Il miracolo/Parte seconda/II
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CAPITOLO II.
Il tempo che mai si arresta e che aveva lasciato cadere polvere bianca sui capelli di Bindo Ranieri, aveva esacerbato l’animo del Paterìno, apportando cose nuove anche nella inclita città di Orvieto. Il trovarsi la città sopra una rupe, avrebbe dovuto renderla tetragona agli assalti del progresso; ma il progresso è capace di raggiungere qualsiasi altezza e, non contento di avere accesa in Orvieto la luce elettrica, si era divertito maliziosamente a trasportarvi il riposo festivo, le quali due circostanze turbavano i sonni del Paterino, la prima giacché, inondandogli dì chiarore il negozio, lo poneva nell’aspra necessità di verniciare a nuovo gli stipiti; la seconda, perché il riposo festivo gli appariva una sopraffazione del proletariato giovane contro il proletariato anziano; ed il Paterino, pur sentendosi pronto ad entusiasmarsi fino al delirio per le sopraffazioni compiute da lui a vantaggio proprio, aborriva fino alla nausea le sopraffazioni altrui esercitate a suo scapito. Aumentare la tariffa ai clienti, sissignori; insaponare poco le loro facce e rader poco le loro gote, inalberando asciugamano e rasoio in segno di rivolta a ogni minima protesta, sissignori; questo significava indipendenza di carattere, fierezza di principi; ma il riposo festivo era oltretutto un procedimento retrogrado, nessuno ignorando che il santificare le feste è roba da Santa Inquisizione.
Bindo Ranieri, accarezzando amorevolmente col piumino le sue piccole statue di alabastro, s’industriava di consolare l’amico ed opponeva alle egoistiche lamentele di lui le indistruttibili norme della filosofia della storia: il mondo gira; noi crediamo di girare con esso e invece restiamo fermi. Che cosa succede allora? Succede che non ci raccapezziamo più, la terra ci manca sotto i piedi e noi si comincia a gridare aiuto. Se ti affanni, se annaspi, cadi e ti rompi il collo; ma se hai pazienza di aspettare e resti quieto, vedrai che il mondo, appunto perchè gira, torna sempre allo stesso posto e tu ritrovi sempre le stesse cose.
E Bindo Ranieri, che non si affannava, che sapeva aspettare, nutriva la convinzione che il tempo è un furbo, il quale c’inganna ed espone specchietti per le allodole; in fondo, in fondo, il tempo inventa poco e molte cose ci offre con grande scalpore, che a noi sembrano nuove e ci fanno strabiliare, semplicemente perchè sono tanto vecchie che nessuno ad esse pensava più.
Queste profondissime elucubrazioni non riuscivano a mitigar l’amarezza nell’animo del Paterino, il quale vinto da sincerità irosa, finì col darsi un pugno sul petto e giurare, abbassando la voce, che, volere o no, la religione serve di freno, ed egli preferiva il riposo festivo imposto dalla chiesa anziché imposto dai perturbatori.
Bindo Ranieri, nell’approvare vivacemente, urtò col piumino una piccola statua di alabastro e la statua cadde; ma forse per il tenero affetto coltivato da lustri nei seni trasparenti delle vereconde statuine verso l’amabile proprietario, essa cadendo non si ruppe ed attese con docilità che Bindo Ranieri la raccogliesse intatta e la ricollocasse al posto usato, nella vetrina.
Il Paterino osservò e non fiatò, risentendo in cuore una certa invidia all’indirizzo di Bindo Ranieri. Tutto andava per il suo verso a quel bonaccione! La torre di Maurizio avrebbe potuto crollargli sopra il negozio, senza sciupargli nemmeno una cartolina illustrata e la facciata del Duomo avrebbe potuto cadérgli addosso, senza nemmeno ammaccargli la visiera del berretto.
