Il ritorno dalla villeggiatura/Atto I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Personaggi | Atto II | ► |
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Leonardo.
Leonardo, poi Cecco.
Leonardo. Tre giorni ch’io son tornato in Livorno, e la signora Giacinta e il signor Filippo non si veggono. Mi hanno promesso, s’io non ritornava subito a Montenero, che sarebbero qui rivenuti bentosto, e non vengono, e non mi scrivono, e ho loro scritto, e non mi rispondono. La mia lettera l’avranno ricevuta ieri. Oggi dovrei aver la risposta. Ma l’ora è passata; dovrei averia già avuta. Se non iscrivono, probabilmente verranno.
Cecco. Signore.
Leonardo. Che cosa c’è?
Cecco. È domandato.
Leonardo. E da chi?
Cecco. È un giovane che ha una polizza in mano. Credo sia il giovane del droghiere.
Leonardo. Perchè non dirgli ch’io non ci sono?
Cecco. Gliel’ho detto ieri e l’altr’ieri, com’ella mi ha comandato: ma vedendolo venire tre o quattro volte il giorno, è meglio ch’ella lo riceva, e lo spicci poi come vuole.
Leonardo. Va, digli che ho dato ordine a Paolino che saldi il conto. Che aspettasi a momenti da Montenero, e subito che sarà ritornato, lo salderà.
Cecco. Sì, signore. (parte)
Leonardo. Ah! le cose mie vanno sempre di male in peggio. Quest’anno poi la villeggiatura mi è costata ancor più del solito.
Cecco. Signore, è qui quello della cera.
Leonardo. Ma bestia, perchè non dirgli che non ci sono?
Cecco. Ho detto (secondo il solito): vedrò se c’è, non so se ci sia; ed egli ha detto: se non c’è, ho ordine di aspettarlo qui fin che torna.
Leonardo. Questa è un’impertinenza. Digli che lasci il conto che manderò al negozio a pagarlo.
Cecco. Benissimo, glielo dirò. (parte)
Leonardo. Pare che costoro non abbiano altro che fare; pare che non abbiano pan da mangiare. Sono sempre coll’arco teso a ferire il cuore de’ galantuomini che non hanno con che pagare.
Cecco. Anche questi se n’è andato poco contento, ma se n’è andato. Ecco il conto. (dà il conto a Leonardo)
Leonardo. Sieno maledetti i conti. (straccia il conio)
Cecco. (Conto stracciato, debito saldato).
Leonardo. Va un po’ a vedere dal signor Filippo, se fossero per avventura arrivati.
Cecco. La servo subito. (parte)
Leonardo. Sono impazientissimo. In primo luogo per l’amore ch’io porto a quell’ingrata, a quella barbara di Giacinta; secondariamente, nello stato in cui sono, l’unico mio risorgimento potrebbe essere la sua dote.
Cecco. Signore....
Leonardo. Spicciati; perchè non vai dove ti ho mandato?
Cecco. Vi è un’altra novità, signore.
Leonardo. E che cosa c’è?
Cecco. Osservi. Una citazione.
Leonardo. Io non so niente di citazioni. Io non accetto le citazioni: che la portino al mio procuratore.
Cecco. Il procuratore non è in città.
Leonardo. E dov’è andato?
Cecco. È andato in villeggiatura.
Leonardo. Cospetto! anche il mio procuratore in villeggiatura? Abbandona anch’egli per il divertimento gl’interessi propri e quelli de’ suoi clienti! Io lo pago, gli do il salario, lascio di pagare ogni altro per pagar lui, fidandomi ch’ei m’assista, ch’ei mi difenda; e quando preme, non c’è, non si trova, è in villeggiatura? A me una citazione? Dov’è il messo che l’ha portata?
Cecco. Oh! il messo è partito. L’ha consegnata a me; ha notato nel suo libretto il mio nome, ed è immediatamente partito.
Leonardo. Io non so che mi fare, aspetterò che torni il procuratore. Orsù, affrettati. Va a vedere se son tornati.
Cecco. Vado immediatamente. (parte)
Leonardo. Sempre guai, sempre citazioni, sempre ricorsi. Ma giusto cielo! s’io non ne ho. E mi vogliono tormentare, e vogliono obbligarmi a quel ch’io non posso fare. Abbiano un po’ di pazienza, li pagherò. Se sarò in istato di poterli pagare, li pagherò.
Cecco. Signore, nello scendere le scale ho incontrato appunto il servitore del signor Filippo, che veniva per dar parte a lei ed alla signora Vittoria che sono ritornati a Livorno.
