo da tutti li latini, e furono ambedue in uso, chiamandosi la vecchia e la nova. Testifica san Gregorio, scrivendo a Leandro sopra Iob, che la sede apostolica le usava ambedue, e che egli nell’esposizione di quel libro eleggeva di seguire la nova, come conforme all’ebreo; però nelle allegazioni si sarebbe valuto ora di una ora dell’altra, secondo che fosse tornato meglio a suo proposito. Li tempi seguenti, con l’uso di queste due, ne hanno composto una, pigliando parte dalla nova e parte dalla vecchia, secondo che li accidenti hanno portato, e a questa cosí composta fu dato nome di edizione Vulgata. Li salmi esser tutti della vecchia, perché continuandosi di cantarli quotidianamente nelle chiese, non si potêro mutare. Li profeti minori tutti della nova, li maggiori misti d’ambedue. Questo esser ben certo, che tutto ciò è per divina disposizione avvenuto, senza la quale non succede cosa alcuna; ma non si può dire però che vi sia intervenuto perizia maggiore che umana. San Geronimo afferma apertamente che nessun interprete ha parlato per Spirito Santo. L’edizione che abbiamo è per la maggior parte sua. Sarebbe gran cosa attribuire divina assistenza a chi ha conosciuto e affermato di non averla: laonde mai si potrá uguagliar traduzione alcuna al sacro testo della lingua originale. Pertanto esser di parere che l’edizione Vulgata fosse anteposta a tutte e approvata, corretta però al testo originale, e fosse vietato ad ognuno di far altra translazione; ma solo si emendasse quella, e le altre si estinguessero: e cosí cesserebbono tutti li inconvenienti causati dalle nove interpretazioni, che con molto giudicio sono stati notati e ripresi nelle congregazioni.
Fra’ Andrea di Vega franciscano, camminando quasi come mediatore tra queste opinioni, approvò il parere di san Gerolemo che le qualitá dell’interprete non siano spirito profetico o altro divino speciale che li dia infallibilitá, e la sentenzia del medesimo santo e di sant’Agostino dell’emendare le traduzioni con li testi della lingua originale; soggiongendo però che a questo non repugnava il dire insieme che la chiesa latina abbia per autentica l’edizione Vulgata, perché questo si debbe intendere che non vi sia errore alcuno in quello che appartiene alla fede e alli costumi, ma non in ogni apice ed ogni espressione propria delle voci, essendo impossibile che tutte le voci d’una lingua siano trasportate in un’altra senza che v’intervenga ristrizione o ampliazione de significati o metafora od altra figura. Giá la Vulgata edizione esser stata esaminata da tutta la Chiesa pel corso di piú di mille anni, e conosciuto che in quella non vi è fallo alcuno nella fede o costumi; e in tal conto è stata dalli antichi concili usata e tenuta: e però come tale si debbe tener e approvare, e si potrá dechiarar l’edizione Vulgata autentica, cioè che si può leggere senza pericolo, non impedendo li piú diligenti di ricorrere alli fonti ebrei e greci, ma ben proibendo tanto numero di translazioni intiere che generano confusione.
Intorno l’articolo del senso della Scrittura divina diede occasione di parlare diversamente la dottrina del giá cardinale Gaetano, che insegnò e praticò egli ancora, cioè di non rifiutar li sensi novi quando quadrino al testo e non sono alieni dagli altri luochi della Scrittura e dalla dottrina della fede, se ben il torrente delli dottori corresse ad un altro, non avendo la divina Maestá legato il senso della Scrittura alli dottori vecchi, altrimenti non resterebbe né alli presenti né alli posteri altra facoltá che di scrivere di libro in quaderno. Il che da alcuni delli teologi e padri era approvato e da altri oppugnato.
