Il raccontafiabe/Il gattino di gesso
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IL GATTINO DI GESSO
— Chi vuol figurine, chi vuole! —
Su la tavola che portava in testa sopra un cércine, vecchi panciuti, gatti e conigli crollavano il capo e parevano vivi.
— Chi vuol figurine, chi vuole! —
Un giorno aveva fatto buoni affari; gli rimaneva soltanto un gattino. Non lo aveva voluto nessuno, quantunque niente diverso dagli altri venduti.
Il povero figurinaio si sgolava inutilmente:
— Oh, il bel gattino! Chi vuole questo gattino, chi vuole! —
Si trovava in quel momento sotto le finestre del palazzo reale:
— Figurinaio, venite su. —
Non gli era mai capitata la fortuna di vendere qualcuna di quelle sue cosucce alla casa del Re. Dalla contentezza non stava nei panni, e montava gli scalini a quattro a quattro. Arrivato all’ultimo pianerottolo, inciampa e casca quant’era lungo. Il gattino andò in pezzi.
La Reginotta, ch’era corsa all’uscio, cominciò a strillare:
— Voglio il gattino! Voglio il gattino!
— Reginotta, non è niente; ne farò un altro.
— No! No! Voglio questo qui!
— Se avessi un po’ di colla, lo incollerei. —
Non aveva ancora finito di parlare, che i pezzetti si movevano, si ricercavano tra loro e s’incollavano da sè; e già il gattino crollava la testa e pareva contento di quella prodezza. Il figurinaio era più sbalordito degli altri. Quasi quasi avrebbe voluto riportarselo via; quel gattino portentoso forse sarebbe stato la sua fortuna. Ma col Re non si scherzava; bisognava venderlo per forza.
— Quanto ne vuoi? — domandò il Re.
— Faccia Vostra Maestà; il gattino non ha prezzo. —
Il Re gli diede una moneta d’oro.
Il figurinaio s’attendeva di più, e intascò la moneta di malumore.
— Non sei contento? Eccotene un’altra.
— Gliene dia tre, Maestà. —
Il Re, per non far dispiacere alla figliuola, diede al figurinaio altre due monete d’oro.
— Dio t’aiuti! —
La Reginotta portò il gattino in camera, e si divertiva tutto il giorno a fargli scrollare la testa.
— Gattino, mi vuoi bene? —
E il gattino rispondeva di sì.
— Gattino, vuoi la gattina? —
E il gattino rispondeva di sì.
— Gattino, ci sposiamo? —
E il gattino rispondeva di sì.
Accadde che in quel tempo la Reginotta fu richiesta da un Reuccio. Il Re se ne rallegrò; era un buon partito.
Ma ecco, a mezzanotte, si sentì un grido lamentoso:
— Meo! Meo! Meo! —
La Reginotta si svegliò:
— Che. hai, gattino?
— Meo! Meo! Meo!
— Hai forse fame, gattino?
— Meo! Meo! Meo! —
Non si chetava. Si svegliò anche il Re.
— Cacciate via questo gatto; non mi lascia dormire.
— È il gattino di gesso. —
Sua Maestà rimase.
— Il gattino di gesso? —
E andò a vedere.
— Meo! Meo! Meo!
— Maestà, il gattino vuol qualche cosa; io non so capire il suo linguaggio.
— Vuoi della trippa? Vuoi del polmone?
— Meo! Meo! Meo! —
Neppure il Re capiva. All’ultimo, stizzito, afferrò un bastone per farlo in pezzi:
— Te lo do io il meo, meo!
La Reginotta gli trattenne il braccio.
— Chiamiamo il figurinaio. Lui che l’ha fatto, forse lo intende. —
Fino all’alba però il gattino continuò a lamentarsi:
— Meo! Meo! Meo! —
Il figurinaio non fu potuto trovare; era andato in un’altra città.
La notte seguente, a mezzanotte appunto, il gattino ricomincia.
Il Re uscì fuori dei gangheri; corse in camera della Reginotta, afferrò il gattino, aperse la finestra e lo buttò nella via.
