Il tesoro (Deledda)/Capitolo IX
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IX.
Da sei mesi Elena Bancu soffriva segretamente per lo strano matrimonio di Cosimo; le sembrava un brutto sogno; e invano avea cercato di manifestare la sua antipatia e di opporsi. Amava intensamente il fratello, ed era disposta a perdonargli ogni difetto, ma che la fatalità che lo dominava lo trascinasse verso un’unione infelice, no, non poteva sopportarlo. Intuiva e prevedeva qualcosa di triste, e ne soffriva, pur dicendosi che forse sbagliava nel suo presentimento, e pregando e sperando che così fosse.
Cosimo mise su casa a parte, volendo vivere indipendentemente, ma la dote portata dalla sposa, sebbene buona, non poteva bastare a tutto. Egli diceva sempre di voler occupare una posizione ferma e sicura, ma sebbene ciò, con le influenze della famiglia Marchis, riuscisse facile, non si decideva mai, per infingardaggine e amore di vita libera e gaudente.
Ora, anche le esigenze della sposa erano molte, ed egli non guadagnava nulla; aveva debiti a forti interessi e accennava ad accrescerli, anzichè estinguerli. Elena si sentiva triste sapendo tutto ciò; il giorno delle nozze, quando Cosimo lasciò la casa, e furon portate via le sue carte, i suoi libri e le sue vesti, ella pianse amaramente sembrandole che qualche cosa della sua vita, dell’anima sua, se ne andasse col fratello. Anch’egli se ne andava; ma dove andava? Verso il bene o verso il male?...
La casa diventò più che mai ampia e vuota; la tristezza misteriosa che da sei mesi tormentava Elena si cambiò in desolazione profonda: nei primi giorni pianse sconsolatamente, e quando Cosimo veniva in casa come uno straniero, ella provava una grande timidezza davanti a lui; non sapeva dirgli nulla, e sembrava indifferente, mentre non faceva che pensare a lui e pregare per il suo avvenire.
Ma a poco a poco si calmò. Passò quasi un mese; la casa ritornò in ordine, le abitudini domestiche non parvero soffrir molto per l’assenza di Cosimo, ed anzi subentrò un po’ di solitudine, di pace profonda e ordinata, che dopo tutto non dispiaceva ad Elena, come dispiaceva a Giovanna.
Gli sposi andavano ogni sera in casa di donna Francesca, e sembravano felici. La primavera cominciava a raddolcir l’aria. Elena sentiva i sogni primaverili e vi si abbandonava dolcemente: pareva che qualche fiore risorgesse nell’anima sua come rinascevano le prime rose lungo i muri del giardino, e che l’orizzonte delle sue fantasie si allargasse con l’orizzonte del cielo così calmo e soave nell’illusione di lattee pianure vanescenti nell’azzurro. La primavera operava soavemente un miracolo nell’anima sua, lasciandole però ancora un senso di melanconia infinita, specialmente quando vagava per i piccoli viali del giardino, e nella sera che avanzava un po’ nebbiosa e tiepida, sentiva le prime fragranze delle rose, quei profumi roridi e profondi che sono la silenziosa musica della primavera. Nel giardinetto, intorno intorno ai muri di granito, s’aggiravano splendidi rosai, fra cui sognavano sempre le rose rosse e vellutate di ogni mese, sostenute da grosse canne fresche e gialle sfumate di pavonazzo. Nel mezzo del giardinetto s’ergeva una specie di peristilio di passiflore e di edera, sostenuto da una colonna di granito chiaro, su cui strideva continuamente, aggirandosi su sè stessa, una banderuola di ferro rosso.
Dal peristilio, dolce luogo di fantasie, che Elena amava, partivano quattro piccoli viali, che andavano a finire nel viale largo, svolgentesi intorno al giardinetto. Peschi, albicocchi e ciliegi dalle foglie vermiglie, meli e giuggioli, su cui s’arrampicava la vite, formavano i graziosi e pittoreschi pergolati del piccolo eden; fiori rari e delicati crescevano sui rozzi vasi sardi di creta; nessun ordine regnava, e tra le rose s’ergeva l’oleandro ed il lauro, l’uva spina, la robinia e il gelsomino, così ch’era una siepe intricata, un trionfo di verzura esultante al sole ed al vento, stretta dalle canne d’oro, la cui rustica eleganza accresceva poesia al luogo.
Era una poesia, una frescura, una pace infinita. Sul davanti la casa tranquilla e silenziosa guardava colle sue finestre lunghe, così piene di pace e di dolcezza, nell’ombra dei pomeriggi sereni; al di là dei muri si scorgevano altri orti, poi i campi; all’est l’orizzonte si chiudeva con le dilette montagne dell’Orthobene, al sud Elena vedeva i campanili della cattedrale rifulgere rossi nel tramonto, e fra l’uno e l’altro scorgeva la verde collinetta di Sant’Onofrio, sfumata nel cielo sereno.
