Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimo
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CAPITOLO VENTESIMO.
Storia di un filosofo errante che, in traccia di novità, perde ogni contentezza.
Come fu la cena finita, madama Arnold offerse di mandare un paio di servi a prendere le bagaglie di mio figliuolo, che egli la ringraziò, da prima dicendo non importare: ma siccome ella insisteva, gli fu d’uopo narrarle non avere egli altra masserizia al mondo che un bastone ed una bisaccia. “O figliuolo mio,” esclamai, “povero tu mi lasciasti, e povero a me ritorni; eppure son certo che tu hai viaggiati dimolti paesi.” — “Sì, o padre: ma col correr dietro alla fortuna non la si grancisce; e io ho cessato in fatti già da qualche tempo di andare in cerca di lei.” — “M’è avviso,” disse madama Arnold al mio figliuolo, che la storia delle tue vicende sarà piacevole: spesse volte n’ho udita la prima parte dalla mia nipote; ma se tu ce ne raccontassi il rimanente, certo che la brigata tutta te ne saprebbe buon grado.
“Signora,” rispose il mio figliuolo, “il diletto che voi trarrete dall’udire i miei casi, siate certa che non giungerà ad uguagliare neppure a mezzo la vanità ch’io proverò nel ripeterli; ciò non pertanto io non vi prometto di raccontare alcuna mia avventura, perchè avventure non ho da dire; nè posso intrattenervi che colla narrazione di ciò ch’io vidi, non di ciò ch’io feci1. La prima sventura della mia vita, come voi tutti sapete, fu grande; ma quantunque ella mi affliggesse sommamente, non mi mise in fondo del tutto. Nessuno al par di me fu mai sì facile a pascersi di speranze; e quanto più la fortuna parea balestrarmi, tanto più la sperava propizia in avvenire; ed essendo io ormai nell’infimo della sua ruota, ogni cambiamento poteva bensì sollevarmi, ma non deprimermi.
Un giorno sereno, di buon mattino, m’avviai dunque verso Londra, senza darmi pensiero del domani, ma allegro come gli uccelli che cantavano lungo la strada; e confortava me dell’idea che Londra fosse un luogo ove ogni sorta di abilità venisse apprezzata e ricompensata.
Appena giunto alla città ebbi cura di presentare la lettera di raccomandazione datami da mio padre pel nostro cugino, il quale però non era gran fatto in più largo stato di me. Immaginai da principio di farmi eleggere ripetitore in una accademia, e su di ciò domandai al cugino il parer suo. Egli accolse questo mio disegno con un riso sardonico, dicendo: — Oh sì davvero! ecco una via di vita propio a te confacevole. Fui anch’io un tempo ripetitore in un piccolo collegio, e mi si regali un capestro alla strozza se non sarebbe stato pel meglio il farmi vice-guardiano delle prigioni di Newgate. All’alba m’era forza spiccarmi di letto, e starmene in piedi fino a notte inoltrata: il rettore mi faceva il viso brusco; la sua moglie mi odiava perchè la mia brutta faccia non andavale a genio; in casa i fanciulli mi laceravano l’anima rabbiosa, e non m’era permesso d’uscir fuori a godere un pocolino di buona creanza. Ma sei tu certo d’essere adatto per un collegio? Lascia ch’io per alcun momento ti ponga ad esame. Sei tu pratico di quel mestiere? — No. — Dunque tu non se’ buono per un collegio. Sai tu pettinare i ragazzi? — No. — Dunque non se’ buono per un collegio. Hai avuto il vaiuolo? — No. — Dunque non sei buono per un collegio. Saprestù dormire con due altre persone in un sol letto? — No. — Dunque non sarai adattato mai per un collegio. Hai buon appetito? — Sì. — Ecco dunque che tu in nulla affatto se’ conveniente per un collegio. No, cugino mio, se brami una professione nobile e facile, dátti, come fattorino, a menar per sette anni la ruota nella bottega di un coltellinaio, e sta’ lontano dai collegi le mille miglia. Ma giacchè mi sembri ragazzo ingegnoso e dotto alcun poco, vorrestù farti al pari di me autore? Tu, di certo, ne’ libri avrai letto di scrittori assai morti di fame: ma io ti so mostrare una quarantina di scervellati messeri che con loro letterarie gherminelle menano in città la loro vita opulentissimi all’età nostra. Que’ smunti bighelloni fanno del cacasodo trottano innanzi bel bello, scrivacchiando sbracate leggende d’istoria e di politica, e scroccandone come che sia lode alcuna: una vera mano di sguaiati che, se dai padri loro fossero stati destinati all’esercizio del calzolaro, per tutta lor vita avrebbero rattacconate ciabatte, fattene di nuove giammai. —