La Reginotta si mise a piangere:
— Povero gattino mio! —
Di lì a pochi minuti, dietro l’impòsta si sente:
— Meo! Meo! Meo! —
E un zampino picchiava ai vetri e grattava con le ugne.
La Reginotta aperse e trovò il gattino di gesso sul davanzale; crollava la testa e pareva dicesse: Grazie! grazie!
— Sta’ zitto, gattino; se no, il Re ti fa in pezzi.
— Meo! Meo!
— Gattino, mi vuoi bene? —
E il gattino rispondeva di sì.
— Gattino, vuoi la gattina? —
E il gattino rispondeva di sì.
— Gattino, ci sposiamo?
— Meo! Meo! Meo! —
E per quella notte non gridò più.
— Dunque vuol sposarmi lui! — disse la Reginotta. — Qui ci deve essere un incanto. Gattini di gesso e che gridino non se n’è mai visti finora. —
Quando fu giorno, andò dal padre:
— Maestà, il mio matrimonio col Reuccio non può andare. Mi vuole il gattino, e il gattino mi avrà. —
Il Re la credette impazzita. La Reginotta, senza scomporsi, gli spiegò la cosa:
— Maestà, qui c’è un incanto. —
Chiamarono un Mago.
— È proprio così. Quel gattino è un Reuccio. Se l’incanto non vien disfatto, la Reginotta è perduta. —
Figuriamoci la costernazione del Re e di tutta la corte!
— Come disfarlo?!
— Bisogna recuperare le tre monete d’oro date da vostra Maestà al figurinaio.
Dove andare a pescarle? Colui doveva averle già spese. Chi sa per che mani passavano in quel momento. E poi, come riconoscerle fra le altre monete d’oro fatte con l’istesso conio?
— Le riconoscerà il gattino. —
Il Re fece un bando:
— Chi possiede monete d’oro, deve trovarsi in tal giorno nel tal posto con le monete in tasca; pena la vita. —
Quel giorno, nel posto indicato, si vide più di un centinaio di persone che si guardavano in faccia sospettose, tenendo le mani in tasca. Venne la Reginotta col gattino in braccio e cominciò a passeggiare in mezzo a loro. Il gattino scrollava il capo, ma non dava nessun indizio; avrebbe dovuto gridare: Meo! Nessuno di quella gente possedeva dunque le monete cercate.
La Reginotta disse:
— Maestà, vo’ andare attorno pel mondo. Mi vesto da uomo e fingo di essere un figurinaio. Il cuore mi dice che troverò le monete. Se non faccio così, sono perduta. —
Il Re acconsentì. La Reginotta si fece cucire un vestito da uomo, si tagliò i capelli, prese il gattino, e di notte, per non essere riconosciuta, partì.
— Oh, il bel gattino! Chi mi compra il gattino che miagola!
— Quanto ne chiedete?
— Una moneta d’oro.
— Non vale due soldi. —
Andava di città in città, di paesetto in paesetto, di villaggio in villaggio:
— Oh, il bel gattino! Oh, il bel gattino che miagola! —
Parecchie persone avrebbero voluto comprarlo, ma sentendo quel prezzo d’una moneta d’oro, tutte rispondevano a un modo:
— Non vale due soldi. —
Cammina, cammina, una volta fu sorpresa dalla notte in una campagna. Vide una casetta di contadini e picchiò:
— Buona gente, datemi alloggio.
— Chi siete?
— Un figurinaio. —
Le apersero e la fecero entrare. Erano due vecchi, marito e moglie.
— Non ricoveriamo nessuno. Perchè siete un figurinaio, facciamo una eccezione per voi. Il nostro figliuolo fa lo stesso mestiere. È tant’anni che non lo vediamo; non sappiamo se è vivo o morto. Questo è il suo letto; dormite lì. Ci parrà che voi siate quel caro figliuolo. —
A mezzanotte appunto, ecco il gattino:
— Meo! Meo! Meo!
— Buona gente, voi avete una moneta d’oro.
— Ah! Tu sei un ladro! —
Il vecchio afferrò la ronca e voleva ammazzarla.
— Non sono un ladro! Per quella moneta ve ne do dieci! Sentite. —
E raccontò la sua storia.
