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atto terzo 261

«taglia» e «amazza». Io, si per lo insolito incontro come per la naturai timiditá dell’animo fé minile, sentendo il romore e vedendo fulminar tante spade, dirò il vero, scordandomi ogn’altra cosa, mi diedi a fuggire; né sono restata di correre insino a tanto che io son giunta qui; né so che cosa sia avvenuta del mio signore. Onde quanta sia la passion mia la sente questo cuore. Ahi lassa me, infelice e misera! Che farò io? Debbo io tornare in casa del padre mio? Questo non fia giá mai. Che far debbo, adunque? Andar dove? Dch! Trovassi io almeno chi m’insegnasse la strada! che andrei al palazzo del cardinale e intenderei qualche cosa; saprei se il mio signor avesse ricevuto alcun dispiacere; e tanto l’attenderei che o ne tornarebbe egli o io ne udirei novella. Per quello che a me parve di vedere, mostravano coloro d’esser tra loro azzuffati, non di voler fare oltraggio a noi. Pure, la paura non mi vi lasciò fermare o prender con esso lui la strada altrove. Ma ecco male sopra male. Ecco Valerio. Avengane il peggio che può, piú tosto mi lasciarci isquartar viva che far ritorno in casa del padre mio.

SCENA XVI

Valerio, Camilla.

Valerio. Ecco, ecco il ragazzo di quello sgraziato spagnuolo. Egli de’ avere appostato questa ora, giá piú d’un mese, col parasite Ben lo conciarò io di maniera che non ci tornerá piú. Che passeggi tu qui intorno, a quest’ora, impiccato? Finge di non mi udire e rivolge i passi. Vien qui, furfantello! Fermati! E levati quel mantello dal volto; che hai a far conto meco, se noi sai.

Camilla. Dch! Vanne per la tua via, uomo da bene; e non ti curar di vedermi, che io non ho a far conto teco né poco né molto.

Valerio. Vedi atto di presontuoso! Levati quella cappa d’intorno al volto; e non mi rivolger la schiena, che ancora non mi par tempo di adoperarvi il bastone.