Nel giardinetto ella si chinava soltanto per cogliere qualche fiore; non s’occupava nè coltivava nulla, eppure conosceva ogni foglia, ogni ramo, ogni pietra dei muri, e tutto amava, e ad ogni foglia, ad ogni fiore si sentiva misteriosamente legata. I suoi sogni e le sue fantasie erano tutte lì, in quell’orizzonte, in quello spazio; erano nel cielo, nell’aria, negli alberi, nella facciata della casa, nei piccoli viali silenziosi, nelle canne sulle cui punte violacee posavano irrequiete le allodole e le rondini, cantando al cielo le fresche ballate primaverili ed autunnali.
Una sera che Giovanna e donna Francesca erano da Peppina, ella, mentre vagava sul davanti del giardinetto, sentì picchiar forte alla porta, e siccome la domestica non usciva, corse ella stessa ad aprire. Era il portalettere che le porse un giornale politico, un altro di mode, una cartolina per donna Francesca e una lettera per lei.
— Grazie — diss’ella, chiudendo la porta e guardando la lettera quadrata, dura e bianca, dalla soprascritta angolare, ma chiara e ferma, che subito riconobbe. Salì le scale leggendo la cartolina, entrò nella sua camera, mise i giornali sul tavolino, e avvicinatasi alla finestra aprì la lettera. Era di Paolo De-Cerere. A misura che leggeva, Elena diventava leggermente rossa, e un sorriso vago, quasi triste, le increspava le labbra; grandi complimenti doveva rivolgerle il lontano amico, per commuoverla e farla sorridere così.
Quando ebbe finito, alzò la testa, e appoggiandola lievemente ai vetri aperti, guardò lontano, con una vaga espressione di dolcezza e di tristezza negli occhi. E pensò. Doveva mostrar la lettera a Giovanna? Doveva tacer d’averla ricevuta? Ciò le ripugnava: non sapeva mentire con sua sorella; era meglio mostrarle la lettera, tanto più che Giovanna non l’avrebbe neppur letta.
Nelle sue prime lettere Paolo s’era rivolto ad entrambe le sue piccole amiche, ma siccome era sempre Elena che gli rispondeva, aveva finito col rivolgersi soltanto a lei. E Giovanna allora diceva con dispetto infantile:
— Ah, egli scrive a te? E tu rispondigli, ma a tuo nome soltanto. Io me ne lavo le mani. Tanto si vedeva bene, quando era qui, che voleva bene a te, non a me....
— Vuol bene a tutte due.
— Non me ne importa nulla! — diceva Giovanna con indifferenza. E infatti non glie ne importava più nulla del suo vecchio e lontano amico. Nelle feste da ballo del carnevale passato e nei ricevimenti per le nozze di Cosimo, s’era vieppiù accorta quanto Paolo era vecchio e lontano; ben altre fantasie le frullavano ora nella testina irrequieta e vezzosa: spalline brillanti d’ufficiali, camicette smaltate di giovani avvocati e professori, e persino cravatte rosee di studenti eleganti e intraprendenti.
Il veder le lettere di Paolo dirette alla sola Elena, toccò un poco la sua vanità di ragazza bella e corteggiata, ma fu una lieve nuvola, una spira di fumo che svanì tosto nell’azzurro della sua fantasia spensierata. Non volle neppur leggere l’ultima lettera arrivata nei giorni delle nozze di Cosimo: aveva ben altro per la testa, aveva detto.
— Ed io non rispondo più! — aveva ribattuto Elena offesa.
— Come credi!
Ma la lettera era così affettuosa e gentile che ella rispose anzi con più profondità e sentimento del solito. Oramai era sola ad amare il vecchio amico, e quest’amico che viveva solitario, desideroso e bisognoso d’affetto, che si rivolgeva a lei come ad una figlia lontana, e le apriva tutta l’anima sua, e le confidava tutto sè stesso, che scrivendo con profondità ed affetto paterno le chiedeva come una grazia di non dimenticarlo e volergli un po’ di bene, la attirava dolcemente a sè, destandole un affetto figliale, puro e sincero.
Da lontano s’erano conosciuti meglio; era l’anima che oramai parlava nei brevi foglietti scambiati a lunghi intervalli; l’affetto cresceva, e Paolo non si ricordava di Giovanna che per salutarla.
Ma in quest’ultima lettera, giunta con più sollecitudine delle altre, anche di ciò s’era dimenticato: diceva d’esser un po’ malato e di sentirsi grandemente triste nella sua solitudine.
«Come l’ho desiderata, come la desidero vicina, Elena! Come dopo la sua ultima lettera, ove vedo tutta l’anima sua buona e profonda, sento di volerle bene e di non poterla dimenticare mai più.»
Poi: «Non mi dimentichi: preghi per me, per la mia salute: le preghiere di un’anima come la sua devono esser dolcissimi comandi per il Signore».
Poi: «Mi porga le sue manine, non le ritiri più come faceva una volta, non abbia alcun timore di questo vecchio malato e solo, che l’ama come una figlia da cui è inesorabilmente separato, che ripone oramai gran parte della sua poca felicità nel suo affetto gentile; mi dia le sue mani, mi scriva presto, non mi lasci solo.
