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del merito di lui; e l’altrui intelletto a me non dava mai nel genio, nè mai da me otteneva sincera lode. La sciagura de’ miei paradossi aveva diseccata interamente per me quella fonte di consolazione, nè io poteva più con diletto scrivere o leggere; perchè consistendo ogni mio traffico nel fare il dotto, qualunque autore da più di me fosse, era oggetto del mio abborrimento: e lo scrivere per guadagno è fatica, non gusto. Immerso in questi negri pensieri, standomi un giorno sdraiato sur un banco nel Parco di Saint James, mi si accostò un giovane gentiluomo di distinto casato, già un tempo mio strettissimo amico all’Università. Ci salutammo l’un l’altro titubanti; vergognando colui quasi di essere conosciuto da un uomo assai poveramente in arnese ed oscuro com’io parea, e temendosi per me non egli mi ributtasse. Ma la mia paura si dileguò prestamente, conciossiachè Odoardo Thornbill era giovane di cuor benfatto.”


“Che di’ tu Giorgio?” sclamai io; “Thornhill si chiamava colui? Certo ch’egli è il mio padrone e non altri.”

“Oh! come è ciò?” disse madama Arnold a me indirizzata; “sta dunque vicino a casa tua il sig. Thornhill? Egli è già da un pezzo amico della nostra famiglia, e tra breve ne speriamo una visita.”

“La prima cura dell’amico mio,” continuò il mio figliuolo, “fu di rimettermi con migliori panni in arnese, donandomi un bell’abito de’ suoi, e d’accogliermi alla mensa di lui, datomi titolo mezzo d’amico, mezzo di famigliare. Ufficio mio era l’accompagnarlo ai pubblici incanti, tenerlo allegro quando egli sedeva innanzi al pittore per farsi fare il ritratto, adagiarmi a man manca nella sua carrozza quand’altri non vi avesse di me più degno di tant’onore, ed ogni volta che ne frullasse pel capo il grillo, seguitar lui al bordello. Toccavanmi inoltre cent’altre minute brighe nella famiglia, dovendo io tener mente a diverse cosucce e mandarle ad effetto senza che