I due vecchi ebbero pietà di lei. Infatti avevano davvero una moneta d’oro; gliel’avea mandata il loro figliuolo. Presero in cambio le dieci monete e le diedero quella.
Il gattino crollava il capo e gridava: Meo! Meo! Pareva che gongolasse di allegrezza.
Si sparse la voce che c’era un figurinaio, il quale dava dieci monete d’oro contro una. La gente le andava incontro con le monete in mano per fare quel buon guadagno. Ma il gattino stava zitto.
Cammina, cammina, la Reginotta arrivò un giorno davanti un’osteria. Parecchi avventori giocavano a un tavolino. Si fermò per prendere un boccone e si mise a guardare.
Tutt’a un tratto, ecco il gattino:
— Meo! Meo! Meo!
— Buona gente, voi avete una moneta d’oro. Se me la date, ve ne do dieci e d’oro anch’esse.
— Fa’ vedere. —
La Reginotta cavò fuori le monete. Quei mascalzoni le si gittarono addosso, gliele fanno cascare per terra, si azzuffano, le ghermiscono e fuggono via.
Tutt’a un tratto, ecco il gattino:
— Meo! Meo! Meo!
— Gattino, che vuoi dire?
— Meo! Meo! Meo! —
Guardò attorno, per terra. Sotto un piede del tavolino c’era una moneta d’oro, proprio quella che lei cercava. Nella zuffa era sfuggita di mano al suo possessore e nessuno l’aveva vista. La Reginotta la raccolse, la involtò insieme con l’altra, e riprese il viaggio.
Cammina, cammina, cammina, giunse in un luogo solitario, fra rupi alte fino alle nuvole. Non si scorgeva anima viva.
Vide una grotta con una porta; si fece coraggio e picchiò:
— Buona gente, aprite; ho smarrita la strada. —
Non rispondeva nessuno.
— Buona gente, aprite; ho smarrita la strada. —
Comparvero due visacci barbuti:
— Mal per te! Chi sei? Che vieni a fare in queste parti?
— Sono un figurinaio. Vendo questo gattino.
— Quanto ne chiedi?
— Una moneta d’oro.
— Noi lo prendiamo per nulla. —
E volevano strapparglielo. La povera Reginotta era capitata in un covo di ladri. Sentendo il diverbio, n’erano usciti fuori una dozzina, minacciosi, con i pugnali in mano. La Reginotta si vide perduta:
— Non mi fate male; ve lo do!
— Tu resterai con noi; farai da servo. —
Con quella gentaccia non c’era da rispondere. Per non separarsi dal gattino, la Reginotta disse:
— Farò da servo. —
La sera i ladri andavano via e lasciavano la Reginotta chiusa col catenaccio dentro la grotta.
— Ah, gattino mio! Che mala sorte c’è toccata!
Sul far dell’alba, i ladri tornavano carichi di preda; argento, oro, pietre preziose. E il capo faceva le parti.
— A te questo! A te quello! A te questa moneta, perchè ci hai preparato un buon desinare! —
Ma non era la moneta che la Reginotta cercava. Infatti il gattino stava zitto.
— Ah, gattino mio! Che mala sorte c’è toccata!
Intanto alla Reginotta erano cresciuti i capelli, e non sapeva più come nasconderli. Il capo dei ladri se n’accorse:
— Chi sei? Tu sei una donna! —
La povera Reginotta si sentì morire; e piangendo, disse:
— Sono la figlia del Re.
— Allora ti prendo per moglie. Sono Re anch’io; Re dei ladri! Ci sposeremo domani. Giusto la notte che viene andiamo a rubare in casa del Re. Ruberemo la corona e il manto reale. —
La sera i ladri andarono via e lasciarono la Reginotta chiusa col catenaccio dentro la grotta.
— Ah, gattino mio! Che mala sorte c’è toccata! —
E i suoi occhi eran due fiumi di lagrime. Il gattino, zitto.
Sul far dell’alba, i ladri tornarono carichi di preda; argento, oro, pietre preziose, e la corona e il manto reale.
— A te questo! A te quello! A te questa moneta, perchè ci hai preparato un buon desinare!