«Non avrei voluto scriverle così presto, ma la solitudine è grande, il desiderio di ricevere nuovamente e presto le sue lettere è prepotente. Mi scriva a lungo, mi apra tutta l’anima sua, parlandomi dei suoi sogni: io l’ascolterò religiosamente, e ogni sua parola mi risuonerà come una musica lontana, che carezza e raddolcisce ogni dolore».
E terminava con un saluto affettuoso, nel quale Elena intese qualche cosa di infinitamente triste e dolce.
Rimase a lungo con la testa appoggiata ai vetri, e gli occhi fissi in un punto lontano del crepuscolo.
Subitamente le venne il pensiero che Paolo s’innamorasse da lontano di lei; e questo pensiero la rese altera e triste. Altera perchè se questo fatto singolare accadeva, era un trionfo dell’anima sua, delle sue doti morali e del solo fascino spirituale. Ella avea sempre sognato di esser amata così, di solo amore ideale, nel quale assurgesse solo l’anima, la sensazione intensamente pura e dolce dell’unione spirituale, scevra da ogni ombra materiale.
Pensò tutta la sera all’amico lontano, senza cercare d’allontanarne il pensiero. Egli era sofferente, egli l’invocava: perchè non doveva accorrer presso di lui con carità? La visione di Paolo che solo e triste pensava a lei, che le scriveva e la sognava vicina, le si delineava pura allo sguardo dello spirito. E il pensiero che un uomo serio e intelligente, passato per molte vicende della vita, immerso in cure civili gravi e interessanti, si rivolgesse a lei, umile e semplice, e le chiedesse affetto e confidenza, la insuperbiva serenamente.
Per tutta la sera le parve d’essergli vicina, dicendogli parole gentili che lo confortavano e lo facevano sorridere. L’indomani mattina, svegliandosi dal sonno profondo e dolce delle aurore primaverili, il suo pensiero, quasi semplicemente interrotto dal sonno, ritornò subito alla lettera, alle espressioni più affettuose, alla visione di Paolo.
Restò così, lungamente pensando con più dolcezza della sera prima, con gli occhi chiusi da sembrar ancora addormentata.
«Mi porga le sue manine, non le ritiri più, non abbia alcun timore di questo vecchio malato e solo....» Queste parole le tornavano con insistenza al pensiero e provava l’impressione soave e delicata di sentir le sue mani strette in quelle di Paolo che le sorrideva.
Gli scrisse; ma la lettera non riuscì com’ella l’aveva ideata; molte cose le sfuggirono, altre le parvero inopportune; ma ad ogni modo le parve così confortante che sentì il bisogno di spedirla subito. Lasciandola poteva perder il suo profumo, poteva arrivar a Paolo quand’egli, ristabilito e rasserenato, non ne avrebbe più sentito il dolce conforto.
Nei giorni seguenti però tornò ai pensieri soliti, e l’impressione viva della lettera di Paolo sfumò; ma quando si sentiva turbata da qualche triste idea, ricorreva alla visione del suo lontano amico e si rasserenava. Non aspettava presto un’altra lettera, e le pareva di non desiderarla, ma sapendo che fra una cosa e l’altra occorreva una settimana per una pronta risposta, otto giorni dopo corse con leggero turbamento quando il portalettere venne. Anche quella sera Giovanna era assente: anche quella sera arrivò una lettera quadrata, dura e bianca, la cui soprascritta dalle rapide lettere angolari aveva già preso una forte suggestione nella memoria di Elena. E il cuore di lei ebbe un rapido sussulto. Così presto arrivava, così presto? Perchè? Come?
Paolo le scriveva d’esser stato assente qualche giorno; al ritorno aveva trovato «come un soffio d’aria pura e vivificatrice» la sua lettera e d’esserne ancora immensamente consolato.
«Grazie: anche da lontano ella ha una virtù ineffabile e soave di conforto. Fino a quando? Per mia parte, di certo, finchè un alito, un soffio di vita m’agiterà.»
In quella lettera egli cominciò ad apparirle sotto un nuovo aspetto, che la colpiva immensamente.
«Nella mia vita ho pensato, sentito, sperato, sognato e voluto amar molto. La vita mi si è spezzata fra le mani, in miseri frammenti. Ma chissà che il tramonto della mia vita non possa esser buono a qualche cosa, se ella, Elena, lo vorrà! Quaggiù non mi sembra aver più molto viaggio, ma se potessi viver sano, fiorente, amato ed amante, illuminato ed illuminante, altri dieci anni ancora, e poi spegnermi dolcemente, come chi è stanco di sua giornata, ma che nell’ultimo raggio di luce ha trovato un po’ di beatitudine, mi parrà che tutti i triboli della mia vita passata diventino rose per farne corona alla mia fronte stanca.