Alli primi pareva che fosse come una tirannide spirituale il vietare che, secondo le grazie da Dio donate, non potessero li fedeli esercitar il proprio ingegno, e che questo fosse appunto proibir la mercanzia spirituale delli talenti da Dio donati; doversi con ogni allettamento invitar gli uomini alla lezione delle sacre lettere, dalle quali sempreché si leva quel piacer che la novitá porta, tutti sempre le aborriranno, e una tal strettezza fará applicar li studiosi alle altre sorti di lettere e abbandonar le sacre, e per consequenza ogni studio e cura di pietá: questa varietá di doni spirituali appartenere alla perfezione della Chiesa e vedersi nella lettura de antichi Padri, nelli scritti de’ quali è diversitá grande e spesso contrarietá, congionta però con’ strettissima caritá. Per che causa non dover essere concesso a questo secolo quella libertá che con frutto spirituale hanno goduto gli altri? Li scolastici nella dottrina di teologia, se ben non hanno tra loro dispute sopra l’intelligenza delle lettere sacre, aver però non minor differenze nelli ponti della religione, e quelle non meno pericolose; meglio essere imitare l’antichitá, che non ha ristretta l’esposizione della Scrittura, ma lasciata libera.
La contraria opinione portava che, essendo la licenza populare disordine maggiore della tirannide, in questi tempi conveniva imbrigliar gl’ingegni sfrenati, altrimenti non si poteva sperare di veder fine delle presenti contenzioni. Alli antichi tempi esser stato concesso di scrivere sopra li libri divini, perché essendovi poche esposizioni, ve n’era bisogno; e gli uomini di quei tempi erano di vita santa e ingegno composto, che da loro non si poteva temer di confusioni come al presente. E per tanto li scolastici teologi, avendo veduto che non vi era bisogno nella Chiesa di altre esposizioni e che la Scrittura era non solo a bastanza, ma anco abbondantemente dechiarata, presero altro modo di trattar le cose sacre; e vedendo gli uomini inclinati alle dispute, giudicarono che fosse ben occuparli piuttosto in esamine di ragioni e detti d’Aristotele, e conservare la Scrittura divina in riverenza; alla quale molto si deroga, quando sia maneggiata comunemente e sia materia delli studi ed esercizi de curiosi. E tanto si passava inanzi con questa sentenzia che fra’ Riccardo di Mans franciscano disse i dogmi della fede esser tanto dilucidati al presente dalli scolastici che non si doveva impararli piú dalla Scrittura; la qual è vero che altra volta si leggeva in chiesa per instruzione dei popoli e si studiava per l’istessa causa, dove al presente si legge in chiesa solo per dir orazione; e per questo solo doverebbe anco servire a ciascuno, e non per studiare; e questa sarebbe la riverenza e venerazione debita da ognuno alla parola di Dio. Ma almeno doverebbe esser proibito il leggerla per ragion di studio a chi non è prima confirmato nella teologia scolastica; né con altri fanno progresso li luterani, se non con quelli che studiano Scrittura. Il qual parere non fu senza aderenti. Tra queste opinioni ve ne camminarono due medie. Una, che non fosse bene restringere l’intelligenza della Scrittura ai soli Padri, atteso che per il piú li loro sensi sono allegorici e rare volte litterali, e quelli che seguono la lettera s’accomodano al loro tempo, si che l’esposizione non riesce a proposito per l’etá nostra. Esser stato dottamente detto dal Cardinal Cusano, di eccellente dottrina e bontá, che l’intelligenza delle Scritture si debbe accomodar al tempo ed esporla secondo il rito corrente, e non aver per maraviglia se la pratica della Chiesa in un tempo interpreta in un modo, in un altro all’altro. E non altrimenti l’intese il concilio lateranense ultimo, quando statuì che la Scrittura fosse esposta secondo li dottori della Chiesa, o come il longo uso ha approvato. Concludeva questa opinione che le nove esposizioni non fossero vietate, se non quando discordano dal senso corrente.
