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atto primo 215

lunga vita! Benché, la medesima domestichezza che io ebbi in casa sua, quando egli vivea, ho io ora con madonna Agnela sua moglie; e ciò che non si crede a me non si crede ad altri.

Messer Cesare. Adunque, tu conosci la figliuola e hai compreso il mio amore.

Ciacco. Piú in lá di bene l’ho compreso. E dicovi Livia esser la piú bella, la piú gentile e la piú virtuosa fanciulla che abbia il nappamondo.

Messer Cesare. Non pensare che da altro che da cosa gentile fosse derivato il mio amore.

Ciacco. Il so. Ma parmi avervi data troppa sicurtá, non sapendo prima chi fosse costei. È ben vero che io tengo una ricetta in tasca che può guarire ogni infermitá.

Messer Cesare. Ah fratello! Tornami in vita.

Ciacco. Qui bisognano quattro cose: ingegno, sollicitudine, animo e ventura; e, sopra tutto, che non ci manchi il conquibus, che sapete bene che madonna Agnela è povera gentildonna.

Messer Cesare. Che vuol dire «conquibus»

Ciacco. Danari, vuol dire.

Messer Cesare. Io non son per mancare di danari, quando tu non manchi d’animo, d’ingegno e di sollecitudine. Ma come si fará ad aver la ventura?

Ciacco. Bisogna prenderla.

Messer Cesare. Ed in che modo si prende ella?

Ciacco. Con le reti d’oro.

Messer Cesare. Dunque, fa’ ch’io l’abbia; che felice e beato te! perché, oltra che la mia casa sará tua, potrai forse ancor tu tener cavalcatura e paggi.

Ciacco. So ben io che Vostra Signoria è magnifica e magnanima.

Messer Cesare. Ma come s’ha egli a fare questa opera?

Ciacco. Lasciatene la cura a me.

Messer Cesare. Bene. Ma andiamo alla mia casa; e, desinato che avrai, potrai discorrer sopra il fatto mio piú allegramente e con migliore animo.

Ciacco. Ben detto. Andiamo.