Leonardo. Fallo venire innanzi.
Cecco. È partito subito. Mi ha fatto vedere una lista di trentasette case, alle quali prima del mezzogiorno ha da partecipare L’arrivo loro.
Leonardo. Portami il cappello e la spada.
Cecco. Sì, signore. (parte)
Leonardo. Sono impazientissimo di riveder Giacinta. Chi sa qual accoglimento mi farà ella in Livorno, dopo le cose corse in campagna? Guglielmo tuttavia differisce a far la scritta con mia sorella. Sono in un mare d’agitazioni, e di più mi affliggono i debiti, mi tormentano i creditori.
Cecco. Eccola servita. (gli dà la spada e il cappello)
Leonardo. Guarda se c’è nessuno in sala, o per le scale, o in terreno.
Cecco. Sì, signore. (parie)
Leonardo. Ho sempre timore d’incontrar qualcheduno che mi faccia arrossire. Converrà, per andare dal signor Filippo, che allunghi la strada il doppio, per non passare dalle botteghe de’ creditori.
Cecco. Signore, vi sono due che l’aspettano.
Leonardo. M’aspettano? Sanno eglino ch’io ci sono?
Cecco. Lo sanno, perchè quello sciocco di Berto ha detto loro che c’è.
Leonardo. E chi sono costoro?
Cecco. Il sarto e il calzolaio.
Leonardo. Licenziali; fa che vadano via.
Cecco. E che cosa vuole ch’io loro dica?
Leonardo. Di’ tutto quello che vuoi.
Cecco. Non potrebbe dar loro qualche cosa a conto?
Leonardo. Mandali via, ti dico.
Cecco. Signore, è impossibile. Costoro me l’hanno fatta dell’altre volte. Sono capaci di star qui fino a sera.
Leonardo. Hai tu le chiavi della porticina segreta?
Cecco. Sono sulla porta, signore.
Leonardo. Bene; andrò per di là.
Cecco. Badi che la scala è oscura, è precipitosa.
Leonardo. Non importa; voglio andar via per di là.
Cecco. Sarà piena di ragnatele, si sporcherà il vestito.
Leonardo. Poco male; non preme. (in atto di partire)
Cecco. E vuol che stieno colà ad aspettare?
Leonardo. Sì, che aspettino fin che il diavolo se li porti. (parte)
SCENA II.
Cecco, poi Vittoria.
Cecco. Ecco i deliziosi frutti della bella villeggiatura.
Vittoria. Dov’è mio fratello?
Cecco. Non c’è, è andato via. (piano)
Vittoria. Perchè lo dici piano, che è andato via?
Cecco. Perchè non sentino1 certe persone che sono in sala.
Vittoria. Se sono in sala, l’avranno veduto a partirsi.
Cecco. Non signora, è andato per la porta segreta.
Vittoria. Questa mi pare una scioccheria, un’increanza. Ha delle visite in sala, e va via senza riceverle, e senza almen congedarle? Se sono persone di garbo, le riceverò io.
Cecco. Le vuol ricever ella, signora?
Vittoria. Sì! chi son eglino?
Cecco. Il sarto ed il calzolaro.
Vittoria. Di chi?
Cecco. Del padrone.
Vittoria. E che cosa vogliono?
Cecco. Niente altro che ricevere il saldo de’ loro conti.
Vittoria. E perchè mio fratello non li ha soddisfate?
Cecco. Io credo ch’egli presentemente non si ritrovi in grado di farlo.
Vittoria. (Poveri noi!) Bada bene, non lo dir a nessuno; procura anzi che non si sappia. Vedi di mandar via quella gente con delle buone parole, che non s’abbiano a lamentare e che non facciano perdere la riputazione alla casa. Mio fratello non la vuol intendere, che quando si ha da dare, bisogna pagare o pregare.
Cecco. (Parla assai bene la mia padrona. Ma anch’ella non opera come parla).
Vittoria. E dove è andato il signor Leonardo?
Cecco. A far visita alla signora Giacinta.
Vittoria. È ritornata?
Cecco. Sì, signora.
Vittoria. Quando?
Cecco. Questa mattina.
Vittoria. Ed a me non ha mandato a dir niente? (con isdegno)
Cecco. Sì, signora. Ha mandato il servitore coll’imbasciata per il padrone e per lei.
Vittoria. E perchè non dirmelo?
Cecco. Perdoni. Sono mezzo stordito. S’ella sapesse quanti imbrogli ci sono stati questa mattina.
Vittoria. Mi pareva impossibile che avesse trascurato di far con me il suo dovere.