Ma la torre di Maurizio non pensava a crollare e si slanciava con più snello vigore alla conquista del cielo in quella ridente mattina primaverile, nè la facciata del Duomo meditava intenzioni ostili; era invece benigna nel trionfo della sua bellezza, era tutta una luminosità dalla croce superna della cuspide centrale al sommo delle guglie, dalle smerlettature della finestra a rosone ai musaici multicolori. Le figure attendevano composte nei loro atteggiamenti secolari che una volta ancora le campane del Duomo annunziassero la resurrezione di Cristo ai cieli aperti, ai colli rinverditi, al turgido fiume, giù per la valle, agli orti popolati di nidi, ai vecchi che domandano pace, ai bimbi che domandano gioia. Le figure attendevano in religiosità e le campane si sciolsero, il buon Maurizio alzò con foga il suo martello, i seminaristi a passi celeri attraversarono la piazza, s'immersero nel portale di mezzo, e il colore violaceo delle loro sottane rimase avvolto dai fumi dell'incenso. Di fuori la trasparenza ampia, dell'azzurro primaverile, le note volanti delle campane, il gridìo ininterrotto delle rondini; di dentro, fra le navate, lo scintillio folto dei ceri, i boati possenti dell'organo, il tripudio delle voci osannanti; correva fra l'interno e l'esterno una comunione fratellevole di luci e di suoni, perocchè il sole dalla piazza inondava la chiesa per le finestre a colori e l'incenso dalla chiesa mandava le nubi de' suoi profumi.
Ermanno, aitante e fiero nel completo sviluppo de' suoi ventidue anni, era pallido, e gli occhi apparivano velati di stanchezza sotto l'arco nitido delle sopracciglia. Poco prima, dentro, la cappella del seminario, il vescovo gli aveva tolti alcuni capelli dalla fronte, dall'occipite, al disopra delle orecchie e nel centro della testa, rendendolo così tonsurato, poscia gli aveva conferito gli ordini minori: l'ordine dei portieri, a cui spetta suonar le campane, aprir la chiesa e la sacrestia; l'ordine dei lettori, a cui spetta di leggere a colui che predica, benedir pane e frutta; l'ordine degli esorcisti, che hanno potere d'imporre la mano sugli energumeni e, coll'aiuto dello Spirito Santo, cacciare gli spiriti immondi dai corpi degli ossessi; l'ordine degli accoliti, che hanno missione di portare il candelabro ed apprestar vino e acqua per il sacrificio della Messa.
Erano queste per Ermanno sensazioni recenti di un'ora, e già gli apparivano lontane, e la faccia ossuta del vescovo non aveva più lineamenti, mentre la destra insignita dell'anello episcopale, che si era mossa con tardità solenne per gli atti simbolici del rito, gli rimaneva minacciosamente isolata e visibile nel ricordo, ed Ermanno, inginocchiato adesso davanti all'altar maggiore del Duomo, risentiva il contatto lieve di quella mano e il gelo fugace delle forbici in mezzo ai capelli. I canonici officiavano, rivestiti di paramenti festosi: i chierichetti piccolini, gonfie le spalle per le increspature abbondanti delle cotte inamidate, salivano, scendevano lungo i gradini dell'altare, abbassandosi nelle genuflessioni, poi diventando smisuratamente alti quando agitavano i turiboli con lunghi gesti interminabili; monsignore si trovava a due passi da lui, immobile sopra l'inginocchiatoio, ed Ermanno, pure discernendo ogni menomo rabesco disegnato sui merletti delle cotte, ogni menoma sinuosità d'intaglio nell'inginocchiatoio di monsignore, sentiva che quelle cose ondeggiavano e che si avvicinavano a lui, quasi per sopraffarlo, poi dileguavano, per lasciarlo abbandonato nel vuoto, e il vuoto era ampio, percorso da onde sonore, punteggiato di fiammelle. Ermanno voleva aggrapparsi alla realtà e si sforzava di riflettere raccogliendo disperatamente il pensiero sopra un punto determinato.