«Certo, io non sono tanto egoista da chieder a lei, Elena, di pensare a me proprio in questi dieci anni di sua gioventù, fiorita e poetica. Non ho il diritto di raccoglier io per me il tesoro dei suoi affetti, e disturbare la via dei suoi sogni di giovinetta. Mi parrebbe quasi un delitto. Ella ha bisogno d’un alto sole che fiammeggi sulla sua via; tali soli sono rari, ma ella è degna d’incontrarne uno, e se l’incontra lasci che la infiammi e la illumini tutta. Ma se, finchè non l’ha trovato, può bastarle una forte, calda, leale amicizia d’un uomo che ha ormai descritta la sua parabola, ma ha serbato quasi la verginità del cuore per i grandi sentimenti, Elena, posi pure la sua testina sul mio cuore, e levando gli occhi cerchi negli occhi miei tutta la luce d’un affetto intenso che vuol piovere sull’anima sua come un’ambrosia infinita....
«Mi scriva a lungo, quando non ha nulla di meglio da fare, quando lo scrivermi le sembri debba ritemprare il suo coraggio, e farle trillare un canto di gioia nell’azzurro luminoso.
«....Addio, dolcissima, mi dia a baciar le sue manine, e le posi sulla mia fronte, intanto che i miei occhi la inondano di carezze infinite.
«....E ora cosa le dirò ancora? Nulla, perchè vorrei dirle troppo; ma sente bene che sono suo, suo, tutto suo? E per sempre?»
Benchè la parola amore non venisse accennata in questa lettera, capolavoro di tenerezza e di soavità, ogni dubbio oramai svaniva. Paolo pensava ad Elena, Paolo l’amava, e intensamente e profondamente e si squarciava il seno per mostrarle piaghe intime che ella non pensava neanche potessero esistere nel cuore di lui.
Uno stupore grande di tutto ciò, di sè stessa, di ciò che provava, la prese. La figura di Paolo le apparve grande, luminosa e delicata, ma si rattristò di nuovo profondamente, pensando che non poteva corrispondere all’amore di questo uomo, che pur l’attirava così soavemente a sè. Non poteva, non poteva amarlo!
Era una cosa impossibile, ed egli stesso se ne accorgeva, perchè non cercava l’amore di lei, ma il solo suo affetto.
Tutta la sera fu pallida e distratta; cercò il buio, le stelle, il mistero della notte fragrante: vagò nel giardino e il profumo delle rose la colpì vivamente, confondendosi, in una inesplicabile sensazione, coi suoi stessi sentimenti.
Tardò ad addormentarsi; sentiva una gioia grande e intensa, ma in fondo all’anima provava un’angoscia dolce e struggente, e questi due sentimenti confusi insieme le davano come uno stordimento febbrile e inebbriante.
Pensava: — Io gli vorrò sempre bene, non lo dimenticherò mai — e come sarebbe possibile? — ma non potrò mai amarlo, mai!
E parevale d’esser serena pensando così, ma intanto aveva paura di amarlo, perchè si sentiva a poco a poco vincere da un fascino ineffabile. L’idea di appoggiar la testa sul cuore di lui, com’egli desiderava, e sollevar gli occhi verso i suoi, le dava un’impressione così ineffabilmente dolce da farla piangere; ed ella si abbandonava al sogno, pur dicendo di non poterlo amar mai. E tardò a scrivergli.
I giorni scorrevano: sempre ella provava una smania di scriver, di gettar sulla carta, con la sua scritturina esile e irregolare, col suo stile fantasioso di ragazza meridionale intelligente, tutto il suo cuore, che fremeva e tremava nell’avvolgente e inesplicabile mistero nuovo, ma resisteva e contava i giorni, aspettando il momento beato. Sentiva d’aver trovato già il suo sole, com’egli scriveva, ma non voleva lasciarsi infiammare, perchè l’unione loro le sembrava più che mai impossibile. Questo pregiudizio la rattristava grandemente, ma la convinceva tutta.
Di sera restava lunghe ore davanti alla finestra, davanti alle nuvole lunghe, color di rame o turchine, che venivano dissolvendosi dall’occidente, e una tristezza, un desiderio di cose ignote, confuse, la vinceva. Non si confessava ch’era il desiderio di trovarsi vicina a Paolo, di nascondergli il viso sul cuore e di piangervi sopra. Ma quando finalmente vinta gli scrisse, pianse davvero, dolcemente.
La lettera doveva esser vibrante dei suoi sentimenti, perchè la risposta, questa volta attesa con ansia confessata, giunse prestissimo.
Non più con turbamento, ma con cuore tremante e viso smorto Elena lesse:
«Oh no, Elena, non è più possibile che io mi distacchi da lei, mio piccolo gran sole, che viene ad illuminare l’anima mia!
«Parli sempre così, e l’onda delle sue sante parole mi darà, rinfrescandomi, ogni fede e coraggio. Io non le chiedo altro se non di proseguire. So che non è chieder poco; perchè so chi ella è, e sento tutte le poetiche vibrazioni dell’anima sua. Sia amica così, fino all’ultimo. Ella mi rasserena la fronte, ella dirada la tenebra dell’orizzonte mio, che spesso si oscura.»
