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atto primo 223


Flamminio. Bastava averlo detto una volta.

Valerio. La gazza ha mangiato la suppa.

Pedante. Io ho la copia verborum cosí bene che tengo in podice Erasmo.

Valerio. Il cancaro che vi magni! Rispondi cosí per lettera, Flamminio.

Pedante. Iterum atque iterum vale.

Valerio. In malora, assorda-cielo!

SCENA VI

Flamminio, Valerio.

Flamminio. Ha vòlto ancora il cantone questo barbagianni?

Valerio. Si; esci fuora.

Flamminio. Io non credo che sia il piú ladro romper di testa né il piú crudo crepacuore che l’esser sforzato di dare orecchia ad uno di questi pedanti; massimamente quando altra fantasia ti si rivolge pel capo.

Valerio. Per Dio, per Dio, che tutte le sue parole sono sentenzie e tu non doveresti tener la pratica di colui.

Flamminio. Che diavolo ho io a fare seco? E che importa se io lo saluto o se io non lo saluto? se io gli parlo o se io non gli parlo?

Valerio. Importa tanto che.... Basta. Dirò poi un’altra volta.

Flamminio. Un’ora mi par milPanni.

Valerio. Or torniamo al tuo amore. Ed abbi per cosa certa che, se non fosse una sola cagione, nissuno dei prieghi tuoi sarebbe stato sufficiente a fare che io t’avessi prestato il mio aiuto e sollecitatone il parasito per si fatto modo che, questa notte, ne debbe succedere lo effetto.

Flamminio. Qual cagione vi t’indusse?

Valerio. La cagione è questa: che, se io pigliava la impresa per il padre tuo facendone contento il suo disio, ne potevano avenir piú mali; se io la prendeva per te, mi poteva render