Il vicario di Wakefield/Capitolo decimonono
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CAPITOLO DECIMONONO.
Descrizione di un tale, malcontento del Governo e pauroso della perdita delle nostre franchigie.
La casa ove quegli dovea condurci non essendo molto lontana, e non vi avendo d’altronde sì pronta una carrozza, parve al nostro invitatore che vi si potesse andare a piedi; e dopo poco cammino giungemmo ad una villa la più magnifica ch’io mi abbia mai veduta. L’appartamento in cui venimmo intromessi era adornato alla moda ed elegantissimo; ed ivi ci abbandonò per un istante quell’ospite che volle dare gli ordini per la cena: intanto il comico mi facea l’occhiolino, accennando aver noi quella sera arraffata la fortuna pel ciuffetto. Poco stante ritornò colui; ed una cena sontuosa fu apparecchiata, alla quale intervennero due o tre dame in vesti di casa sì, ma non per questo neglette; e con assai brio si diede principio alla conversazione.
La politica era sempre l’argomento in cui più d’ogni altro si diffondeva il nostro ospite, asserendo egli essere la libertà a un tempo stesso la gloria di lui e il terror suo.
Rimosse le tovaglie, mi inchiese s’io avessi letto l’ultimo Monitore; al che risposi del no. “Vergogna! almeno l’Auditore l’avrai veduto.” — “Neppure.” — “Capperi! Ella è strana stranissima cosa. Io leggo tutti i fogli politici dal primo fino all’ultimo, il Quotidiano, il Pubblico, il Fascicolo, la Cronaca, la Sera di Londra, la Sera di Whitehall, i diciassette Magazzini e le due Riviste: e quantunque amici l’un dell’altro come cani e gatti, a me son cari pur tutti. La libertà, padron mio, sì, la libertà è la gloria del Britanno; e per tuttequante le mie miniere di carbon fossile in Cornovaglia giuro ch’io ne rispetto i mantenitori.”
Stava per isciorinargli una mia diceria; quando uno staffiere batte alla porta, e le gentildonne gridano l’una dopo l’altra come tutte arrangolate e in iscombuglio: “Oimè trista, oimè! che il padrone e la padrona tornano a casa.”
Mi si schiusero allora gli occhi, e venni a conoscimento che il nostro ospite non era che il canovaio a cui nell’assenza del suo signore era saltato in capo il ghiribizzo di far del dotto e del grande e spacciarsi per una Eccellenza; e la verità è ch’egli discorreva di politica al pari di qualsivoglia gentiluomo di provincia. Ma la mia confusione era all’estremo nel vedere entrare il vero padrone colla sua sposa: nè la maraviglia di lui era minore rinvenendo buon banchetto con tali commensali nella sua sala. Rivolto a me ed al mio compagno il saluto, disse quel gentiluomo che dalla visita nostra e da sì inaspettato favore egli e la moglie sua si tenevano tanto onorati, che non sapevano trovar modo come meglio ringraziarcene bastantemente. Per quanto la nostra presenza potesse riuscire inopinata a que’ signori, certo che a noi non piombò addosso meno all’improvviso la loro; ed io in pensando alla mia balorderia mi rodeva dentro me stesso, nè mi veniva aperta la bocca per la vergogna. Quand’ecco subitamente entrare in camera una donna: volgomi tosto, e oh fortuna! ravviso la mia cara Arabella Wilmot, quella che doveva un tempo sposarsi a Giorgio, il mio figliuolo, e le cui nozze furono, come s’è detto, stornate. Nè prima m’ebbe ella veduto che tosto corse festosa nelle mie braccia esclamando: “O signor mio, qual ventura mai a noi ti conduce? Oh quale sarà la gioia di mio zio e della zia nello scoprire in te il buon dottor Primrose alloggiato nella lor casa!” All’udire il mio nome quel vecchio gentiluomo e la sua moglie si rizzarono cortesemente sulla persona, dicendomi con cordialissima ospitalità il ben venuto: e narrando io poscia la strana maniera colla quale il caso mi avea piantato sotto del loro tetto, non potevano tenersi di ghignare; ma voleano pure cacciar di casa su due piedi quel malarrivato del canovaio; nondimeno tanto io dissi, che ad intercession mia gli perdonarono poscia. Il signor Arnold e la donna sua, a cui apparteneva davvero la villa, pregarono strettamente ch’io mi fermassi presso di loro alcuni giorni; ed aggiuntisi ai loro inviti anche quelli della vezzosa nipote alla quale io poneva affetto quasi come ad una mia pupilla, poichè avevano le mie instruzioni contribuito a sviluppar la sua mente, di buona voglia mi vi arresi. Fui quella notte menato in una camera ricchissimamente apparecchiata; e la mattina appresso madamigella Wilmot volle che io seco lei passeggiassi nel giardino ch’era con fino e modernissimo gusto disposto. Dopochè s’ebbe vagato alcun tempo ammirando le bellezze di quel luogo, ella mi domandò con apparente indifferenza s’egli era gran tempo da che io non avessi novelle del mio figliuolo Giorgio. “Ahi! sono già tre anni ch’egli è lontano, e non ha mai scritto lettere nè agli amici nè a me. Dov’egli sia nol so; e forse non vedrò più il volto di lui nè quello della felicità. No, cara fanciulla mia, quelle ore beate che si passavano accanto al nostro focolare a Wakefield non torneranno più mai. La mia famigliuola comincia a disperdersi; e la povertà non ci ha colti solamente, ma ben ancora l’infamia.”