Avvedendomi non v’essere molta nobiltà nell’arte del ripetitore, determinai di accettare la profferta del cugino; e nudrendo io altissimo rispetto per la letteratura, salutai con venerazione l’antica madre, o, per dirla volgarmente, la terra di Grub-Street,2 parendomi così gloria somma l’andar per le peste di Dryden e d’Otway. Considerava io la Dea di quel luogo come madre della gloria; perchè, quantunque il buon senso si acquisti avendo commercio col mondo, la povertà che la Dea accordava a’ suoi seguaci, mi pareva più d’ogni altra cosa nodrice degli ingegni. Gravido di codesti sentimenti, mi accinsi all’opera; e vedendo che le migliori cose del mondo si potevano dire anche male, feci pensiero di scrivere un libro che fosse interamente nuovo. Però vestii d’alcuna verisimiglianza tre paradossi falsi in fatti, ma non più uditi. Le verità più preziose furono spesse volte messe a sacco dagli altri, e a me non rimanevano che alcune abbaglianti proposizioni, le quali, mirate in certa distanza, si rassomigliano alle prime; e queste io andai rubacchiando. O potenze dell’anima mia, fatemi voi testimonianza di quale e quanta immaginata serietà io vestissi i miei scritti, e com’io li reputassi cose gravissime. Io tenea per fermo che tutta la repubblica delle lettere si sarebbe sollevata per opporsi al mio sistema, quindi me ne stava pronto ad oppor me solo a tutta la repubblica letteraria; e a guisa d’uno istrice mi sedeva rannicchiato e raggomitolato con una penna aguzzata contro ogni mio assalitore.”
“Da buon senno tu favelli, mio buon ragazzo,” diss’io. “E quale era l’argomento che tu imprendevi a trattare? Certo che la monogamia non ti sarà paruta materia di poco momento, e tu n’avrai tenuto conto. Ma male io fo interrompendoti: deh via! proseguisci a dire. Tu pubblicasti adunque i tuoi paradossi; e che ne pensò la repubblica delle lettere?” — “Ella non disse parola nè un motto solo. Ogni membro di quella repubblica era occupato in lodare gli amici suoi e sè medesimo, o in tagliar le gambe ai nemici; e sgraziatamente non avendo io nè amici nè nemici, mi vidi pagato della più crudele mortificazione, la trascuranza.
Sedendo io un giorno in una bottega da caffè, meditando sul destino de’ miei paradossi, entrato dentro un uomo di piccola statura, si collocò dinanzi a me; e dopo alquanti ragionamenti vaghi trovatomi letterato, cavò di tasca un fascio di Manifesti, e pregò che mi sottoscrivessi ad una nuova edizione di Properzio con note, ch’egli stava per dar fuori. Una tale domanda cagionò necessariamente la risposta, non avere io danari; per la quale confessione egli si mosse ad interrogarmi sulla natura delle mie speranze; e sentendo queste appunto essere grandi quanto il mio borsello e nulla più, così prese a dire: — Parmi che tu non sappia che sia la città, però te ne voglio istruire. Vedi tu questi Manifesti? Di qui trassi assai buon sostentamento per dodici anni interi. Al primo giungere in Londra di un nobil uomo che ritorni da’ suoi viaggi, di un ricco Creolo che arrivi dalla Giamaica, o d’una illustre vedova da’ suoi poderi, accorro a carpirne una soscrizione. Primieramente io pongo ad assedio i loro cuori coll’adularli; poi, fatta la breccia, vi salto sopra co’ miei Manifesti. S’eglino subito si arrendono di buona voglia, rinnovo l’assalto chiedendo di poter dedicare loro il mio libro; e se ciò pure mi vien conceduto, batto l’ultimo colpo, e insisto perchè mi si permetta di fare incidere sul frontispizio l’impresa di loro famiglia. Di tal maniera vivo alle spese dell’altrui vanità, e me ne rido. Ma per dirla schietta, poichè siamo a quattr’occhi, sono oggimai quasi mostrato a dito da tutti, e volentieri torrei ad imprestito per alcun tempo la tua faccia. Un gentiluomo d’alto affare è tornato di fresco dall’Italia; ma, per mia sventura, il portinaio di lui mi conosce di lunga mano; che se a te bastasse l’animo di portargli questo sonetto, mi si schianti il collo se tu non sorti la tua fortuna, e non ne dividiamo tra di noi le spoglie.”