«....Se ella seguita a parlarmi così, io avrò un coraggio da leone per ogni cosa buona e bella. Niente mai mi sarà più dolce che l’intrattenermi con lei, e a lei sola confidare tutta l’anima mia.
«Ma perchè ha messo tanto tempo a rispondermi? È vero che poi mi ha ben compensato con una lettera piena di adorabile freschezza primaverile. Oh, questo soffio soave arrivi frequente all’anima mia stanca. Ella ridesta con le sue parole e col suo affetto ogni virtù che in me languiva.»
«....Quando ora penso, fra il tumulto d’una vita occupatissima, ma poco geniale, che esiste lontano una creatura nel pensiero della quale io son vivo, che questa gentile viene talora a me come un fiore delicato e profumato, per darmi le ebbrezze d’una amicizia pura e rigeneratrice, quando sento, Elena, l’anima sua candida e bella passar nella mia ed esaltarla, mi domando se rinasco, e comincio a credere che la sorte si sia placata con me e che Dio voglia, per l’estremo mio viaggio, concedermi un po’ di bene. Allora vorrei trillare un alto inno di gioia negli spazi azzurri, gettarmi di nuovo, come da bambino, sui prati fioriti, per baciar ad una ad una le margheritine, salir con lei, Elena, sui monti, e respirar con lei, accanto a lei, l’aria libera e pura, e ritornar una volta poeta, come anch’io lo fui, per cantare a lei sola l’ultima mia canzone. Ella è per me la poesia dolce, viva e sorridente, che il contatto della realtà potrebbe guastare. Oh, venga, venga spesso a me, anzi mi rapisca. mi porti via da questo mondo uggioso, pieno d’artifizi e di menzogne; mi faccia simile a lei, mi ridoni la serenità della mia fanciullezza; io vorrei rifarmi piccino accanto a lei e trovar le mie parole più dolci per sburrargliele. Oh, Elena, se sapesse il bene che mi fa!
«Di me non dubiti mai; io non so voler bene a mezzo a per poco; mi chiami con quel nome che più le piace, ma senta che io le ho data la miglior parte di me; nei suoi lavori, nelle sue passeggiate, nei suoi sogni, pensi ch’io veglio accanto a lei, sempre, e che, finch’ella mi vorrà, non la lascerò più. Ed ora devo osare di dirglielo? Incomincia a diventarmi ingrato questo lei cerimonioso, che vorrebbe impedire ogni intimità, e sarei tentato a parlarle come si parlano fra loro i poeti; ma se ella non incomincia, io non principierò mai. Qualunque sia il modo con cui le piacerà che si parlino le anime nostre, mi senta in lei come desidero sentirla in me, e vivere della sua vita, suo, tutto, tutto, e per sempre.
«Paolo.»
Ella chinò il volto sulla lettera e pensò a lungo. Oramai tutti i suoi pensieri, rivolti a Paolo, erano d’una infinita e ineffabile dolcezza: quest’ultima lettera suggellò il cerchio fatato che la circondava, e velò la realtà con un pulviscolo roseo e fragrante di sogni.
Mai si era sentita così felice; Paolo le sembrava l’uomo più nobile, buono e perfetto della terra, e l’esser amata da un tal uomo le sembrava la grazia più alta e soave della vita.
Rispose subito, dandogli del tu, come egli desiderava; le sembrò una cosa naturalissima, e semplicissime le parvero le cose che scrisse soavemente sul piccolo foglio giallo levigato, che esalava un lieve aroma di rose fresche.
E tutto il giorno, e la notte e l’indomani continuò nei suoi dolci pensieri: le pareva d’esser diventata più alta, più sottile e delicata; non camminava più, sorvolava, passava lieve come un sogno sopra ogni cosa. I suoi pensieri diventavano tutta grazia e gentilezza; era impossibile che d’ora innanzi si fermassero sopra cose volgari, e che nessuna piccolezza potesse toccarla.
Ma un’altra lettera, giunta all’improvviso due giorni dopo, la turbò, richiamandola bruscamente alla realtà.
Paolo le diceva di non meravigliarsi se le scriveva ancora, prima d’aver ricevuto risposta alla sua ultima. Era il suo compleanno, e trovandosi solo aveva pensato ai suoi cari lontani.
«....e siccome fra le creature più care, Dio solo sa come e perchè, ella ha preso un posto eminente, ecco perchè a lei ritorno, come ape al miele, prima della chiamata.»
Fin qui andava bene; andava male più giù, dove, in un abbandono a ricordi del passato, si accennava a una estinta passione. Ei diceva di aver qualche anno prima sofferto molto per dolori d’ogni sorta, tanto che spesso gli avea sorriso il pensiero della morte.
«....ma non morii, perchè una donna pregò con amore per me, perchè la speranza d’aver trovato un’anima poetica sulla mia via mi sostenne, perchè vagheggiai un sogno, ora pur troppo disperso, che bastò a reggermi nella lotta dolorosa di quegli anni.»
