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capitolo ventesimo. 129

papelle, senza saper di greco; e da ultimo, non sapendo io di greco, non posso credere che v’abbia utilità alcuna in quella lingua. —

Io m’era dilungato troppo da casa mia, e facile cosa non appariva il ritornarvi; quindi tirai innanzi. M’intendeva di musica alcun poco, e la mia voce non era pessima; imperò rivolsi a procacciarmi la vita quelle doti, dalle quali io non avea finora tratto che sollazzo. Viaggiai per mezzo agli innocenti contadini delle Fiandre, e per que’ paesi della Francia ove i villanelli, per essere poverissimi, sono i più allegri; perchè la gioia vidi io non di altri mai compagna che della miseria. Sempre che all’imbrunir della sera accostandomi ad un casolare cantassi una delle canzoncine più liete, uscivano i contadini in festa; ed io ne aveva ricovero per quella notte, ed alimento per un giorno intero. Una volta o due ebbi talento d’indirizzare il mio canto a gente più agiata, tentando così miglior fortuna; ma reputando questi sguaiata e stucchevole la mia voce, nè una crazia nè un tozzo mi regalavano. Tutto stupefatto io rimaneva in vedendo sì mal gradita da costoro la mia voce; perchè ne’ dì felici quand’io me ne serviva per trastullo in gioviali brigate, ognuno ne era incantato, ognuno mi levava alle stelle colle lodi, e le donne più ch’altri mai; ed ora che io dalla musica sperava pane, otteneva disprezzo: prova convincentissima della poca stima che gli uomini fanno di quelle abilità per le quali altri si guadagna il boccone. In tale guisa viaggiando, arrivai a Parigi, non con altra voglia che di girare intorno lo sguardo alcun giorno, e appresso proseguire la mia via. I Parigini sono più innamorati degli stranieri danarosi, che di coloro che hanno ingegno; però io che nè dell’una nè dell’altra cosa poteva menar vanto, non vi capitai troppo bene. Scorsa su e giù la città per quattro o cinque dì, vedute le facciate de’ migliori palazzi, m’era voglia di abbandonare quel luogo, ove l’ospitalità è venale: quando passando per