“O Dio buono! E sarà vero, o Giorgio,” diss’io, “che questo sia l’ufficio de’ poeti del secol nostro? Gente di cotanto ingegno, così vilmente discende ad accattare? così pone in non cale la nobiltà della sua professione? così si prostituisce, così pel tozzo fa mercato infame di lodi?”3
“No no, padre mio, un vero poeta non può mai vile a tale segno mostrarsi; chè dove è ingegno, ivi è orgoglio. Costoro di che io ti parlo, non sono che pitocchi senza pudore, i quali vanno mendicando in rima. Il poeta daddovero, affrontando ardito per la fama ogni fatica, è codardo sempre in quelle opere che gli possono mercare vituperio; e solo chi è indegno d’essere protetto, si abbassa ad implorar protezioni. Sentendomi io un’anima superba troppo in petto per potere avvilirmi tanto indegnamente, e trovandomi d’altronde in troppo bassa fortuna, sicchè non m’era dato di avventurare lo sforzo secondo per ottenere rinomanza, fui costretto ad appigliarmi ad una via di mezzo, e scrivere per aver pane. Ma io non era ordinato ad un’arte nella quale il solo ingegno signoreggia, ed è sicuro egli solo di procacciarsi evento felice.4 Una segreta fiamma di gloria mi ardeva in seno, nè io poteva spegnerla interamente; a tale che ingegnandomi di giugnere al sublime che sta nello scrivere poco e bene, consumava tempo lunghissimo; quando l’avrei potuto impiegare con più destrezza a scrivere mediocremente, ma imbrattar molti fogli e cavarne molto guàdagno. Però, nel mare delle produzioni che giornalmente innondavano la città, i miei opuscoli passavano inosservati e negletti. Al pubblico, inteso a cose di maggior momento, poco importava la fluida semplicità del mio stile, o l’armonia de’ miei periodi; nè vi poneva pur mente. Foglio per foglio, tutti li miei scritti furono gittati in dimenticanza, e seppelliti in compagnia dei Saggi sulla libertà, delle Novelle orientali, e de’ Rimedi per guarire le morsicature de’ cani arrabbiati; intanto che i Filauti, i Filaleti, i Fileleuteri e i Filantropi5 scrivevano meglio di me, perchè di me più velocemente. Allora incominciai a non far lega che con autori disprezzati al pari di me, li quali si lodavano, si compiangevano e si odiavano a vicenda. La soddisfazione da noi provata, riandando le opere d’ogni celebre scrittore, era sempre in ragione inversa del merito di lui; e l’altrui intelletto a me non dava mai nel genio, nè mai da me otteneva sincera lode. La sciagura de’ miei paradossi aveva diseccata interamente per me quella fonte di consolazione, nè io poteva più con diletto scrivere o leggere; perchè consistendo ogni mio traffico nel fare il dotto, qualunque autore da più di me fosse, era oggetto del mio abborrimento: e lo scrivere per guadagno è fatica, non gusto. Immerso in questi negri pensieri, standomi un giorno sdraiato sur un banco nel Parco di Saint James, mi si accostò un giovane gentiluomo di distinto casato, già un tempo mio strettissimo amico all’Università. Ci salutammo l’un l’altro titubanti; vergognando colui quasi di essere conosciuto da un uomo assai poveramente in arnese ed oscuro com’io parea, e temendosi per me non egli mi ributtasse. Ma la mia paura si dileguò prestamente, conciossiachè Odoardo Thornbill era giovane di cuor benfatto.”
“Che di’ tu Giorgio?” sclamai io; “Thornhill si chiamava colui? Certo ch’egli è il mio padrone e non altri.”
“Oh! come è ciò?” disse madama Arnold a me indirizzata; “sta dunque vicino a casa tua il sig. Thornhill? Egli è già da un pezzo amico della nostra famiglia, e tra breve ne speriamo una visita.”
