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IL RITORNO DALLA VILLEGGIATURA 269

SCENA III.

Fulgenzio e la suddetta.

Fulgenzio. (Povera casa! In che stato sei tu ridotta!)

Vittoria. Bravo, bravo, signor Fulgenzio.

Fulgenzio. Servitor suo, signora Vittoria.

Vittoria. Che voglia è venuta a vossignoria di scrivere a mio fratello che nostro zio stava mal per morire, per farci venire a Livorno a rotta di collo?

Fulgenzio. Io, dacchè siete di qua partiti, non ho scritto una riga a vostro fratello; e vostro zio sta benissimo di salute, ed io in tal proposito non so quello che vi diciate.

Vittoria. Ma la lettera l’ho veduta io.

Fulgenzio. Che lettera avete veduto?

Vittoria. Quella che fu scritta da voi.

Fulgenzio. A chi?

Vittoria. A mio fratello.

Fulgenzio. Signora, io dubito che ve lo abbiate sognato.

Vittoria. Come sognato, se siamo corsi a Livorno per essere a tempo, pria che spirasse lo zio?

Fulgenzio. E chi vi ha detto questa bestialità?

Vittoria. La vostra lettera.

Fulgenzio. Cospetto! voi mi fareste uscire de’ gangheri. Vi dico ch’io non l’ho scritta, e non poteva ciò scrivere, e non l’ho scritta. (con isdegno)

Vittoria. Ma che può essere dunque questa faccenda?

Fulgenzio. Che può essere? Ve lo dirò io: cabale, invenzioni, alzature d’ingegno.

Vittoria. E di chi?

Fulgenzio. Di vostro fratello.

Vittoria. Come di mio fratello?

Fulgenzio. Sì, di lui, che ha menato finora una vita la più pazza, la più disordinata del mondo. Mi era stato detto da qualcheduno che le cose sue andavano per la mala strada; ma non credeva ch’ei fosse giunto a tal segno. Mi pento di es-