Perchè monsignore frapponeva ostacoli al sollecito compimento del suo noviziato ecclesiastico e perchè il vescovo eliminava tali ostacoli? Quantunque egli si trovasse al secondo anno di teologia, il vescovo aveva promesso di ordinarlo suddiacono nelle tempora di settembre e, quantunque fra il suddiacanato e il diaconato debba per norma trascorrere un anno, il vescovo aveva promesso di ordinarlo diacono nelle tempora di dicembre.
L'organo empiva di frastuono le navate, dal coro giungevano gridi altissimi di Alleluja, ed Ermanno frattanto riudiva le obiezioni addotte al vescovo da monsignore con fermo rispetto: «La Chiesa impone di lasciar correre lo spazio di un anno fra il suddiaconato e il diaconato», aveva detto monsignore. «La Chiesa mi autorizza anche ad abbreviare a mio beneplacito tale spazio, e io l'abbrevio per questo zelante, pio giovane», aveva risposto il vescovo severamente.
Perchè monsignore gli era ostile? Perchè? Perchè?
Ermanno si ripeteva la interrogazione, acciocché l'idea non gli fuggisse; ma l'interrogazione gli batteva nel cranio brevi colpi affrettati e l'idea si dissolveva in lembi natanti, che gli volteggiavano per il cervello, rendendolo greve.
Non volle riflettere più, si lasciò annientare dal vuoto, forse il sonno lo colse, e monsignore dovè toccargli ripetutamente la spalla perchè si rialzasse a cerimonia finita. Tutto gli pareva sogno: la folla uscente dalla Cattedrale, gli abiti a colori sgargianti delle popolane, gli ombrellini simili a cupole. Due contadine allegre gli camminarono al fianco per un tratto, cicalando fra loro; una di esse alzò il lembo del mantile da un canestrello infilato al braccio e dentro il canestrello Ermanno vide con ribrezzo delle uova.
Perchè con ribrezzo? Quelle minute superfici bianche oblunghe, lisce, che formavano dentro il canestro una supeficie unica bianca, oblunga, liscia, gli davano sulla cute il senso di serpentelli freddi, che strisciassero e mordessero piano. Perchè?
Non ebbe il tempo di rispondersi; improvvisamente, attraversando piazza San Francesco, provò un calore alla schiena, un calore insostenibile. Era il sole di marzo che bruciava, o l'ombrellino rosso, aperto davanti al portale dell'antica chiesa, che gli arroventava le carni? Oh! no, da quella cupola accesa non poteva venirgli alcun male, poichè Ermanno aveva riconosciuto la bella persona di sua madre, all'ombra rosea dell'ombrellino di seta! La madre gli volgeva le spalle e, vestita di colore tortora, piegava il busto un poco in avanti; il professore Corrado Gigli, due gradini più in basso, sollevava il capo e la guardava; essa pareva sopra un altare e il professore pareva che le stesse ai piedi in atto di adorazione.
La camerata dei seminaristi grandi passò, il professore si tolse il cappello; Vanna si girò e, scorgendo il figliuolo, s'imporporò in viso di rossore.
— Pei riflessi dell'ombrellino - pensava Ermanno - e intanto dai ricordi della infanzia un'altra figura maschile sorgeva, di un altro professore venuto di lontano, e sua madre si faceva riparare anche allora da un ombrellino rosso e anche allora l'ombrellino le inondava il viso di riflessi porpurei.
L'indomani, giorno di Pasqua, non volle recarsi a pranzo in famiglia e, nel refettorio, l'odore sostanzioso del brodo gli provocò un conato di nausea; si alzò in fretta per ritirarsi; ma le tavole del refettorio danzarono, le facce dei compagni oscillarono ed egli cadde svenuto nelle braccia del prefetto.
La malattia non si affacciava con troppa minaccia: una tonsillite accompagnata da febbre; una settimana d'infermeria e pochi giorni di convalescenza. Questo il medico diagnocizzava; ma Vanna era disperata, non trovava requie, mandava per notizie quasi a ogni minuto e si recava ella medesima in seminario di mattina, durante il tempo delle lezioni, acciocchè monsignore le permettesse di vedere Ermanno, che sollevava a stento le palpebre, la fissava con occhi intorbidati e cercava invano di aprire al sorriso le labbra aride.