Ma fra’ Dominico Soto dominicano distinse la materia di fede e di costumi dalle altre, dicendo in quella sola esser giusto tenir ogni ingegno tra i termini giá posti, ma nelle altre non esser inconveniente lasciar che ognuno, salva la pietá c caritá, abondi nel proprio senso; non esser stata mente delli Padri che fossero seguiti di necessitá, salvo che nelle cose necessarie da credere ed operare. Né li pontefici romani, quando hanno esposto nelle decretali loro alcun passo della Scrittura in un senso, aver inteso di canonizzar quello, sì che non fosse lecito altrimenti intenderlo, purché con ragione. E cosí l’intese san Paulo, quando disse che si dovesse usar la profezia, cioè l’interpretazione della Scrittura, secondo la ragione della fede, cioè riferendola agli articoli di quella: e se questa distinzione non si facesse, si darebbe in notabili inconvenienti, per le contrarietá che si ritrovano in diverse esposizioni date dalli antichi Padri, che repugnano l’una all’altra.
Le difficoltá promosse non furono di tanta efficacia che nella congregazione delli padri non fosse con consenso quasi universale approvata l’edizione Vulgata, avendo fatto potente impressione nell’animo delli prelati quel discorso che li maestri di grammatica si arrogherebbono d’insegnar alli vescovi e teologi. E quantonque alcuni pochi sostentassero che fosse ispediente, attese le ragioni dalli teologi considerate, tralasciar quel capo per allora, poiché fu risoluto altrimenti, posero in considerazione che, approvandola, conveniva anco comandare che sia stampata emendata; e dovendo questo fare, era necessario formar l’esemplare al quale si dovesse conformar l’impressione. Onde di comun concordia furono deputati sei che attendessero a quella correzione con accuratezza, acciò si potesse pubblicare inanzi il fine del concilio, riservandosi d’accrescer il numero quando, tra quei che di novo giongessero, vi fosse persona di buona attitudine per quell’opera.
Ma nel render li voti sopra il quarto articolo, dopo aver detto il cardinale Paceco che la Scrittura era stata esposta da tanti e cosí eccellenti in bontá e dottrina, che non si poteva sperare d’aggiongere cosa buona di piú, e che le nove eresie erano tutte nate per novi sensi dati alla Scrittura, però che era necessario imbrigliare la petulanza delli ingegni moderni e farla star contenta di lasciarsi reggere dalli antichi e dalla Chiesa, e a chi nascesse qualche spirito singolare, sia costretto tenerlo in sé e non confonder il mondo col pubblicarlo, concorsero quasi tutti nella medesima opinione.
La congregazione delli 29 tutta fu consumata sopra il quinto articolo: perché avendo parlato li teologi con poca risoluzione e col rimetter al voler della sinodo, a quale appartiene far li statuti, li padri ancora erano ambigui. Il tralasciar affatto l’anatema era un non fare decreto di fede e nel bel principio romper l’ordine preso di trattar li due capi insieme. Il condannar anco per eretico ognuno che non accettasse l’edizione Vulgata in qualche luoco particolare e forse non importante, e parimente che pubblicasse qualche sua invenzione sopra la Scrittura per leggerezza di mente, pareva cosa troppo ardua. Dopo longa discussione si trovò temperamento di formar il primo decreto e comprendere in esso quel solo che tocca il catalogo dei libri sacri e le tradizioni, e quello concludere con anatema. Nel secondo poi, che appartiene a riforma e dove l’anatema non ha luoco, comprender quello che spetta alla traduzione e senso della Scrittura, comeché il decreto sia un rimedio all’abuso di tante interpretazioni ed esposizioni impertinenti.