“La prima cura dell’amico mio,” continuò il mio figliuolo, “fu di rimettermi con migliori panni in arnese, donandomi un bell’abito de’ suoi, e d’accogliermi alla mensa di lui, datomi titolo mezzo d’amico, mezzo di famigliare. Ufficio mio era l’accompagnarlo ai pubblici incanti, tenerlo allegro quando egli sedeva innanzi al pittore per farsi fare il ritratto, adagiarmi a man manca nella sua carrozza quand’altri non vi avesse di me più degno di tant’onore, ed ogni volta che ne frullasse pel capo il grillo, seguitar lui al bordello. Toccavanmi inoltre cent’altre minute brighe nella famiglia, dovendo io tener mente a diverse cosucce e mandarle ad effetto senza che me lo si ordinasse, aver sempre in pronto il ferro per cavare il sughero ai fiaschi, levare al sacro fonte tutti i bambini de’ suoi servidori, cantare quando ad altri ne veniva il destro, essere costantemente gaio, umile, e, s’esser poteva, contentissimo. Innalzato io ad una sì luminosa carica, non mi mancavano rivali: e un capitano di marina che parea foggiato dalla natura a capello per quell’impiego, mi contrastava nell’amorevolezza del mio padrone. La madre di lui era stata lavandaia d’un ricco signore; però egli s’era di buon’ora addestrato ne’ ruffianeschi andamenti e nella cortigianeria. Ponendo costui ogni studio della vita nel farsi bello delle amicizie di Eccellenze, comecchè da molti fosse scacciato a calci per la sua stupidezza, pure altri assai ne trovava che stolidi al par di lui soffrivano ogni dì la noia delle sue visite. Tutta specie di sostentamento traeva egli dall’adulare, e in quell’arte era scaltrissimo oltre ogni dire; sicch’io a petto a lui diventava uno stentato, uno scimunito. Cresceva di dì in dì più veemente il desiderio d’adulazione nel signor Thornhill, ma d’ora in ora scoprendone io sempre più le magagne, poca voglia mi nascea d’incensarlo; e già mi sembrava d’essere sull’orlo di dover cedere il campo al capitano; quando il mio amico ebbe d’uopo d’adoperarmi ad un suo servigio. Si trattava di niente meno che d’entrare in duello in vece sua con un gentiluomo a cui dicevasi avere egli malmenata la sorella. Mi vi accomodai di buon grado; nè a voi incresca codesto mio contegno, perch’io reputai dovere di amicizia il non ricusare a lui la mia destra. Scesi in campo, disarmai l’avversario, ed ebbi ben tosto la soddisfazione di accorgermi che la dama per cui combattevasi altro non era che una cantoniera, e lo spadaccino uno scroccone che viveva del peccato di lei. Fui rimunerato di ciò colle più calde espressioni di riconoscenza; ma dovendo l’amico mio fra pochi dì andarsene dalla città, egli non seppe come meglio assistermi che col raccomandarmi al suo zio, il signor Guglielmo Thornhill, e ad un altro gentiluomo assai riguardevole nella magistratura.
Partito egli appena, corsi a presentare la commendatizia allo zio, uomo comunemente decantato, versatile in ogni virtù, ma sempre giusto. Fui accolto da’ suoi familiari con ospitalissimo sorriso, perchè negli sguardi e nelle maniere de’ servi si trasfonde sempre la benivolenza del padrone. Intromesso io in un vasto appartamento, vidi tosto comparire il signor Guglielmo, a cui porsi la lettera ch’egli lesse; e dopo stato alquanto sovra pensieri, così mi parlò: — Di grazia, con che ti guadagnasti tu dal mio congiunto una sì fervorosa raccomandazione? Sta a vedere ch’io l’indovino: tu hai combattuto per lui, e vorresti ch’io ti rimeritassi d’essere stato stromento de’ suoi vizi. Ma voglia il cielo che questa mia repulsa ti sia gastigo della tua ribalderia, e ti induca a pentimento! — Sopportai pazientemente la severità d’una tale disdetta, sapendola giustissima; ed ogni speranza che mi rimanesse la riposi nell’altra lettera diretta alla persona cospicua. Siccome le porte de’ nobili sono per lo più assediate da una turba di mendichi colle man piene di suppliche, non mi riuscì facil cosa ottenerne l’entrata. Ma dissipato mezzo il mio avere in ugner le mani ai valletti, mi si condusse alla fine in una lunga fila di camere, posciachè s’era mandata innanzi la lettera alle mani di Sua Eccellenza. Intanto ch’io ansiosamente aspettava la risposta, ebbi agio di ammirare gli addobbi di quelle sale, ove tutto era magnificente e di raffinata squisitezza. Strabiliava io in veder tante e sì belle dipinture e tanto oro profuso sulle superbe suppellettili; e in pensando al padrone di quelle, mi si aggirava per la fantasia un uomo d’alta presenza e di pensare non comunale. — Oh, diceva io tra me e me, quant’esser dee grande il possessore di codeste sontuosità, egli il cui capo governa le cose pubbliche, ed il cui palagio sfoggia le ricchezze di mezzo un regno! Certo, non vi avrà mente sì vasta che pareggi l’alta sua mente: —