Cecco. Sento dello strepito in sala. Con sua licenza.
Vittoria. Cacciate via quei bricconi.
Cecco. (Eh! già, ci s’intende. I poveri operai, quando domandano il sangue loro, sono tutti bricconi). (parte)
Vittoria. Converrà ch’io vada a farle una visita. Come ultima ritornata, converrà ch’io sia la prima a complimentarla. Vi anderò, ma vi anderò di malanimo. Non l’ho mai potuta soffrire; ma ora poi, dopo le coserelle che nate sono in villeggiatura, quando mi viene in mente, mi si rimescola tutto il sangue. Guglielmo non ha ancora voluto firmar la scritta. Pochissimo si lascia da me vedere; sono in una agitazione grandissima.
Cecco. Signora, è venuto il signor Fulgenzio. Ha domandato del padrone; gli ho detto che non c’è, ed ei lo vorrebbe aspettare. Se ella lo volesse ricevere....
Vittoria. Sì, sì, venga pure. Sono andati via coloro?
Cecco. Parlano col signor Fulgenzio. (parte)
Vittoria. Ho piacere di parlare con questo vecchio, che ci ha fatto perdere sul più bello il piacere della campagna.
SCENA III.
Fulgenzio e la suddetta.
Fulgenzio. (Povera casa! In che stato sei tu ridotta!)
Vittoria. Bravo, bravo, signor Fulgenzio.
Fulgenzio. Servitor suo, signora Vittoria.
Vittoria. Che voglia è venuta a vossignoria di scrivere a mio fratello che nostro zio stava mal per morire, per farci venire a Livorno a rotta di collo?
Fulgenzio. Io, dacchè siete di qua partiti, non ho scritto una riga a vostro fratello; e vostro zio sta benissimo di salute, ed io in tal proposito non so quello che vi diciate.
Vittoria. Ma la lettera l’ho veduta io.
Fulgenzio. Che lettera avete veduto?
Vittoria. Quella che fu scritta da voi.
Fulgenzio. A chi?
Vittoria. A mio fratello.
Fulgenzio. Signora, io dubito che ve lo abbiate sognato.
Vittoria. Come sognato, se siamo corsi a Livorno per essere a tempo, pria che spirasse lo zio?
Fulgenzio. E chi vi ha detto questa bestialità?
Vittoria. La vostra lettera.
Fulgenzio. Cospetto! voi mi fareste uscire de’ gangheri. Vi dico ch’io non l’ho scritta, e non poteva ciò scrivere, e non l’ho scritta. (con isdegno)
Vittoria. Ma che può essere dunque questa faccenda?
Fulgenzio. Che può essere? Ve lo dirò io: cabale, invenzioni, alzature d’ingegno.
Vittoria. E di chi?
Fulgenzio. Di vostro fratello.
Vittoria. Come di mio fratello?
Fulgenzio. Sì, di lui, che ha menato finora una vita la più pazza, la più disordinata del mondo. Mi era stato detto da qualcheduno che le cose sue andavano per la mala strada; ma non credeva ch’ei fosse giunto a tal segno. Mi pento di essere entrato nell’affare di questo suo matrimonio; di aver colle mie parole accreditato in faccia del signor Filippo un uomo che non merita la sua figliuola.
Vittoria. Signor Fulgenzio, ella è un signore di garbo, le sono obbligata del panegirico che ci ha fatto, e della buona intenzione che ha di precipitar mio fratello.
Fulgenzio. Si è precipitato da sè. Io sono portato per far del bene; ma quando però il bene di uno non rechi danno o disonore ad un altro.
Vittoria. Se foste portato per far del bene, procurereste almeno di liberare ora la nostra casa da questi insolenti, che per poche monete mettono a repentaglio la nostra riputazione.
Fulgenzio. Fin qui ho potuto farlo, e l’ho fatto. In grazia mia si sono tutti partiti. Non ho fatto loro la sicurtà, perchè non sono sì pazzo; ma con delle buone parole mi è riuscito far che si partissero, e sospendessero quella risoluzione che avevano in animo di voler prendere. Ma, signora mia, se non possono essere pagati, non gl’insultate almeno, non dite loro insolenti. Quando vostro fratello ha avuto d’essi bisogno, li ha maltrattati, li ha insultati; oppure con carezze, con parole dolci, con buone grazie ha cercato blandirli, allettarli, per essere servito, e servito bene? Ed ora che vengono per la quinta, sesta o settima volta a chiedere le loro mercedi, e perdono le loro giornate per essere stentatamente pagati, il fratello s’asconde e la sorella gl’insulta? È una ingiustizia, è una ingratitudine, è una tirannia.