— La tonsillite dà febbre assai alta - diceva monsignore, tenendo nelle sue una mano del giovane, mentre Vanna, curva ansiosamente verso il figliuolo, crollava il capo e gli sfiorava con dita tremanti le gote accese. Ella usciva sconvolta dall'infermeria, e monsignore, pure tentando di rassicurarla, non si sentiva tranquillo, e presenziava egli stesso le visite del medico, il quale, all'ottavo giorno, cominciò a preoccuparsi, constatando che la tonsillite era scomparsa quasi, e la febbre intanto rimaneva stazionaria. Bisognava star a vedere, e al secondo settenario si videro cose brutte; si vide che la febbre assumeva un corso regolare e che la temperatura sbalzava dai quaranta gradi ai trentasette, cedeva il mattino, risaliva al meriggio, toccava il massimo verso il crepuscolo. Non c'era più alcun bisogno di veder nulla: la malattia si caratterizzava in tifo classico, con violenti mali al capo, dolori all'addome, delirio e vomiti.
Dalla bianca stanza silenziosa della infermeria, Ermanno, inconsapevole, metteva il subbuglio in tutta Orvieto. Domitilla Rosa, oramai senza più un globulo rosso nelle vene, accendeva ceri davanti a tutte le immagini appese alle pareti della sua stanza; Serena attendeva che il medico uscisse dal seminario per interrogarlo con logica stringente e breve, poi correva in piazza Corsica e doveva farsi violenza per non rivolgere parole acerbe a Vanna, che piangeva col viso nascosto dentro le palme; piangere non vale, bisognava agire, telegrafare a Roma, a Bologna, fare consulti, interrogare celebrità mediche! Piangere non vale, e Serena infatti non piangeva, sempre in moto, e quando il cuore le faceva troppo male, essa portava la mano al petto come per aprirselo e liberarsi dal dolore. Soffrire era una cosa stupida, agire si doveva, agire! E fissava con occhi fiammeggianti il professor Corrado Gigli, il quale si presentava a portare una lettera di mammà, dove c'era un consiglio per combattere il male di capo, una ricetta da opporre alla febbre alta.
Bindo Ranieri aveva preso dimora stabile in seminario e, attraversando piazza del Duomo alla sfuggita, per mostrarsi a Villa e darle notizie, gettava sguardi attoniti sulla facciata e si domandava perchè le figure dei santi non si muovessero a pietà della sua angoscia e perchè le statue degli evangelisti non lo confortassero, non dicessero al mercurio del termometro: fermati non salire!
Don Vitale, all'insaputa di tutti, esorcizzava Ermanno mattina e sera, spruzzandolo di acqua benedetta, e anche il Paterino, fra i torrenti di luce del suo negozio inverniciato a nuovo, rimaneva a braccia conserte, escogitando se non fosse giusto che, qualora Ermanno Monaldeschi venisse a morire, il pingue patrimonio di lui andasse diviso fra quei commercianti orvietani i quali avevano sostenuto recenti spese per il decoro della città; e frattanto il vescovo, coltivando forse speranze della stessa indole per il decoro della sua diocesi, andava soventi volte a recare di persona all'infermo l'episcopale benedizione.
Tre quindicine trascorsero così, e intorno al letto di Ermanno il sorgere e il tramontare del sole, il velo scherzoso dell'aurora e il bruno velo della notte incalzante, sparivano, ricomparivano, senza che l'ammalato discernesse l'alternarsi di tali vicende, poichè le ore, in piccoli flutti uniformi, si frangevano per lui senza rumore nè spuma, si ammassavano, si riassorbivano in sè, e l'infermo galleggiava, si abbandonava inerte, toccando i limiti dell'abisso, ove il tempo si perde e l'infinito s'inizia. Spesso, ed egli aveva allora l'impressione che una freccia d'oro gli ferisse di tra le cortine le pupille dolenti, percepiva un fruscio come di fronde agitate e un gemere sommesso di singhiozzi.