«....Le dissi che il mio sogno è svanito; non per mia colpa; la donna che pregava m’è ancor sacra nella memoria, ma essa stessa ha distrutto l’idolo. La benedico ancora per il bene che mi fece, ma non la vedo più, e ogni relazione è rotta fra noi.
«Ma di questa e di altre brevi illusioni io le dirò un altro giorno, quando la confidenza sarà più intima. Già prevedo però quello ch’ella vorrà dirmi: «Anche di me forse s’illude, e dopo avermi sollevata molto in alto mi lascerà cader dalla memoria.» No, Elena, se ella non lo vorrà! Negli affetti io cerco quel che dò, il pieno abbandono, la sincerità perfetta. Ogni dissimulazione mi raffredda e mi impaura. Di me non nascondo nulla, e nell’anima che ravvolge la mia cerco la luce chiara; ogni ombra mi turba. La Psiche deve aver libero volo, e sprofondarsi nel cielo azzurro come negli abissi, impavida e sicura; le piccole e grandi bugie, i sotterfugi, le malizie, l’opinione del volgo, i pregiudizi mi offendono quando due anime benedette da Dio s’incontrano.
«Ma io, ripeto, nacqui troppo presto per lei; ora non posso sognarla altrimenti che come una fata lieve, aerea, fantastica, invisibile, destinata ad altri, ma che intese la mia voce e si fermò, gentile e pietosa, per un istante ad ascoltarmi. È così, Elena, parli, parli, ma parli senza fine!»
Sì, tutto ciò era dolce e grande, ma l’accenno alla donna amata e dimenticata, distruggeva il sogno d’Elena, dandole un brusco senso della realtà. Non le era mai venuta l’idea precisa che Paolo avesse amato altre donne fortemente e grandemente: egli stesso glielo aveva lasciato intendere. Ed era forse il pensiero di possedere intero il suo cuore, per il passato, il presente e l’avvenire, che la lusingava, dandole un’immagine grandiosa di lui. Ora questa figura diminuiva, tornava alle proporzioni naturali, ed ella ne soffriva, e il dubbio temuto da Paolo la investiva:
— Mi dimenticherà come le altre!
E si sentiva gelosa di quest’amore lontano e svanito, di questa donna orante ed amata; le parve che il suo fantasma s’interponesse, impedisse la perfetta corrispondenza delle anime loro.
Con un senso di freddezza altera e sdegnosa si pentì d’aver dato del tu a Paolo, e più che mai credè di non poterlo amare. Non pensò neppure di rispondere all’ultima lettera, anzi, poichè le dava una sensazione spiacevole e dolorosa, la nascose senza rileggerla. Così passò tristemente il resto della settimana.
Ogni notte Cosimo e la sposa venivano da donna Francesca. Peppina aveva smesso un po’ del suo rigido contegno, però Elena non riusciva ancora a indovinarne il carattere ed i pensieri. Era o no una sposa felice? Amava o no suo marito e la sua nuova famiglia? Non era facile indovinarlo. Parlava sempre di cose frivole o di pettegolezzi, dimostrandosi ignorante e maligna, difetti che Elena le aveva già scoperti da molto tempo.
Fin dai primi tempi dopo le nozze, Cosimo aveva dimostrato la sua avversione per la suocera; non andava mai a trovarla, e pretendeva anzi che Peppina si recasse di rado in casa sua. Di qui cominciarono i malumori. Una sera egli incontrò un cliente per via, ma tornando a casa trovò la porta chiusa, la padrona e la domestica assenti, e fece una bruttissima figura. Si recò infuriato dalla suocera, e chiese di mala maniera la chiave a Peppina.
— Non l’ho. L’avrà la domestica, che si sarà recata alla fontana....
— Ah, bel modo questo di governar la casa! — scappò detto a Cosimo. — La casa d’un avvocato deve restar sempre aperta! Voglio che la mia porta sia sempre aperta.
Siccome vociava, la suocera si scandolezzò, volle rabbonirlo, ma egli scappò via pensando: — Ah diavolo! Vorrei che mia moglie restasse un po’ a casa! — Un po’ inquieta Peppina ritornò subito, ed egli continuò le sue proteste.
— Puoi alla fine abituarti a star lontana dalle gonnelle di tua madre: puoi almeno far restar a casa la domestica! Oggi io ho fatto una cattiva figura.... avrei pagato non so che per evitarla!
Per un poco ella lo lasciò dire, ma ad un certo punto scattò:
— E tu non sei sempre da tua madre? Ci vai persino quattro volte al giorno!
Cosimo strinse i denti per la stizza, ma non rispose: se la prese invece con la domestica, e quasi quasi la mandava fuori a pedate.
E Peppina, che sotto l’epidermide bianca e tranquilla celava il mistero di una bile raffinatissima, quella notte non volle andar dalla suocera, ma si mise presto a letto. Cosimo allora restò fuori fino alla mezzanotte: ella ne pianse di dispetto, e l’indomani non volle levarsi, fingendosi sofferente; i due sposini rifecero la pace. Ma la luna di miele ormai era rotta e tramontata.