Vittoria. A me non serve che facciate di tai sermoni.
Fulgenzio. Sì, lo so benissimo. È un predicare a’ sordi.
Vittoria. Fateli a mio fratello, che ne ha più bisogno di me.
Fulgenzio. E dov’è egli vostro fratello?
Vittoria. É andato a far visita alla signora Giacinta.
Fulgenzio. Sono anch’eglino ritornati? Ho piacere....
Vittoria. Avvertite di non andar colà a far degli strepiti fuor di proposito.
Fulgenzio. Farò tutto quello che crederò dover fare.
Vittoria. Non vi mettete all’azzardo di far disciogliere un contratto di matrimonio, che queste cose non si possono fare.
Fulgenzio. Eh! signora mia.... scusatemi.... Sapete cosa non si dee fare? Spendere più di quel che si può; far debiti per divertirsi; e stancheggiare e vilipendere i creditori. (parte)
SCENA IV.
Vittoria, poi Ferdinando.
Vittoria. Non si può dire ch’ei non dica la verità. Ma quando tocca, dispiace.
Ferdinando. Chi è qui? C’è nessuno? (di dentro)
Vittoria. Oh! il signor Ferdinando. Saprò da lui qualche novità. Venga, venga, signore: ci sono io.
Ferdinando. M’inchino alla signora Vittoria.
Vittoria. Serva sua. Ben tornato.
Ferdinando. Obbligatissimo. Ma non mi credea di dover ritornare sì presto.
Vittoria. Sarete venuto col signor Filippo e colla signora Giacinta.
Ferdinando. Sì, e si è fatto un viaggio così piacevole, che se durava due ore di più, mi veniva la febbre.
Vittoria. E perchè?
Ferdinando. Perchè la signora Giacinta non faceva che sospirare. Il signor Filippo ha dormito da Montenero sino a Livorno. La cameriera piangeva il morto; ed io ho patito una noia infinita.
Vittoria. E che aveva la signora Giacinta che sospirava?
Ferdinando. Aveva, aveva.... delle pazzie per il capo, tante e poi tante, che io ne ho vergogna per parte sua.
Vittoria. Ma in che consistono le sue pazzie?
Ferdinando. Parliamo d’altro. L’avete saputa la nuova?
Vittoria. Di che?
Ferdinando. Di Tognino?
Vittoria. Del figliuolo del signor dottore?
Ferdinando. Sì; è tornato suo padre. Ha saputo che voleva sposare quella ragazza. L’ha cacciato di casa, e non sapeva dove andar a mangiare e a dormire. La signora Costanza, che non vorrebbe che il matrimonio della nipote le costasse un quattrino, si è fatta pregare a riceverlo. Finalmente non ha potuto fare di meno. L’ha messo a dormire col servitore, gli dà la tavola; ma c’è poco da sbattere, ed il ragazzo è di buona bocca. Oggi dicevano di voler venire a Livorno, ed intendono di condur seco loro Tognino e mover lite a suo padre per gli alimenti, farlo sposar la fanciulla, e poi addottorarlo nell’università de’ balordi.
Vittoria. L’istoriella è graziosa, ma non m’interessa gran fatto. Vorrei che mi diceste qualche cosa intorno la melanconia della signora Giacinta.
Ferdinando. Io, compatitemi, non soglio entrare ne’ fatti altrui.
Vittoria. Ci siete entrato tanto, che basta per pormi in sospetto, e siete in obbligo di disingannarmi,
Ferdinando. E di che cosa potete voi sospettare?
Vittoria. Di quello che ho sospettato anche prima di partire da Montenero.
Ferdinando. Io non so che pensaste allora, ne quel che pensiate adesso.
Vittoria. S’ella sospira, avrà qualche cosa che la molesta.
Ferdinando. Naturalmente.
Vittoria. Per mio fratello non crederei ch’ella sospirasse.
Ferdinando. Oh! non mi è mai passato per mente di credere che ella sospirasse per lui.
Vittoria. E per chi dunque?
Ferdinando. Chi sa? Non potrebbe ella sospirare per me? (ridendo)
Vittoria. Eh! no, per voi no; sospirerà forse per qualcun altro.
Ferdinando. A proposito. Ho perduto l’amante. La signora Sabina non mi vuol più. Dopo che le ho parlato di donazione, s’è affrontata, s’è fieramente sdegnata, e non ha più voluto nemmen vedermi; anzi, sentite s’ella è da ridere: per timore di dover venire con me, non ha voluto venire a Livorno. È restata lì a Montenero, e credo che ora si vergogni delle sue ragazzate, e non voglia più venire in città, per non essere posta in ridicolo da tutto il mondo.