Tenendo dietro a queste riflessioni tremende, odo uno stropiccío di piedi. Ah, egli è desso, egli è desso! Mi volgo, e veggo non essere che una cameriera. Poco appresso odo un altro stropiccio. Oh, sarà egli senza dubbio! No: era il donzello di Sua Eccellenza. Apparve alla fine il personaggio illustre, il quale mi domandò s’io fossi il latore di quella lettera; e la mia risposta fu un profondissimo inchino. — Veggo da questa, proseguì egli, comequalmente.... — Un servo gli porse una carta, ed egli, senza più badare a me, mi volse le spalle, lasciandomi solo, perchè io inghiottissi a mia posta quella buona fortuna; nè più lo vidi: finchè poi uno dei valletti mi annunziò che Sua Eccellenza scendeva le scale per montare in carrozza. Giù a rompicollo anch’io, unendo la mia voce a quella di tre o quattro altri meschini che lo pregavano al par di me d’alcun favore. Ma Sua Eccellenza andava sì lesto, che in tre passi giunse alla carrozza, e vi sall: ond’io mi vidi costretto a gridare ad alta voce, per sapere se mi si sarebbe data una risposta. Allora susurrò egli poche parole fra’ denti, metà delle quali io intesi, e metà andarono perdute pel fragor delle ruote. Rimasi per alcuna pezza col collo teso, come uomo intento a sorbire i suoni di quella voce gloriosa; ma guardatomi poscia d’intorno, mi trovai solo soletto innanzi alla porta di Sua Eccellenza. La mia pazienza era oramai esausta; e punto dai mali trattamenti a mille a mille incontrati, io voleva disperatamente sbalzarmi in un precipizio; nè mi mancava che la voragine per affogarmi. Considerava in me stesso, come uno di quegli esseri vilissimi gittati dalla natura nella più immonda sentina di questa terra, ed ivi dannati a perire oscuramente. Mi restava però in tasca tuttavia una mezza ghinea, e pareami che la fortuna, con tutta la sua possanza, non valesse a ghermirmela; ma affine di evitare ogni peggior danno, determinai intanto ch’ell’era mia di subito spenderla, e di buttarmi poscia in braccio alla sorte ad occhi chiusi. Avviandomi a dare effetto alla mia risoluzione, passai accanto alla casa ove tenea il suo ufficio il signor Crispe; e fatto pensiero di trovarvi buona accoglienza, v’entrai. Ivi il signor Crispe offerisce cortesemente a tutti i sudditi di S. M. una generosa impromessa di trenta lire per anno, in contraccambio delle quali eglino non danno che una minuzia, la loro libertà cioè, e la licenza di poterli trasportare come schiavi in America. Stimai ventura l’avere rinvenuto un luogo che disperandomi del tutto, avrebbe soffocati i miei timori: e con monastica divozione posi piede in quella che a me parea cella da frate. Quivi incontrai una moltitudine di tapini che tutti com’io prediletti dalla fame, aspettavano che giungesse il signor Crispe, dimostrando in compendio col loro contegno, di qual natura sia l’impazienza inglese; perchè quelle anime sdegnose, adirate colla fortuna, stracciavano sè medesime a brani a brani, eruttando contumelie contro le ingiustizie di lei: ma l’arrivo del signor Crispe pose termine una volta al bestemmiare. Egli si degnò di guardar me con un’aria di particolare condiscendenza; e fu egli il primo che da un mese in qua mi parlasse col sorriso a fior di labbro. Dopo diverse interrogazioni mi ravvisò uomo atto ad ogni maniera di mestiere; e recatosi sopra sè, e stato alcun tempo pensando taciturno qual più mi si confarebbe, percosse finalmente la fronte in segno d’aver ben colto, e mi disse che discorrendosi allora d’una tal quale ambasceria del Sinodo di Pensilvania agl’Indiani Chickasaw, avrebbe tentato di farmi eleggere segretario di quella. Sapeva io benissimo in mio cuore che il briccone mentiva; ma la promessa di lui tuttavia mi solleticò gli orecchi per quell’ampollosa parola segretario; e senza farmi increscere divisi tosto la mia mezza ghinea in due parti, l’una delle quali andò a congiungersi alle trenta mila lire che formavano il patrimonio del signor Crispe, e coll’altra determinai di entrare nella vicina taverna, e mercarmi felicità maggiore della sua, crapulando.