Restava parlar degli altri abusi, de’ quali ciascuno aveva raccolto numero grande, e in questo adunati innumerabili modi, come la debolezza e superstizione umana si vale delle cose sacre, non solo oltre, ma anco contra quello per che sono da Dio instituite. Delle incantazioni per trovar tesori ed effettuare lascivi disegni o ottenir cose illecite fu assai parlato, e proposti molti rimedi per estirparle. Tra le incantazioni ancora fu posto da alcuni il portar addosso Evangeli, nomi di Dio per prevenir infirmitá o guarir di esse, o vero per esser guardati da mali e infortuni, o per aver prosperitá; il leggerli medesimamente per li stessi effetti, lo scrivergli con osservazione de tempi. Fu nominato in questo catalogo le messe che in alcune regioni si dicono sopra il ferro affocato, sopra le acque bollenti o fredde, o altre materie per le purgazioni volgari, il recitar Evangeli sopra le arme, acciò abbiano virtú contra gl’inimici. In questa serie erano poste le congiurazioni de cani che non mordano e de serpi che non offendano, delle bestie nocive alle campagne, delle tempeste e altre cause di sterilitá della terra, ricercando che tutte queste osservazioni come abusi fossero condannate, proibite e punite. Ma in diversi particolari passarono alle contradizioni e dispute, defendendo alcuni come cose devote e religiose, o almeno permesse e non dannabili, quelle che da altri erano condannate per empie e superstiziose; il che avvenne parimente parlando della parola di Dio per sortilegi o divinazione o estraendo polizze con versi della Scrittura, o vero osservando li occorrenti aprendo il libro. Il valersi delle parole sacre in libelli famosi e altre detrazioni fu universalmente dannato, e parlato assai del modo come levar le pasquinate di Roma: nel che mostrò il Cardinal del Monte gran passione nel desiderar rimedio, per esser egli, attesa la libertá e gioconditá del suo naturale, preso molto spesso dalli cortegiani per materia della loro dicacitá. Tutti concordavano che la parola di Dio non può mai esser tenuta in tanta riverenza che sodisfaccia al debito, e che il valersi di quella anco per lodar gli uomini, eziandio principi e prelati, non è condecente, e generalmente ogni uso d’essa in cosa vana era peccato. Ma però non doveva il concilio occuparsi in ciò, non essendo congregato per far provvisione a tutti li mancamenti; né doversi proibir assolutamente che non siano tirate le parole della Scrittura alle cose umane, perché sant’Antonino nell’istoria sua non condannò li ambasciatori siciliani che dimandando perdono a Martino IV, in pubblico consistoro, esposero l’ambasciata non con altre parole se non dicendo tre volte: Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis; né la risposta del papa, che disse parimente tre volte: Ave rex iudæorum: et dabant illi alapas. Però esser stata una malignitá de luterani il riprendere il vescovo di Bitonto, che nel sermone fatto nella sessione pubblica dicesse, a chi non accetterá il concilio potersi dire: Papæ lux venit in mundum, et dilexerunt homines magis tenebras quam lucem. Tante congregazioni furono consumate in questo; e tanto cresceva il numero e appariva la debolezza delli rimedi proposti, che la comune openione inclinò a non fare menzione particolare di alcuno di essi, né descender a rimedi appropriati né a pene particolari, ma solo proibirli sotto li capi generali e rimettere le pene all’arbitrio de’ vescovi. Degli abusi delle stampe si parlò, né vi fu molto che dire, sentendo tutti che fosse posto freno alli stampatori e fosse loro vietato stampar cosa sacra che non fosse approvata; ma che perciò bastasse quello che dall’ultimo concilio lateranense fu statuito.
Ma intorno le lezioni e predicazioni si eccitarono gravissime controversie. Li frati regolari, giá in possesso di queste fonzioni, cosí per privilegi pontifici come per averle esercitate soli per trecento anni, con tutte le forze operavano per conservarle: e li prelati, allegando che erano proprie loro e usurpate, pretendevano la restituzione; e perché non si contendeva qui de opinioni, ma di utilitá, oltre le ragioni erano da ambe le parti adoperati gli effetti; e queste differenzie erano per causare che al tempo della sessione niente fosse deciso. Per il che li legati risolsero di differire questi due ponti ad un’altra sessione. Furono, secondo le risoluzioni prese, formati li due decreti, e nell’ultima congregazione letti e approvati, con qualche eccezioni nel capo dell’edizione Vulgata; in fine della quale il cardinal del Monte, dopo avere lodato la dottrina e prudenza di tutti, li ammoní del decoro che conveniva usare nella pubblica sessione, mostrando un cuore e un’anima istessa, poiché nelle congregazioni le materie erano esaminate sufficientemente. E il cardinal Santa Croce, finita la congregazione, radunò quelli che avevano opposto al capo della Vulgata, e mostrò loro che non potevano dolersi, perchẻ non era vietato, anzi restava libero, il poter emendarla e l’aver ricorso alli testi originali; ma solo vietato il dire che vi fossero errori in fede, per quali dovesse esser reietta.