Vittoria. E voi avete il merito d’aver fatto si buona opera.
Ferdinando. Io ho inteso di divertirmi, e di divertir la conversazione.
Vittoria. Lodatevi, che avete ragione di farlo. (ironica)
Ferdinando. Non mi pare di aver fatto cosa che meriti di essere criticata. Peggio assai mi parerebbe s’io tenessi a bada due fanciulle da marito, e fingessi d’amarne una, per coprire la mia passion per un’altra.
Vittoria. E dove vanno a battere queste vostre parole?
Ferdinando. Battono nell’aria, e lascio che l’aria le porti dove le vuol portare.
Vittoria. Sono parole le vostre orribili, velenose; parole che mi passano il cuore.
Ferdinando. E che cosa c’entrate voi? Io non le ho dette per voi.
Vittoria. E perchè sospirava la signora Giacinta?
Ferdinando. Domandatelo a lei.
Vittoria. E chi è che tiene a bada due fanciulle?
Ferdinando. Domandatelo a lui.
Vittoria. E chi è questo lui?
Ferdinando. Il signor lui in caso obbliquo, è il signor egli in caso retto. Nominativo hic egli, genitivo hujus di lui. Signora Vittoria, ella mi pare di cattivo umore questa mattina. All’onore di riverirla; vado al caffè, dove mi aspettano i curiosi di sapere le avventure di Montenero. Ho da discorrerne per due settimane. Ho da divertire Livorno. Ho da far ridere mezzo mondo. (parte)
Vittoria. Oh lingua indemoniata! Si può sentire di peggio? Mi ha posto mille pulci nel capo. Ho da gran tempo de’ sospetti, de’ dubbi, de’ batticuori. Costui ha finito di rovinarmi. Ho male in casa,2 vanno mal gl’interessi, sto pessimamente nel cuore. Povera me! Sconto bene il piacere della villeggiatura. Meglio per me ch’io non ci fossi nemmeno andata! (parte)
SCENA V.
Camera in casa di Filippo.
Giacinta e Brigida.
Brigida. Via, via, signora padrona, non pensi tanto. Si diverta, stia allegra. Avverta bene, che la melanconia fa de’ brutti scherzi.
Giacinta. A me non pare presentemente di essere melanconica, anzi sono così contenta, che non mi cambierei con una regina. Dopo che non vedo colui, mi pare di essere rinata. Sto così bene, che non sono mai stata meglio.
Brigida. Perdoni, non vorrei equivocare; per colui chi intende ella dire?
Giacinta. Che sciocca difficoltà di capirmi! Non si sa, che quando dico colui, m’intendo di dire di Guglielmo?3
Brigida. (Io tremava che dicesse colui allo sposo).
Giacinta. Non ho ragione di parlar di lui con disprezzo, con astio, con villania? Potea far peggio di quel che ha fatto? Tirarmi giù a tal segno? Innamorarmi sì pazzamente? Che vita miserabile non ho io menato per causa sua? Che spasimi, che timori non mi ha egli fatto provare? Non ho goduto un’ora di bene. Ha principiato a insidiarmi sino dal primo giorno. Ah! con qual arte si è egli insinuato nell’animo mio, nel mio cuore! Che artifiziose parole! Che sguardi languidi traditori! Che studiate attenzioni! E come sapea trovare i momenti per esser meco a quattr’occhi, e che soavi termini sapeva egli trovare, e con che grazia li pronunciava! (con passione)
Brigida. (Oh! non ci pensa più, me n’accorgo). (ironica)
Giacinta. Basta, grazie al cielo me ne son liberata. Parmi di avere avuto una malattia, ed essere perfettamente guarita.
Brigida. Perdoni, mi pare che vi sia un poco di convalescenza.
Giacinta. No, t’inganni. Sono sana, sanissima, com’era prima. Ora tutti i miei pensieri sono occupati all’allestimento che si ha da fare per le mie nozze. Per quello che tocca a fare per mio padre, ho già pensato quello ch’io voglio ch’egli mi faccia. Per quello poi che appartiene allo sposo, io non voglio assolutamente che il signor Leonardo si riporti alla di lui sorella. Non voglio che diasi a lei l’incombenza di porre in ordine il mio vestiario; prima non le conviene, perchè è fanciulla, e poi è di cattivo gusto. Si veste male per sè, e son sicura che sarebbe peggio per me. Ecco tutti i pensieri che mi occupano di presente; io non ho altro in testa che abiti, guarnizioni, gioie, pizzi di Fiandra, pizzi d’aria, fornimenti di bionda, scarpe, cuffie, ventagli. Questo è quanto m’interessa presentemente, e non penso ad altro. (forzandosi di mostrare intrepidezza)
Brigida. E fra tanti pensieri non le passa per mente un po’ di amore, un po’ di bene allo sposo?
