me lo si ordinasse, aver sempre in pronto il ferro per cavare il sughero ai fiaschi, levare al sacro fonte tutti i bambini de’ suoi servidori, cantare quando ad altri ne veniva il destro, essere costantemente gaio, umile, e, s’esser poteva, contentissimo. Innalzato io ad una sì luminosa carica, non mi mancavano rivali: e un capitano di marina che parea foggiato dalla natura a capello per quell’impiego, mi contrastava nell’amorevolezza del mio padrone. La madre di lui era stata lavandaia d’un ricco signore; però egli s’era di buon’ora addestrato ne’ ruffianeschi andamenti e nella cortigianeria. Ponendo costui ogni studio della vita nel farsi bello delle amicizie di Eccellenze, comecchè da molti fosse scacciato a calci per la sua stupidezza, pure altri assai ne trovava che stolidi al par di lui soffrivano ogni dì la noia delle sue visite. Tutta specie di sostentamento traeva egli dall’adulare, e in quell’arte era scaltrissimo oltre ogni dire; sicch’io a petto a lui diventava uno stentato, uno scimunito. Cresceva di dì in dì più veemente il desiderio d’adulazione nel signor Thornhill, ma d’ora in ora scoprendone io sempre più le magagne, poca voglia mi nascea d’incensarlo; e già mi sembrava d’essere sull’orlo di dover cedere il campo al capitano; quando il mio amico ebbe d’uopo d’adoperarmi ad un suo servigio. Si trattava di niente meno che d’entrare in duello in vece sua con un gentiluomo a cui dicevasi avere egli malmenata la sorella. Mi vi accomodai di buon grado; nè a voi incresca codesto mio contegno, perch’io reputai dovere di amicizia il non ricusare a lui la mia destra. Scesi in campo, disarmai l’avversario, ed ebbi ben tosto la soddisfazione di accorgermi che la dama per cui combattevasi altro non era che una cantoniera, e lo spadaccino uno scroccone che viveva del peccato di lei. Fui rimunerato di ciò colle più calde espressioni di riconoscenza; ma dovendo l’amico mio fra pochi dì andarsene dalla città, egli non seppe come meglio assistermi che col raccomandarmi al suo zio,