In uscire con questo pensiero da casa Crispe, incontrai sulla porta un capitano di nave già da me conosciuto qualche poco, il quale accettò di voglia l’invito di bever meco una scodella di punch. Non usando io mai far misterio de’ fatti miei, entrai seco lui in discorso sulla promessa fattami dal signor Crispe; per lo che egli s’ingegnò di rivolgermi dal mio pericoloso proponimento, con parole molte affermando non avere altro in animo il signor Crispe che di vendermi alle colonie, e mandarmi così in precipizio. — A me pare, continuò egli, che tu potresti con più corto viaggio guadagnarti miglior vitto. Bada a me, figliuol mio; domani la mia nave fa vela per Amsterdam, e tu potresti salirvi qual passeggiero. Giunto a terra tu ti fai maestro di lingua inglese agli Olandesi; e ti so dire io che scolari e quattrini non ti mancheranno. Poffare il diavolo! tu sai d’inglese assai bene, non è egli vero? — Risposi con confidenza che sì; ma gli manifestai non essere io poi sicuro che gli Olandesi avrebbono voluto imparare la lingua inglese. Egli giurò che ogni Olandese n’era appassionato di tal modo che ne andava propio matto e udito io un tal giuramento, mi piegai alla sua profferta; e il giorno che seguì poi mi posi in naviglio, per andarmene maestro d’inglese in Olanda. Il vento fu propizio, breve il viaggio; e dopo pagato il nolo con mezza la mia valigia, chè contanti io non aveva, mi ritrovai straniero uomo e stupido tutto in una delle principali strade di Amsterdam. Mi parve allora di non dover rimanere colle mani in mano come uno scioperone; e rivoltomi a due o tre persone che passavano per via, e li volti di cui promettevano buona accoglienza, offerii loro l’opera mia; ina non ci fu verso ch’e’ mi capissero, nè ch’io una parola intendessi di loro risposte. Per la prima volta quindi mi avvidi che per potere io insegnare l’inglese agli Olandesi, era d’uopo ch’essi instruissero primariamente me nella lingua loro. Come io trascurassi di porre mente gran pezza innanzi a una sì ovvia considerazione, non so dire; ed è per me gran maraviglia: ma pure certissima cosa ell’è ch’io non vi badai nè un istante.
Fallito questo mio disegno, e parendomi matta impresa aver fatta, ebbi talento di ritornarmene bellamente in Inghilterra; ma venutomi tra’ piedi uno studente irlandese giunto di fresco da Lovanio, ed entrato io in parole con esso lui, ragionai di cose letterarie lungamente; perchè ogni volta che io trovassi gente con cui discorrere di letteratura, il sentimento delle mie miserie svaniva. Seppi da lui che in tutta l’Università non vi erano due persone che intendessero il greco; e ciò ripensando trasecolai. Però, proponendo io di far viaggio verso Lovanio, ed ivi aprir scuola di lingua greca, fui dal mio compagno studente inanimito ad andarvi tosto, come certo di farvi fortuna.
Spuntata l’alba dell’altro dì, presi il mio cammino pieno di care speranze; e proseguendo il viaggio, sentiva di giorno in giorno alleviarsi il peso del mio fardello a guisa del canestro di pane del buon Esopo, perchè con quello io pagava ogni scotto agli albergatori olandesi. Come prima entrai in Lovanio, non volli per niun conto farla da palpatore coi professori infimi, ma presentarmi a dirittura al principale, ed esibir a lui di giovargli col mio intelletto. Imperò m’ingegnai d’ottenerne l’accesso; ed a quel sere parlai di me come d’uomo capace d’insegnare la lingua greca, della quale m’era stato detto essere penuria in quella università. Il rettore parve a prima giunta dubbiare del mio sapere; ma offerendomi io pronto a tradurre in latino uno squarcio di qualsivoglia autore greco ch’egli avesse stimato di scegliere, vide ch’io parlava da senno, e così mi rispose: — Tu guardi, o giovinetto, in me un uomo che non istudiò mai il greco, nè mai si accorse d’averne bisogno. Senza saper di greco fui addottorato e vestii toga e berretta; senza saper di greco ho diecimila fiorini l’anno, e me li mangio a crepapelle, senza saper di greco; e da ultimo, non sapendo io di greco, non posso credere che v’abbia utilità alcuna in quella lingua. —
Io m’era dilungato troppo da casa mia, e facile cosa non appariva il ritornarvi; quindi tirai innanzi. M’intendeva di musica alcun poco, e la mia voce non era pessima; imperò rivolsi a procacciarmi la vita quelle doti, dalle quali io non avea finora tratto che sollazzo. Viaggiai per mezzo agli innocenti contadini delle Fiandre, e per que’ paesi della Francia ove i villanelli, per essere poverissimi, sono i più allegri; perchè la gioia vidi io non di altri mai compagna che della miseria. Sempre che all’imbrunir della sera accostandomi ad un casolare cantassi una delle canzoncine più liete, uscivano i contadini in festa; ed io ne aveva ricovero per quella notte, ed alimento per un giorno intero. Una volta o due ebbi talento d’indirizzare il mio canto a gente più agiata, tentando così miglior fortuna; ma reputando questi sguaiata e stucchevole la mia voce, nè una crazia nè un tozzo mi regalavano. Tutto stupefatto io rimaneva in vedendo sì mal gradita da costoro la mia voce; perchè ne’ dì felici quand’io me ne serviva per trastullo in gioviali brigate, ognuno ne era incantato, ognuno mi levava alle