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ed al vento, stretta dalle canne d’oro, la cui rustica eleganza accresceva poesia al luogo.

Era una poesia, una frescura, una pace infinita. Sul davanti la casa tranquilla e silenziosa guardava colle sue finestre lunghe, così piene di pace e di dolcezza, nell’ombra dei pomeriggi sereni; al di là dei muri si scorgevano altri orti, poi i campi; all’est l’orizzonte si chiudeva con le dilette montagne dell’Orthobene, al sud Elena vedeva i campanili della cattedrale rifulgere rossi nel tramonto, e fra l’uno e l’altro scorgeva la verde collinetta di Sant’Onofrio, sfumata nel cielo sereno.

Nel giardinetto ella si chinava soltanto per cogliere qualche fiore; non s’occupava nè coltivava nulla, eppure conosceva ogni foglia, ogni ramo, ogni pietra dei muri, e tutto amava, e ad ogni foglia, ad ogni fiore si sentiva misteriosamente legata. I suoi sogni e le sue fantasie erano tutte lì, in quell’orizzonte, in quello spazio; erano nel cielo, nell’aria, negli alberi, nella facciata della casa, nei piccoli viali silenziosi, nelle canne sulle cui punte violacee posavano irrequiete le allodole e le rondini, cantando al cielo le fresche ballate primaverili ed autunnali.

Una sera che Giovanna e donna Francesca erano da Peppina, ella, mentre vagava sul davanti del giardinetto, sentì picchiar forte alla porta, e siccome la domestica non usciva, corse ella stessa ad aprire. Era il portalettere che le