Giacinta. Io spero d’amarlo un giorno teneramente. Ho sentito dire che tanti che si sono sposati per amore, si sono prestissimo annoiati e pentiti; e che altri che l’hanno fatto per impegno, per rassegnazione semplice, e con poco amore, si sono poi innamorati col tempo, e sono stati bene insino alla morte.
Brigida. Certo, signora, ella non correrà pericolo d’annoiarsi per averlo troppo amato finora. Prego il cielo che la virtù del legame operi meglio per l’avvenire.
Giacinta. Sì, così ha da essere, e così sarà. Io prendo il signor Leonardo come un marito che mi è stato destinato dal cielo, che mi è dato dal padre. So ch’io devo rispettarlo ed amarlo. Circa al rispetto, farò il mio dovere; e circa all’amore, farò tutto quel ch’io potrò.
Brigida. Perdoni, proponendosi ella di volerlo sì ben rispettare, non farà dunque ne più ne meno di quello ch’egli vorrà.
Giacinta. Sì, ma il rispetto ha da esser reciproco. S’io ho del rispetto per lui, egli ne ha da avere per me. Non ha perciò da trattarmi villanamente, e da tenermi in conto di schiava.
Brigida. (Eh! già; vuol rispettare il marito, ma vorrà fare a suo modo).
Giacinta. È molto che quel temerario di Guglielmo non abbia ancora tentato di farmi una visita.
Brigida. S’egli venisse, m’immagino ch’ella non lo vorrebbe ricevere.
Giacinta. Perchè non l’ho da ricevere? Perchè ho da usare questa viltà, di mostrar paura di lui? Non ho da esser padrona di me medesima? Non avrò bastante virtù per vederlo e trattarlo con indifferenza? Sono stata debole, è vero; ma in tre giorni ch’io non lo tratto, ho avuto campo di ravvedermi e di fortificarmi lo spirito e il cuore. Bisogna pur ch’io mi avvezzi a ritrovarmi con esso lui, come mi ho da ritrovare con tanti altri. Ha da esser marito di mia cognata. Poco o molto, dobbiamo essere qualche volta insieme. Che cosa direbbe il mondo, se io sfuggissi la di lui vista? No, no, vo’ principiare per tempo ad accostumarmi a trattarlo come se mai non lo avessi nè amato, nè conosciuto; e son capace di farlo, ed ho coraggio di farlo, e vedrai tu stessa con che bravura, con che spirito mi darà l’animo di eseguirlo.
Brigida. E se il signor Leonardo non volesse ch’ella lo trattasse?
Giacinta. Il signor Leonardo sarebbe un pazzo. Perchè non ha da voler che io pratichi un suo cognato?
Brigida. Non sa ella quanto è sottile la gelosia?
Giacinta. Il signor Leonardo sa che gelosie non ne voglio.
Brigida. Ma per altro, diciamola qui fra noi, ha avuto qualche motivo d’averne.
Giacinta. Quello che è stato, è stato. Ha avuto la soddisfazione che Guglielmo dia parola di sposar sua sorella, e la sposerà, e ciò gli deve bastare. Finalmente Guglielmo è un giovane onesto e civile, ed io sono una donna d’onore; e sarebbe una temerità il pensare diversamente.
Brigida. (Può dir quel che vuole, io non mi persuaderò mai che la piaga sia risanata).
SCENA VI.
Servitore e le suddette.
Servitore. Signora, è qui il signor Guglielmo che le vorrebbe far riverenza.
Brigida. (Veggiamo un poco la sua bravura).
Giacinta. (Oimè! che mai vuol dire questo gran fuoco che improvvisamente m’accende?)
Brigida. (Oh! come vien rossa la poverina!)
Giacinta. (Eh! coraggio ci vuole. Superiamola quest’indegna passione). Venga pure, è padrone.
Servitore. (Parte.)
Brigida. Coraggio, signora padrona.
Giacinta. Perchè coraggio? A che mi vai tu insinuando il coraggio? Di che cosa ho d’aver timore? (Eccolo. Oh cieli! tremo tutta, la passion mi tradisce ed il valore mi manca). Brigida, un improvviso dolor di stomaco mi obbliga a ritirarmi. Ricevi tu il signor Guglielmo, e digli che mi perdoni.... (Ah! mi ucciderei colle mie mani). (parte)
SCENA VII.