— Mamma - egli diceva con voce stentata, e la risposta arrivava come di sotto alle acque di un fiume.
— O figliuolo, Ermanno mio, guarisci, guarisci.
— Mamma - egli ripeteva, ed i piccoli flutti uniformi lo sollevavano, lo sommergevano lentissimamente, ed egli non diceva più nulla, non udiva più nulla.
Spesso anche, ed aveva allora l'impressione che ali fresche gli portassero profumi notturni, scorgeva di notte dormire un uomo buttato su di una branda, e intanto, cauta, silente, un'alta figura entrava, deponeva in terra la lampada, gli si accostava, gli premeva con le mani la fronte.
— Monsignore - diceva Ermanno.
— Figliuolo, coraggio.
— Il respiro mi soffoca.
— Coraggio, figliuolo. Tu sei giovane e la giovinezza ti guarirà.
Ermanno, vagamente, sorrideva nello smarrimento di ogni nozione. Era forse tornato bambino, che monsignore gli dava del tu?
— Monsignore, monsignore - egli balbettava, annaspando con le dita come uomo che affoghi!
— Caro figliuolo, coraggio. La vinceremo questa febbre malvagia - ed Ermanno sentiva due braccia valide che gli cingevano le spalle, lo sollevavano un poco, lo riadagiavano sui guanciali, ed egli ne traeva inesprimibile conforto.
La febbre malvagia infatti, dopo la quarta quindicina, perdette di gargliardìa, poi smise ogni baldanza, si affievolì e finalmente scomparve, lasciando il giovane così affranto e debole che il più delicato suono lo faceva palpitare e l'ala di una farfalla che vola sarebbe bastata a spaventarlo. Vanna arrivava sulla punta dei piedi, sostava discosta dal letto e contemplava in estasi la faccia bianca del figliuolo riconquistato.
— Non la più leggera emozione - aveva imposto il medico, ond'ella si custodiva in cuore le parole ardenti di tenerezza, batteva le palpebre perchè lacrime di gioia non le sgorgassero dal ciglio, mentre sotto le pieghe della veletta scura la felicità le irradiava il viso e lo rendeva stellante.
— Mamma.
— Figliuolo mio, Ermanno.
— Sto meglio.
— Non parlare; taci - e tratteneva il fiato ella stessa, nel timore che il soffio del suo alito potesse nuocergli.
— Ho sofferto - egli le diceva con un filo di voce.
— E io? E io? - ma si pentiva del grido, si faceva umile, avrebbe voluto baciargli i cari piedi, che presto sarebbero tornati a camminare, baciargli i cari occhi dove il raggio della vita risorta brillava.
Bindo Ranieri lo faceva ridere, narrandogli che nei giorni di maggior pericolo un santo evangelista gli faceva l'occhietto dalla facciata del Duomo, e di ciò Bindo Ranieri era tutto riconfortato, perchè un santo evangelista non avrebbe avuto voglia di scherzare se il nobile Ermanno Monaldeschi si fosse trovato davvero in punto di morte.
— E tu? Cosa gli rispondevi tu? Ermanno domandava con gaiezza infantile.
— Io? Si figuri, può immaginare. Coi santi evangelisti è prudente il silenzio - e Bindo Ranieri, battendosi la berretta sulla coscia, rideva ampiamente, ed Ermanno chiudeva le palpebre per gustare meglio la sonorità di quella gioia espansiva.
Un dopopranzo Bindo Ranieri gli portò un mazzetto di gelsomini di Spagna legati da un filo d'oro.
— Ecco, da parte di Serena, con mille auguri.
Ermanno prese il mazzetto e si mise a ridere. È vero, nel mondo c'era anche una signorina che si chiamava Serena!
Egli lo aveva dimenticato, ma se ne rammentava adesso con piacere. Nello sfondo puro dell'esistenza, che per lui ricominciava candida al pari di un'alba, gli era grato di trovare un'altra persona amabile, che lo festeggiava con mazzetti di gelsomini.
