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atto terzo 251


Messer Cesare. Anzi, al modo della ragione; che io non me ne diparto mai.

Valerio. A punto!

Messer Cesare. Lasciamo andare queste parole. E dimmi: Flamminio è pure andato a cena con Fabrizio, è vero?

Valerio. Che sarebbe, quando ben fosse a cena con Beatrice?

Messer Cesare. Sarebbe che io non gliel comportarci mai.

Valerio. Perché?

Messer Cesare. Perché a lui non si convengono queste trame.

Valerio. Voi mi farete morir disperato. A voi fate lecito l’amare, che séte vecchio; e non volete che egli molto piú si convenga a Flamminio, che è giovane. Oh che belle ragioni sono le vostre!

Messer Cesare. Piano un poco, di grazia, messere. Io ti dico che, quando bene io fossi caduto in uno errore, non voglio lassar cadervi il figliuolo.

Valerio. Prendete essempio a misurar gli altrui falli col vostro proprio.

Messer Cesare. Tu non mi vuoi intendere e sempre hai piacer che io gridi.

Valerio. Non accadono gridi; che egli è troppo da bene il vostro figliuolo, troppo buono, troppo costumato.

Messer Cesare. Fia per lui. E, se egli sará tale, non tralignerá punto dallo antico delli avoli suoi i quali furono sempre magnificili, virtuosi ed estimati tanto quanto altri gentiluomini di Roma.

Valerio. Avanzerá l’onore.

Messer Cesare. Pur che egli giunga a questo segno, mi contento.

Valerio. Egli è giá lá.

Messer Cesare. T’ha egli detto che tu vada per lui?

Valerio. Messer no.

Messer Cesare. Farebbe egli pensiero di starvi la notte?

Valerio. Penso che si.