Brigida, poi Guglielmo.
Brigida. Gran virtù, gran coraggio! Eh poverina! è donna anch’ella, è di carne e d’ossa come le altre.
Guglielmo. Dov’è la signora Giacinta?
Brigida. Perdoni, signore, mi ha imposto di far le sue scuse.
Guglielmo. Mi ha pur detto il servitore ch’ella era qui.
Brigida. C’era, per verità; ma l’ha chiamata il suo signor padre. (Se gli dico che ha mal di stomaco, non lo crede, è una magra scusa).
Guglielmo. Aspetterò il suo comodo.
Brigida. Scusi. Che cosa vuole da lei?
Guglielmo. Ho da renderne conto a voi? Vo’ fare il mio debito, riverirla, consolarmi del suo ritorno. Ecco quello ch’io voglio; ed ecco soddisfatta la vostra curiosità.
Brigida. Bene, signore. Io rappresenterò alla padrona le di lei finezze, e sarà come se le avesse ricevute in persona.
Guglielmo. Non mi è permesso il vederla?
Brigida. Non mancherà tempo. È ancora stanca dal viaggio.
Guglielmo. Questo è un insulto che mi vien fatto. Sono un uomo d’onore, e non credo di meritarlo.
Brigida. Caro signor mio, prenda la cosa come le pare; io non so che dirle. (Voglio vedere io di rompere quest’amicizia, se posso).
Guglielmo. Dite alla signora Giacinta che io sono lo sposo della signora Vittoria.
Brigida. Credo ch’ella lo sappia, senza ch’io glielo dica.
Guglielmo. E se non avessi questo carattere, non sarei venuto ad incomodarla.
Brigida. In virtù di questo carattere, avrà tempo di vederla e di rivederla, e di dirle tutto quello che vuole.
Guglielmo. Voi dunque non le volete dir niente?
Brigida. Niente affatto, con sua buona licenza.
Guglielmo. C’è in casa il signor Filippo?
Brigida. Io non lo so, signore.
Guglielmo. Come dite di non saperlo, se poco fa mi diceste ch’egli ha chiamato la signora Giacinta?
Brigida. E se io gli ho detto che ha chiamato la signora Giacinta, perchè mi domanda se c’è?
Guglielmo. Per dir la verità, voi siete particolare.
Brigida. Perdoni.... ho qualche cosa anch’io per il capo.... (Ha ragion da una parte; il zelo mi trasporta un po’ troppo).
SCENA VIII.
Leonardo e detti.
Leonardo. (Come! Guglielmo qui? Appena giunta Giacinta).
Brigida.. (Ecco il signor Leonardo. E questo diavolo di Guglielmo non ha voluto andarsene).
Leonardo. Dov’è la signora Giacinta? (a Brigida)
Brigida. È di là col suo signor padre. (a Leonardo)
Guglielmo. Amico. (salutando Leonardo)
Leonardo. Schiavo suo. (a Guglielmo, bruscamente) Domandatele se mi è permesso di riverirla. (a Brigida)
Brigida. Sì, signore, la servo. Perdoni: Paolino non è ancor ritornato?
Leonardo. No, non è ancor ritornato.
Brigida. Compatisca. Quando ritornerà?
Leonardo. Volete andare, o non volete andare?
Brigida. Vado, vado. (Oh! quest’è bella! Preme anche a me quanto possa premere a loro). (parte)
Leonardo. Siete molto sollecito a venir a complimentare la signora Giacinta.
Guglielmo. Fo il mio dovere.
Leonardo. Non siete nè si attento, nè sì polito verso la vostra sposa.
Guglielmo. Favorite dirmi in che cosa ho mancato.
Leonardo. Non mi fate parlare.
Guglielmo. Se non parlerete, sarà impossibile ch’io vi capisca.
Leonardo. L’avete veduta la signora Giacinta?
Guglielmo. Non, signore. Volea rivenda, e non mi è stato ancora permesso. A voi non sarà negato l’accesso; onde vi supplico, col mezzo vostro, far ch’io possa esercitar con lei il mio dovere.
Leonardo. Signor Guglielmo, quando pensate voi di concludere le nozze con mia sorella?
Guglielmo. Caro amico, io non credo che un matrimonio fra due persone civili s’abbia a formare senza le debite convenienze.
Leonardo. Ma perchè intanto si differisce di sottoscrivere il nuzial contratto?
Guglielmo. Questo può farsi qualunque volta vi piaccia.