— Cosa diceva durante il mio male? - domandò.
— Era più che mai grano di pepe. Si arrabbiava con tutti. A lasciarla fare, sarebbe venuta qui per prendere a pugni la febbre.
— Già, come quando prendeva a pugni la pioggia.
E pensando a Serena, ridevano di gusto, insieme, il grosso omone bonario, il giovane chierico sapiente.
In quei primi giorni della convalescenza Ermanno era veramente un bambino, e sorseggiava la vita come il poppante sorseggia il buon latte nutritivo che gli dà forza. Nessun pensiero, ma un succedersi delizioso di sensazioni, una meraviglia nuova per ogni voce, un soave incanto per ogni mattina quando si svegliava, avvertendo che le membra gli diventavano docili all'impulso dell'istinto.
Mangiare, bere, dormire, svegliarsi, guardare dal suo letto le cime degli alberi oscillanti all'aria oltre la finestra spalancata, ascoltare in pace il suono delle ore, non avendo rimpianti per le ore fuggite, nè desideri per quelle fuggenti. Oh! vivere, che buona ineffabile cosa! Ma, a poco a poco, saziata la curiosità di riconoscere gli oggetti esteriori, lo punse curiosità di riconoscersi, e cominciò a scrutarsi nell'intelletto. Immaginava di trovare una devastazione e invece trovò una fioritura fresca, aulente, minuta, di nuove idee ancora incerte, simili ancora tra loro, come quando la bufera è passata devastatrice al disopra di un campo ubertoso, e al posto delle vecchie piante sradicate, altre pianticelle diramano pel suolo radici bianche, sottilissime, simili a fili. Egli si inebriava in sè per quella feconda primavera dello spirito, orgoglioso anche nel constatare che il lavoro dei ventidue anni trascorsi non era perduto e che le sottilissime radici bianche avrebbero assorbito rapidamente succo vitale dal buon terreno dissodato e sarebbero diventate robuste, fruttificando.
In quell'ultimo biennio si era accanito nello studio della teologia con furore cieco.
La teologia dommatica, la teologia morale, la Sacra Scrittura, la Sacra Eloquenza, la Storia ecclesiastica, l'ascetica, tutto egli aveva sospinto nel proprio cervello con la prepotenza della volontà, in lui imperiosa, contro la ragione in lui ribelle. Le fonti della rivelazione, il mistero del verbo uno e trino e del verbo incarnato, gli statuti dei sacramenti, gli studi sui testi sacri nelle versioni greche e latine, l'archeologia biblica, le virtù della vita illuminativa erano state per lui altrettante battaglie combattute nel suo secreto fra la coscienza implacabile nella volontà di credere, la ragione implacabile nella volontà di discernere. Sempre dentro le aule gli stessi fatti erano accaduti, come quando egli frequentava le classi del liceo: professori dotti, anzi dottissimi, versati nelle rispettive discipline, procedenti nelle indagini con modernità razionale di metodi; poscia i medesimi professori prendevano i medesimi fatti disposti naturalmente a seconda della logica, e li snaturavano, li tradivano, per edificare, sopra le loro basi teorie inaspettate, per trarre dalle premesse stabilite, con acume sapiente, conseguenze illogiche.
I chierici, in genere, prendevano appunti, mescolavano il tutto, versavano la miscela nei propri cervelli e la restituivano intatta nei giorni degli esami; alcuni pochi discutevano dentro le aule coi professori, discutevano dentro le camerate fra loro. Le parole suonavano colme di ossequio al domma; la tomistica giganteggiava, proiettando luci ed ombre dai massi ciclopici della sua vasta mole: sincere fervevano le anime, gl'intelletti volevano rimanere sottomessi, e intanto l'idea, corrente sotterranea che s'infiltra, consuma di nascosto le pietre, e le scalza con secreto lavorio instancabile, lambiva i muri della patristica, ed i muri crollavano, mentre appunto i chierici più intelligenti si esaltavano nell'illusione di aver piantato sopra la cime di essi il vessillo della loro fede.