Peppina continuò a recarsi ogni giorno dalla madre, trascurando le cure della sua casa nascente, e Cosimo sentì crescere l’antipatia per la suocera e per il suocero — uomo bravo, ma buono soltanto a compiere i suoi doveri d’ufficio ed a lasciarsi dominare dalla moglie — sembrandogli che la sua sposa sentisse più attaccamento per loro che per lui. Ella, urtata, cominciò a sua volta a non voler bene alla suocera e alle cognatine; non voleva più recarsi da loro.
E Cosimo, guai a toccargli la madre e le sorelle: di qui cominciavano i litigi — assai presto, pur troppo! — avvalorati poi da altre ragioni più serie e profonde.
Cosimo cadeva in tremendi malumori; più che mai trascurava i suoi pochi affari e riprendeva la vita scorretta menata da scapolo. Non ricordava più Maria e la fugace passione provata per lei, ma qualche volta quando i modi di sua moglie lo rendevano infelice, fra i torbidi pensieri tornava ad apparirgli con dolci sfumature la visione luminosa intraveduta l’ultima notte di carnevale, fra la divina musica di Gounod.
Non si sentiva felice. Amava certo Peppina, bella e sana, ma le anime loro non s’incontravano, non si fondevano; e siccome egli provava talvolta anche raffinati bisogni spirituali, si sentiva incompreso, deluso e triste. L’urtava l’ignoranza e la volgarità di sua moglie; persino la sua eleganza gli sembrava una vuota e piccola volgarità.
Le Bancu sapevano di questi dissapori, e mentre donna Francesca faceva il possibile per spegnere questi piccoli fuochi, Elena e Giovanna ne soffrivano assai.
— Ma che sapete voi! — diceva la madre per confortarle. — Voi non conoscete il mondo. Altro che di questi fuochi di paglia si accendono fra mariti e mogli!
Elena pensava che fra gli sposi di animo delicato, che veramente s’amano, devono regnar la concordia, la stima e la pace; e soffriva assai perchè i suoi presentimenti cominciavano ad avverarsi, pur troppo! e avrebbe fatto qualche sacrifizio per veder Cosimo col viso meno scuro.
Però, fra questi dispiaceri, sapeva ormai dove rifugiarsi: bastava che il suo pensiero prendesse una data via perchè una incantata beatitudine le piovesse sull’anima, e i fastidi, i presentimenti, i crucci, s’allontanassero e sfumassero, come svanivano le altre cose fastidiose o pesanti, davanti alla luce che le irradiava tutta l’anima.
In una notte di maggio le giunsero due lettere di Paolo, attese contemporaneamente per il desiderio di veder presto svanito il sentimento di gelosia e freddezza causatole dalle ultime confidenze di lui.
Le finestre erano aperte, la notte scendeva meravigliosa. Ad occidente splendeva ancora una fascia glauca, nelle cui alte sfumature Venere purissima brillava come una perla. L’aria olezzava di rose e di fieno fresco e mille confusi e lieti rumori morivano nella grande quiete dell’estremo crepuscolo occidentale. Elena aprì le lettere e cominciò a leggere quella che le parve scritta prima. Paolo le dava del tu. Una commozione violenta la prese; cominciò a tremar tutta, e gli occhi le si velarono di lagrime ineffabili: tutto, tutto svaniva davanti a quelle lagrime; anche la donna che pregava, che tanto l’avea fatta soffrire in quei giorni, anche essa spariva fra lei e Paolo.
Restavano soli: restavano essi soli davanti alla profumata sera di maggio, sotto il gemmeo occhio di Venere, sotto la luce perlata dell’infinito: e le anime loro s’incontravano, si stringevano nell’amplesso divino di un amore perfetto e sovrumano.
«Elena, Elena — scriveva Paolo, ed ella sentiva tremare un poema di lagrime, di baci, di carezze, di parole, di poesia e musica celestiale — grazie, grazie, grazie, mia grazia infinita! Se tu sapessi, se tu sentissi qual tuffo di gioia ho provato oggi aprendo la tua lettera e vedendoti venire a me libera, intera, sorridente e serena!...
«Tu mi hai scritto il giorno stesso del mio compleanno; sentivi forse che l’anima mia volava a te e ti avvolgeva in una carezza immensa?
«Elena, non t’offendano mai le volgarità della vita. Levandoci su, correndo dietro ai nostri affetti, ai nostri alti sogni, alle nostre profonde visioni, non sentiremo più nulla di ciò che ne opprime e molesta. Ma quando alcun peso della vita t’aggraverà, non celarmelo, e non temere che la tua sofferenza mi allontani da te; no, io vorrò far miei tutti i tuoi pensieri, per divider teco la tua gioia e raddolcire col mio affetto i tuoi dolori.