Leonardo. Facciamolo dentro d’oggi.
Guglielmo. Benissimo....
Leonardo. Favorite di andar dal notaro a renderlo di ciò avvisato.
Guglielmo. Bene. Andrò ad avvisarlo.
Leonardo. Ma andate subito, se lo volete trovare in casa.
Guglielmo. Sì, vado subito. Vi prego di pormi a’ piedi della signora Giacinta; dirle ch’era venuto per un atto del mio rispetto. (Convien dissimulare. Non son contento s’io non le parlo ancora una volta). (parte)
SCENA IX.
Leonardo, poi Brigida.
Leonardo. Costui è d’un carattere che non arrivo ancora a comprendere. Mi dà motivo di sospettare, e poi mi fa talvolta pentire de’ miei sospetti. La premura ch’egli ha di veder Giacinta, pare un po’ caricata; ma se fosse reo di qualche indegna passione, non ardirebbe di parlar con me come parla, ed esibirsi ad accelerare il contratto con mia sorella.
Brigida. Signore, la mia padrona la riverisce, la ringrazia della sua attenzione, e la supplica di perdono se questa mattina non può ricevere le di lei grazie, perchè sta poco bene, ed ha bisogno di riposare.
Leonardo. È a letto la signora Giacinta?
Brigida. Non è a letto veramente, ma è sdraiata sul canapè. Le duole il capo, e non può sentire a parlare.
Leonardo. E non mi è permesso di vederla, di riverirla, e di sentire da lei medesima il suo incomodo?
Brigida. Così m’ha detto, e così le dico.
Leonardo. Bene. Ditele che mi dispiace il suo male, che ne prevedo la causa, e che dal canto mio cercherò di contribuire alla sua salute. (con isdegno)
Brigida. Signore, non pensasse mai....
Leonardo. Andate, e ditele quel che v’ho detto. (come sopra)
Brigida. (Ha ragione, per verità, ha ragione. E cieca affatto, e la sua gran virtù se n’è andata in fumo). (parte)
SCENA X.
Leonardo, poi il Servitore.
Leonardo. Sì, merito questo, e merito ancor di peggio. Dovea avvedermene prima d’ora, ch’ella non ha per me ne amore, nè stima, ne gratitudine. Sono perdute le mie attenzioni; è vana la mia speranza, e guai a me se io arrivassi a sposarla. Ho dunque da perderla? Ho da metterla in libertà, perchè poi con mio scorno, e con disonore della mia casa, si vegga ella sposar Guglielmo, e quell’indegno burlarsi di me e dell’impegno contratto con mia sorella? No, non lo sperino certamente. Saprò scordarmi di quest’ingrata, ma non soffrirò vilmente l’insulto. Troverò la maniera di vendicarmi. Mi vendicherò ad ogni costo. A costo di perdermi, di precipitarmi. Sono in disordine, è vero, ma ho tanto ancora da potermi prendere una soddisfazione. Vo’ far vedere al mondo che ho spirito, che ho sentimento d’onore. Sì, perfida, sì, amico traditore, mi vendicherò, me la pagherete.
Servitore. Signore, un di lei servo ha portata per lei questa lettera.
Leonardo. E dov’è costui?
Servitore. Mi ha domandato se ella e’era. Gli ho detto che sì. Mi ha dato la lettera, ed è partito.
Leonardo. Bene, bene. Non occorr’altro. (legge la lettera piano)
Servitore. (È molto in collera questo signore. Ma anche la padrona è furente. Sono andati in campagna con allegria, e sono tornati col diavolino pel capo). (parte)
SCENA XI.
Leonardo solo.
Povero me! Che sento! Che lettera è questa che mi scrive Paolino! Sequestrati i beni miei di campagna? Sequestrati i mobili del palazzino? Sino la biancheria, le posate e l’argenteria che mi fu prestata? Paolino medesimo arrestato in campagna per ordine della giustizia? Questa è l’ultima mia rovina, la riputazione è perduta. Piena ancora di gente è la villeggiatura di Montenero. Che diranno di me i villeggianti? Quale strapazzo si farà colà del mio nome? Che serve ch’io abbia figurato sinora con tanto sfarzo e con tanto lustro, se ora si scoprono le mie miserie, e sarà condannata la mia ambizione? Ah! questo colpo mi avvilisce, mi atterra. Giacinta, Guglielmo si burleranno anch’essi di me. Qual vendetta vo’ io meditando contro di loro? Chi è il nemico maggiore ch’io abbia fuor di me stesso? Io sono il pazzo, lo stolido, il nemico di me medesimo.
Fine dell’Atto Primo.