Tutt’a un tratto, ecco il gattino:
— Meo! Meo! Meo! —
I ladri si spaventarono. La Reginotta non gli aveva mai detto che il gattino di gesso miagolava.
— Tradimento! Tradimento! —
E sfoderarono i pugnali. Si sentì un botto. Il gattino di gesso era crepato, facendo schizzare i pezzi da tutte le parti, e ne era uscito fuori un bel giovane, armato di tutto punto, che cominciò a menar colpi di spada a dritta e a manca. In pochi minuti, tutti i ladri giacevano morti per terra, fra pozze di sangue.
La Reginotta rimaneva in un canto, atterrita. Non osava accostarsi anche perchè vedeva che il Reuccio aveva tuttavia gli orecchi, i baffi e la coda di gatto; provava paura.
E la paura si accrebbe quando invece di sentirlo parlare, lo udì miagolare:
— Reuccio, che volete dirmi?
— Meo! Meo! —
Dunque rimaneva sempre gatto, quantunque con la figura d’uomo? Dallo sbalordimento, la Reginotta gli disse:
— Ah, gattino mio, che disgrazia! —
Doveva dirgli questo perchè l’incanto cessasse.
Gli cascarono gli orecchi, i baffi e la coda, e il Reuccio parlò:
— Grazie, Reginotta. Quanto ho sofferto! Caddi in mano d’una vecchia Stregona; voleva essere sposata; e perchè rifiutai mi gittò quell’incanto. Questi ladri sono i suoi figli; ora viene a cercarli. La concio io!
— Andiamo via; sarà meglio.
— Se non è morta colei, non possiamo uscire di qui. —
Infatti non trovavano la porta. Gira di qua, gira di là per quella sfilata di grotte, non un buco nei muri per cui potesse passare un topolino. In alto, è vero, c’erano grandi buche che davano luce; ma come arrampicarsi fin lassù? Bisognava avere le ali.
Il giorno seguente, da una di quelle buche, ecco un gufo che vola e rivola attorno, stridendo forte.
— Gufaccio, che cerchi qui?
— Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate?
— Prendilo pure. —
Il gufo afferrò un cadavere con gli artigli, e lo portò via.
— Era forse la Strega! — disse il Reuccio. — Se torna, la concio io! —
Poco dopo, ecco una cagna, magra e pelosa, che si avanza dal fondo di una grotta a passi lenti, uggiolando:
— Cagnaccia, che cerchi qui?
— Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate?
— Ah! Sei tu, Stregona! —
E il Reuccio le assestò un colpo, ma non la colse. La cagna sparì.
— Era lei! Se torna, la concio io! —
Poco dopo, ecco un sorcio con una coda lunga e spelata.
— Sorciaccio, che cerchi qui?
— Datemi uno di quei morti. Che ve ne fate?
— Prendilo pure. —
Il sorcio afferrò coi denti la punta del vestito di uno di quei cadaveri e cominciò a trascinarlo.
Il Reuccio lo agguanta per la coda con una mano, e cava la spada con l’altra. Assesta il colpo, ma coglie la coda che gli rimane in pugno, divincolandosi. Sorcio e cadavere, spariti.
— Non vuol dire! Bruciamo questa coda! —
Presero molta legna e accesero un bel fuoco; nel meglio della vampata, vi buttarono la coda.
Di fuori, si sentivano gli urli della Strega:
— Ahi! Non mi fate bruciare! Vi apro la porta! Ahi! Ahi! —
La coda guizzava, si dibatteva fra le fiamme. Il Reuccio, per paura che scappasse, la tenne ferma con la punta della spada, finchè non si udì più nessun grido o lamento della Strega.
Il fuoco si spense, e la porta si aperse.
L’incanto era disfatto.
Reuccio e Reginotta tornarono insieme al palazzo del Re e furono accolti con grandi feste. Mandarono subito a prendere il tesoro dei ladri e lo distribuirono alla povera gente. Il giorno delle loro nozze fu baldoria in tutto il regno.
Stretta la via, larga la foglia;
Ne dica un’altra, chi n’ha la voglia.