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atto primo | 217 |
Valerio. Da poi, seguirá che ad un giovane nobile come sei tu e figliuolo di cosí ricco gentiluomo non si conviene chiedere, ma esser chiesto; e massimamente una povera gentildonna come è costei.
Flamminio. Quando io ciò facessi, non sarei il primo.
Valerio. O vero egli dirá che attendi agli studi e che del maritarti lasci la cura a lui.
Flamminio. Quasi che io avessi a tór moglie con la sua persona e non con la mia!
Valerio. E chi dubita che, amando egli ardentemente questa Livia, come io so che egli l’ama, non sappia trovar mille cagioni delle quali una sola sará bastante a chiuderti la bocca in modo che non parli piú di questo amore, se non vorrai cader nella sua disgrazia?
Flamminio. Questo posso imaginarmi ancora io. Ma che ci debbo fare? Consigliami tu. Tu sai che il parasito, doppo tanti giorni, finalmente m’ha promesso di farmi goder di lei, questa notte. Ma che ci debbo io fare?
Valerio. Il consiglio che io ti potrei dare sarebbe che tu ti levassi da questa tua frenesia e che attendessi a cose piú utili e di piú onore.
Flamminio. Quasi che questo fosse in poter mio! Ma egli è cosa molto facile all’uomo, quando è sano, a confortar gli amalati. Ciò a me non piace né si può mettere in opera.
Valerio. Egli è cosa da savio a prendere i buoni consigli, quando l’utile importa per colui a cui si danno.
Flamminio. Oimè! che, non si provando un male, di leggero non si crede. Io ti dico, Valerio, che, se io non ho Livia, se io non godo del mio amore, io ne morrò di corto.
Valerio. Oh meschino! Ti so dire che egli è cotto. Ma vedi chi viene a tempo.
Flamminio. Chi?
Valerio. Messere Opilio, il tuo maestro galante.
Flamminio. Vedi se la sorte m’è bene in tutto contraria. Andiamo, di grazia; che, se costui ne coglie qui, ci stiamo insino a notte.