«....Ecco, ora, caduto il lei cerimonioso, ora mi sento più tuo, come ti sento più mia. Ora le anime nostre possono parlarsi il linguaggio naturale, confidarsi tutto.
«Oh, la gioconda primavera che tu m’hai concesso! Oh, il glorioso rinascere che tu mi hai dato! Elena mia soavissima, continua a parlare così: io chiudo gli occhi e t’ascolto. Che musica è nelle tue parole! Quanta luce, quanto profumo! E se tu sapessi che dolcezza provo nel mormorare il tuo nome!
«....No, non temere mai di me. Io voglio saper prima com’è fatta l’anima della creatura a cui voglio appartenere: quando lo so, la mia adorazione non teme esperimenti....»
Così in un crescendo meraviglioso di espressioni appassionatamente delicate, proseguiva la prima lettera, ma nella seconda fremeva qualcosa di più vivo e tumultuoso. Era scritta a mezzanotte; si vedeva bene che egli non aveva riposato, ma che pensando ad Elena continuamente, non trovava riposo che nel ritornare a lei.
«....È inutile; non resisto; sento il fascino e torno a te con desiderio ineffabile. Perchè? Come? Qual filtro mi hai dato? Perchè la tua voce mi chiama così? Perchè gli occhi tuoi profondi mi cercano così lontano? Eccomi dunque ben vicino a te!
«....la mia vita vorrebbe avvolgerti tutta in una sola, grande, divina, immortale carezza. Ma poichè sono pur troppo un essere mortale, molto imperfetto, tutti i miei voti non possono far nulla per la tua felicità; ma se tu sapessi immaginar cosa che mi fosse possibile e che ti facesse piacere, dovresti mettermi alla prova, anche del fuoco.
«L’anima mia, ricoverata nella tua, potrà alzarsi ad un volo potente. Accoglimi.»
La lettera terminava così:
«Dammi le tue mani, e portale alla mia fronte, e lascia ch’io ti miri profondamente, intensamente: quando ti parrà ch’io ti guardi troppo, tu chiudi gli occhi miei, come io vorrei chiudere i tuoi perchè non veggano il mio turbamento.
«E ora come devo fare? Innanzi alle Madonne bisognerebbe mettersi in ginocchio; perchè dunque, Elena, oso chiuderti fra le mie braccia e coprirti gli occhi di baci infiniti? L’anima mia è già passata nella tua e si sente beata di rimanere in te!»
Dopo aver letto, ella non potè nè ridere nè piangere, ma tutta l’anima le brillò negli occhi profondi, che si allargarono ineffabilmente: provava una sensazione indicibile; gioia e angoscia, desiderio e preghiera, mistero profondo e radioso che scendeva dall’infinito e all’infinito risaliva. Tutte le stelle che cominciavano a tremare in cielo, purissime e splendenti come lagrime di diamante, incoronavano la sua fronte; tutti i profumi del maggio fresco, della terra fiorente, odoravano, divini aromi della vita e dell'amore, nel suo cuore. Ciò che fece nel resto della sera, non lo ricordò poi che come in un sogno.
Vagò nel giardinetto, nascose il viso fra le rose, e il suo respiro narrò alle rose che nelle lor foglie, nel loro acuto profumo, ritrovava una sbiadita impressione dei baci che il suo lontano amico le mandava.
Ma era troppo piccolo il giardinetto, dove il vezzoso e Innamorato Lyly correva pazzamente, mettendosi in agguato davanti alla sua signora e attraversandole il passo con salti meravigliosi, per richiamare, ma invano, la sua attenzione.
Ella avrebbe voluto percorrere campi vasti come il cielo, e andare.... andare... fino a lui, che pur le era così vicino, che con la brezza le copriva il volto d’ineffabili baci.
E si sentiva leggera come la brezza, si sentiva alta fino alle stelle, e sottile e delicata come lo stelo dei fiori. Un’anima invisibile, che solo l’anima sua vedeva, impalpabile così che solo l’anima sua poteva toccarla, la seguiva, l’avvolgeva in un nodo forte che più nessuna cosa poteva sciogliere, e la trasportava ad altezze immense.
A lungo, a lungo, nella notte vegliò: e l’ebbrezza misteriosa cresceva con lo splendore delle stelle, con la intensità rorida delle fragranze notturne. Ogni cosa ed ogni avvenimento, il passato, il presente e l’avvenire svanivano: restava soltanto l’ora, l’attimo fuggente, che valeva per secoli. Se Paolo fosse stato vicino nella realtà, come ella lo sentiva nel sogno, il gaudio non sarebbe stato più pieno e sovrumano di così.
Più che il sonno, la vinse a notte alta una specie di incantesimo dolcissimo e profondo. Solo allora, vinto dall’incanto, il cuore finalmente confessò a sè stesso il suo mistero.
Disse tremando:
— L’amo!
Da gli occhi socchiusi della spirituale creatura scesero allora due lagrime; ma egli era sempre vicino, e furono le sue labbra di mago che asciugarono le due lagrime e chiusero gli occhi sognanti.