Ermanno difficilmente interloquiva, ostinato nel rifuggire da qualsiasi indagine, valendosi anzi dell'intelletto, esercitato alla ginnastica dei sillogismi scolastici, per frapporre sempre nuovi ostacoli tra la fede e il libero pensiero. Perchè dunque, nel benessere della convalescenza, egli si turbava adesso? Perchè di tante rovine era seminata la sua mente e perchè sulle rovine una vegetazione rigogliosa andava fiorendo? Era bene? Era male? Bisognava estirpare le nuove piante o lasciare ch'esse acquistassero vigore? Ermanno non sapeva decidere, troppo stanco, inabile tuttavia all'esercizio della volontà.
Da circa dieci settimane egli rimaneva immobilizzato, e il vigore tornava con progresso lento, reso anche più tardo pei calori eccessivi del giugno che finiva. Il medico impose che Ermanno si recasse in campagna con la famiglia almeno fino tutto il settembre, e mantenne fermi i suoi ordini, quantunque il vescovo si mostrasse apertamente ostile all'idea di far uscire di seminario per tre mesi il giovane Monaldeschi. Dovè cedere peraltro, perchè i regolamenti prevedono il caso in modo specifico ed ammettono la dimora in famiglia dei chierici infermi o convalescenti. Fu in tale occasione che si accentuò il dissidio latente tra il vescovo e monsignore; dissidio adorno di benevola superiorità pastorale da un lato, di profondissimo ossequio dall'altro; il vescovo, senza manifestarlo, avrebbe preteso l'alleanza del rettore a scapito dei regolamenti, e monsignore, senza parere, aveva appoggiato i regolamenti con tutta la sua autorità.
Il ventinove di giugno dunque, festa di San Pietro, Ermanno Monaldeschi lasciò il seminario dovendovi rientrare nell'autunno per essere ordinato suddiacono; nell'attesa dell'ordinazione, monsignore consigliò di abbandonare per quei mesi di villeggiatura la veste di chierico; l'abito secolare è più comodo sopratutto più opportuno per aggirarsi da mane a sera fra campi, come il medico aveva ordinato.
Sull'ora propizia del tramonto, Vanna doveva condurre il figliuolo nella loro villa, a poche miglia da Orvieto; i preparativi fervevano, e Palmina correva in faccende per le stanze; Vanna, seduta in salotto, ascoltava a capo chino, sorridendo con qualche impaccio, le frasi roride del professor Corrado Gigli, il quale si rendeva interprete della gratitudine inesprimibile di mammà per le cortesie, le dolcezze, la bontà amabile della signora in favore di bèbè. Quando il professore Corrado Gigli prendeva ardire per esporre qualche sentimento troppo audace alla signora Monaldeschi, non trascurava mai di attribuire l'espressione di tali sentimenti alle lettere di mammà:
— Oggi mi scrive che lei è un angiolo - egli disse al momento di congedarsi e guardandosi la punta delle scarpe - mi scrive di non domandare traslochi, giacchè Orvieto è per me da due anni più bella di un Paradiso. Così mi scrive mammà. Lei è un angiolo, signora Vanna, un vero angiolo - e, nella sincerità del suo zelo di ambasciatore, le prese una mano e gliela baciò.
Vanna arrossì per tutto il viso, tutto il collo, e gli rispose:
— Grazie, grazie, si diverta a Bologna, ci torni in buona salute - e un poco smarrita gl'indicò la porta del salotto e scese in giardino per vedere che cosa stava facendo il caro figliuolo.
