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atto terzo | 253 |
SCENA V
Ciacco, Messer Cesare, Valerio.
Ciacco. Valerio, dice Flamminio che tu vada a lui.
Messer Cesare. Adesso saprò la veritá. Ciacco, vien qui. Ove è il mio figliuolo?
Ciacco. Lontano di qui.
Messer Cesare. Dove?
Ciacco. Volete ch’io vel dica? In prigione.
Messer Cesare. In prigione? Parti il mio figliuolo uomo da mettersi in prigione?
Ciacco. Se il governatore l’ha fatto metter, parmi che si.
Valerio. Oh che ghiotto fino!
Messer Cesare. E perché l’ha egli fatto mettere?
Ciacco. Per cagione di certe arme.
Messer Cesare. Come per cagione di arme? Un gentiluomo non può portar, la notte, le sue arme?
Ciacco. Voi intendete.
Messer Cesare. Questo impiccato di Valerio m’avea dato a credere che egli era a cena col signor Fabrizio e che devea restarvi a dormir la notte. Io sono scappato. Non dovea correr si innanzi, se io volea saperne il vero.
Valerio. Volta carta.
Ciacco. Io scherzo, padron dolce. Cosí è come ha detto Valerio. Egli è a casa del signor Fabrizio, dove s’è redotta una brigata di gentiluomini che si intratengono sui piú belli ragionamenti del mondo, cioè di lettere e di poesia; e ho udito dire che v’è anco il Molza. Che volete piú?
Valerio. Oh che forca!
Messer Cesare. Queste non son novelle da pigliarsi a scherzo, Ciacco. Tu m’hai fatto riscaldar tutto.
Ciacco. Corri per la camisa, Valerio, che il sudore non penetrasse nell’ossa.
Valerio. Va’ e deleggia i pari tuoi.