stelle colle lodi, e le donne più ch’altri mai; ed ora che io dalla musica sperava pane, otteneva disprezzo: prova convincentissima della poca stima che gli uomini fanno di quelle abilità per le quali altri si guadagna il boccone. In tale guisa viaggiando, arrivai a Parigi, non con altra voglia che di girare intorno lo sguardo alcun giorno, e appresso proseguire la mia via. I Parigini sono più innamorati degli stranieri danarosi, che di coloro che hanno ingegno; però io che nè dell’una nè dell’altra cosa poteva menar vanto, non vi capitai troppo bene. Scorsa su e giù la città per quattro o cinque dì, vedute le facciate de’ migliori palazzi, m’era voglia di abbandonare quel luogo, ove l’ospitalità è venale: quando passando per una delle strade più frequentate, mi venne fatto d’abbattermi al nostro cugino a cui tu mi avevi, o padre, accomandato. Questo incontro così impensato fummi caro oltre ogni dire, e credo che nè a lui dispiacesse. Domandommi del come e del perchè io fossi in Parigi, e mi diè contezza appieno de’ fatti suoi, narrandomi essere egli venuto per raccogliere dipinture, medaglie, intagli ed antichità di ogni maniera, per un gentiluomo di Londra che, acquistata gran fortuna, s’era improvvisamente creato antiquario e dilettantissimo di tali ciarpe. Maravigliai davvero in vedere raccomandato un così fatto ufficio al nostro cugino, dalla cui bocca aveva io spesse volte udito com’egli fosse di quelle materie ignorantissimo; e domandatolo del modo con cui erasi egli addottrinato cotanto in sì breve tempo, rispose niuna cosa essere di ciò più facile. Tutto il segreto stava nel tenersi fermo a due regole, l’una di sempre dire che il quadro sarebbe stato migliore se il pittore vi avesse speso più cure; l’altra di lodar sempre le opere di Pietro Perugino. E come già un tempo egli mi aveva insegnato in Londra a diventare autore, si offerse di bel nuovo maestro a me dell’arte del comperar pitture in Parigi.
Accolsi di buon grado la profferta perchè ella era un mezzo di vita, nè altra ambizione io sentiva nell’anima che di campare; e andatomene a casa sua, mercè li sovvenimenti di lui mi raffazzonai il meglio che seppi, e dopo alcuni giorni gli tenni dietro ai mercati, ove avidamente aspettavansi de’ ricchi Inglesi che venissero a comperare pitture. A me non poco parea strano il vederlo amico di gente di alto affare che gli chiedeano riverentemente parere sovra ogni dipinto ed ogni medaglia, ricorrendo a lui come a norma infallibile di buon gusto. Egli sapeva cavare ottimo partito dalla mia assistenza in questi incontri; conciossiachè interrogato da altri qual fosse la sua opinione intorno ad alcuna cosa, tirava me con gravità da un canto, domandava com’io la sentissi, inarcava le spalle, girava l’occhio seriamente, poi tornava agli altri, e diceva loro non potere egli di affari di tanto momento pronunziar giudicio su due piedi. Alcuna volta la impudenza di lui saliva più alto; perchè mi sovviene d’averlo veduto un giorno, poi ch’ebbe spacciato il parer suo e detto che il colorito d’una tal quale pittura non era abbastanza morbido, dar di piglio con deliberato animo ad un pennello intinto in vernice bruna che giaceva lì a caso, in faccia a tutti strofinarlo sul quadro placidamente, e domandar poscia s’ei non ne avesse migliorate le tinte.
Terminata la sua incumbenza in Parigi, prima di partire egli mi accomandò caldamente a diverse cospicue persone, proponendo me come uomo atto a tener cura di nobili giovinetti ne’ loro viaggi. Nè guari andò, in fatti, ch’io fui condotto a soldo da un gentiluomo inglese, il quale aveva tratto a Parigi il suo pupillo, affine di mandarlo per di là a viaggiare l’Europa. Fu stabilito ch’io ne dovessi essere l’aio, con patto però che al giovane fosse lecito di governarsi sempre a capriccio suo; e ’l mio pupillo per verità sapeva meglio di me maneggiare il borsello. Egli era erede di un dugentomila lire, lasciategli da un suo zio morto nelle Indie occidentali; e i tutori di lui, perch’ei si facesse saputo nella economia domestica, lo avevano collocato presso di un avvocato, cosicchè per sì bella ed onesta pratica l’avarizia era divenuta la passione che dominavalo. I discorsi per lui tenuti in camminando si volgevano tutti sul modo di sparagnare danari, quale fosse metodo di viaggio meno costoso, se vi avesse cosa da comperare dalla quale si traesse alcun utile rivendendola in Londra, e così via. Di tutti gli oggetti che nel nostro viaggio potevansi vedere senza spesa, egli era prontissimo ammiratore; ma se il vedere costava quattrini, d’ordinario egli mi accertava essergli stato detto non avervi cosa alcuna degna di sguardo. Colui non pagava mai conto senza prima esclamare quanto dispendioso oltre misura fosse il viaggiare; eppure, chi ’l crederebbe! e’ non aveva per ancora compiuti i ventun anni. Giunti noi a Livorno ed avviatici al porto per vedervi le opere e le navi, egli domandò quanto costasse il tragitto per mare da ivi in Inghilterra; e sentendo essere una minuzia a paragone della spesa per via di terra, nè sapendo resistere alla gradevole tentazione, pagatomi il poco salario che mi si doveva, tolse commiato e s’imbarcò per Londra con un solo servo.