A queste parole la pietosa vergine lasciò cadere una lagrima; ed accortomi io della troppa sensibilità di lei, troncai ogni più minuto racconto delle nostre sciagure. Fu nondimanco argomento per me di consolazione il sentire che il tempo non aveva in conto veruno cambiata quell’anima, e com’ella aveva ricusati molti sponsali che le si erano proposti dopo la nostra partenza da que’ luoghi. Ella mi condusse qua e là additandomi i diversi cambiamenti accaduti nelle campagne, le nuove piantagioni, i viottoli variati, traendo d’ogni oggetto occasione di parlar meco del mio figliuolo. Così spendemmo il mattino; finchè la campanella ci chiamò al pranzo, ove rinvenimmo il direttore della compagnia comica già da me menzionata, venuto ad offerire biglietti per la Bella Penitente che doveva comparire in iscena quella sera, e in cui la parte di Orazio sarebbe stata recitata da un giovinetto che non era per ancora salito mai in sul palco. Egli parve lodare quel novello attore con molta svisceratezza, affermando di non aver mai veduto giovane di sì belle speranze; perchè quantunque non fosse lavoro d’un giorno l’imparare il mestiere, e’ si poteva proprio dire essere colui nato pel teatro, tanto commendevoli erano i suoi gesti, la sua voce, il suo aspetto; e soggiunse d’averlo trovato a caso cammin facendo di verso quel villaggio. Tutte queste cose eccitarono la nostra curiosità; e tanto dissero e tanto fecero le gentildonne, che m’indussero ad accompagnarle al teatro, il quale, in fatti poi, altro non era che un granaio. Le persone colle quali io v’andai erano fuor d’ogni dubbio le più ragguardevoli di quella terra; quindi fummo accolti con somma riverenza e locati nel posto più onorevole rimpetto alla scena, ove sedemmo per alcuna pezza impazienti che uscisse fuori l’Orazio, per vedere s’egli fosse poi tanto portento. Alla per fino il nuovo attore si avanzò; e chi è padre immagini qual fosse lo stato dell’anima mia, allorchè riconobbi lui essere l’infelice mio figliuolo. Egli stava per incominciare; ma girando lo sguardo sugli spettatori, e scontratosi con me e con madamigella Wilmot, rimase immobile e mutolo. Gli attori dietro la scena attribuendo alla naturale timidità di lui quella pausa, tentavano di mettergli animo; ma egli anzi che proseguire, scoppiandogli dal seno i sospiri, sgorgò un fiume di pianto e via si trasse. Io non so quali si fossero allora le mie sensazioni, e tanto rapidamente succedettero le une alle altre che non v’ha penna che le possa descrivere; ma fui ben presto scosso da quel tormentoso vaneggiamento da madamigella Wilmot, che pallida e con voce tremante mi pregava di ricondurla a suo zio. Tornati a casa, il signor Arnold, al quale pareva strano il nostro turbamento non ne sapendo il perchè, informato poscia essere figliuolo mio quel nuovo attore, mandò una carrozza a lui invitandolo a casa sua. Persisteva Giorgio nel non volere più salire in iscena, onde posero in suo luogo i commedianti un’altra persona; e poco dopo egli venne in mezzo di noi. Allora il signor Arnold gli fece le più gentili accoglienze; ed io, incapace sempre di affettare sdegno quando non me lo sentiva bollire davvero in cuore, me gli gittai con gran trasporto al collo. La maniera colla quale incontrollo madamigella Wilmot pareva alquanto trascurata; ma ben n’avvidi io ch’ella era tale a bello studio. Il tumulto della mente di lei non era per ancora calmato; ed or le usciano di bocca mille confuse parole che sembravan di gioia, ora ella rideva ella stessa della propria scempiezza: poi di soppiatto si guardava nello specchio quasi si compiacesse del sapersi bella e che nessuno le potesse resistere; e spesse volte interrogava gli altri senza badare nè punto nè poco alle risposte che gliene davano.