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capitolo ventesimo. 119

proposizioni, le quali, mirate in certa distanza, si rassomigliano alle prime; e queste io andai rubacchiando. O potenze dell’anima mia, fatemi voi testimonianza di quale e quanta immaginata serietà io vestissi i miei scritti, e com’io li reputassi cose gravissime. Io tenea per fermo che tutta la repubblica delle lettere si sarebbe sollevata per opporsi al mio sistema, quindi me ne stava pronto ad oppor me solo a tutta la repubblica letteraria; e a guisa d’uno istrice mi sedeva rannicchiato e raggomitolato con una penna aguzzata contro ogni mio assalitore.”

“Da buon senno tu favelli, mio buon ragazzo,” diss’io. “E quale era l’argomento che tu imprendevi a trattare? Certo che la monogamia non ti sarà paruta materia di poco momento, e tu n’avrai tenuto conto. Ma male io fo interrompendoti: deh via! proseguisci a dire. Tu pubblicasti adunque i tuoi paradossi; e che ne pensò la repubblica delle lettere?” — “Ella non disse parola nè un motto solo. Ogni membro di quella repubblica era occupato in lodare gli amici suoi e sè medesimo, o in tagliar le gambe ai nemici; e sgraziatamente non avendo io nè amici nè nemici, mi vidi pagato della più crudele mortificazione, la trascuranza.

Sedendo io un giorno in una bottega da caffè, meditando sul destino de’ miei paradossi, entrato dentro un uomo di piccola statura, si collocò dinanzi a me; e dopo alquanti ragionamenti vaghi trovatomi letterato, cavò di tasca un fascio di Manifesti, e pregò che mi sottoscrivessi ad una nuova edizione di Properzio con note, ch’egli stava per dar fuori. Una tale domanda cagionò necessariamente la risposta, non avere io danari; per la quale confessione egli si mosse ad interrogarmi sulla natura delle mie speranze; e sentendo queste appunto essere grandi quanto il mio borsello e nulla più, così prese a dire: — Parmi che tu non sappia che sia la città, però te ne voglio istruire. Vedi tu questi Manifesti? Di qui trassi assai buon sosten-