Eccomi adunque di bel nuovo scagliato in mezzo del mondo senza avere di che vivere; ma l’esservi io oggimai accostumato me ne scemava il rincrescimento. Il poco mio sapere di musica nulla giovavami in un paese ove ogni menomo contadinello mi sopravanzava di lunga mano; ma un’altra facoltà s’era in me sviluppata che favoreggiava i bisogni miei al pari della prima, la destrezza mel disputare. In tutte le Università, in tutti li chiostri fuor d’Inghilterra, a certi giorni determinati è uso di sostenere alcuna tesi filosofica contro le obbiezioni di qualsivoglia opponente; e se questi contraddice con garbo, guadagna una ricompensa in danari, un pranzo ed un letto per una notte. Combattendo in duelli di tal fatta, ogni giorno mi avvicinava io sempre più alla patria, passando di città in città, esaminando l’uman genere da vicino, e guardando, se così può dirsi, la pittura per diritto e per rovescio. Le mie osservazioni però furono poche. Trovai che il miglior governo pel poverello è la monarchia, pel ricco la repubblica. Trovai che le ricchezze in generale sono per tutte le terre un sinonimo della libertà; e che non vi ha partigiano il più caldo di questa, il quale non brami assoggettare alla propria la volontà d’alcun altro individuo della società.
Tornato in Inghilterra, ebbi animo di visitare mio padre e di farmi poscia scrivere al ruolo per la prima spedizione di soldati; ma fu stornata la mia idea da un antico amico incontrato per via, il quale viveva in una compagnia di commedianti che doveva andare l’estate vagando di terra in terra per questa provincia. A costoro parve di non dovermi ripudiare dal numero loro; ma vollero primieramente avvertirmi di quanto scabrosa fosse l’impresa, essendo il pubblico un mostro di cento teste, a cui voler piacere era d’uopo averne io una buona. Mi fecero veduta ogni difficoltà, e come l’imparare l’arte non era lavoro d’un giorno, e com’io non avrei incontrato mai il gradimento degli spettatori senza alcuni contorcimenti e uno strigner di spalle disceso per tradizione sul teatro, e conservatovi da soli cento anni in qua. Un altro guaio insorse sulla scelta delle parti che mi si convenissero, perchè già distribuite tutte tra di loro; e ne fui trascinato di dì in dì, datomi oggi un carattere e tolto domani; finchè poi si fu ad una conchiuso ch’io dovessi fare da Orazio: ma la presenza vostra per buona fortuna mise impedimento alla mia scenica impresa.”
Note
- ↑ È parere di alcuni che sotto il nome del povero Giorgio si ascondano le miserie durate in gioventù da Oliviero Goldsmith stesso.
- ↑ Contrada meschina in Londra, ove alloggiano per buon mercato quasi tutti gli scrittorelli senza quattrini.
- ↑ Appunto così va la bisogna anche fuor d’Inghilterra. — Nota del Casamia.
- ↑ Nella mia contrada questo evento felice puoi definirlo così; Giorni travagliati dall’invidia de’ contemporanei, domestica povertà, ed onoranza e fama cinquant’anni dopo le esequie. Or va’; s’altro non hai che ingegno, e non sei destro palpatore, e non sai far lega col vizio, ed hai bisogno di pane, cambia la penna in vanga e vivi tranquillo. O muor di rabbia e di fame colla speranza che dopo un secolo la tua patria t’infiori forse la tomba. Pon mente a Torquato e fa’ senno. — Nota del Casamia.
- ↑ Nomi romorosi che assumono per lo più coloro che inseriscono estratti e leggende ne’ pubblici Giornali; siccome in terra mia avviene, ove i nomi non sono più modesti, ma più strani sì bene. Non vedi, lettore, Sud, Nord, Ouest e Ouest-Nord tuttodì? — Nota del Casamia.