Ermanno leggeva, seduto all'ombra di un platano, e Vanna gli si pose accanto, mentre al lato opposto del giardino Pericle Ardenzi e Serena passeggiavano adagio per il viale, chiacchierando fra loro. Pericle Ardenzi era diventato un personaggio quasi importante: nel prossimo ottobre si sarebbe coperto di onori, laureandosi in belle lettere, con una tesi da far epoca, e intanto prendeva parte a Congressi storici, trattava di archeologia sopra giornali e riviste, si accarezzava con rispetto la barba nera, lunga oramai fino a toccargli la cravatta, punzecchiava gli eruditi, che si degnavano rispondergli. Esponeva precisamente a Serena con soddisfazione le vicende amene della sua ultima punzecchiatura a un architetto insigne, e Serena ascoltava con gravità, da signorina diciottenne agguerrita dall'esperienza ad accogliere con senno e discernimento confidenze d'indole scientifica ed a largire in proposito maturi consigli. Ella indossava un abito di mussolina bianca a ricami, proprio come nell'epoca eroica delle sue gesta infantili; ma il velo azzurro svolazzante intorno alle falde del cappello, ombreggiava i riccioli capricciosi ancora, non più scapigliati.
Era una signorina, una signorina vera, che ricamava con dita esperte i piviali affidati a zia Domitilla Rosa, che sapeva di storia e di poesia, che leggeva di latino sui libri sacri di zia Domirò, di francese sui volumi profani di Pericle Ardenzi, e che, quando si arrabbiava, la qual cosa le accadeva assai spesso, preferiva aggrottare le ciglia o mordersi le labbra, anzichè lasciarsi uscire dalla chiostra dei nitidi dentini parole brutte di collera.
— Signorina, mi dia un consiglio - Pericle Ardenzi le disse, troncando a mezzo una dissertazione e fermandosi all'estremità più solitaria del giardino.
Il velo azzurro si gonfiò nell'aria e il nasetto ardito di Serena si arricciò tutto nello sforzo che ella fece di concentrarsi mentalmente.
— Vorrei perpetrare una corbelleria - e Pericle Ardenzi rideva, stropicciandosi le mani.
La signorina lo sbirciò maliziosa coll'angolo degli occhi vividi e gli disse:
— Non ha bisogno del mio consiglio per questo: può bastare lei solo.
— No, io solo non basto; è necessario essere in due. Si tratta d'una corbelleria colossale.
Serena alzò il capo gioiosamente. Una corbelleria colossale? Ma allora si trattava di cose allegre.
Pericle Ardenzi si accarezzò la barba con tal quale turbamento.
— Cose allegre? No, no, signorina, tutt'altro. Si figuri, che ho intenzione di prender moglie. Una laurea in tasca, una moglie sotto il braccio e avanti senza paura alla conquista della fortuna.
— Ma non è una corbelleria - Serena disse convinta. - Lei mi pare più savio dei sette savi della Grecia, pensando questo.
Pericle Ardenzi ricominciò a passeggiare, movendosi con gioconda nervosità.
— Lei approva dunque?
Serena approvava molto e si rallegrava di gran cuore.
— Se approva acconsente; è cosa detta. La sua povera zia Domirò potrà campare un paio di mesi al più; dopo averle chiuso gli occhi, lei aggiusta le sue faccenduole, io faccio una corsa qui...
Serena lo interruppe, fermandosi a sua volta.
— Parla di me lei?
Sicuro, Pericle Ardenzi parlava di Serena.
— E di chi vuole che io parli? Lei ha ancora la testa un pochino campata nel vuoto; ma, fra qualche anno, lei sarà una donnetta rara. Si fidi pure del mio giudizio. Lei sarà una donnettina rara, intelligente, schietta, leale, pronta al buono e cattivo della vita. E poi mi piace. Con quella sua aria di me ne rido, con quelle sue gote di melograno, lei mi piace. È cosa detta.
La signorina approvava che altri rendesse giustizia ai suoi meriti e largheggiava anche nel rendersi giustizia da sè, onde non contrappose neppure un minimo briciolo di modestia agli elogi dell'archeologo.
— Sì, credo anch'io che farò buona riuscita. Su questo siamo d'accordo, ma io non voglio sposare lei.
Pericle Ardenzi rimase alquanto sconcertato.
— Lei non vuole sposarmi?
— No.
— E perchè?
— Perchè no, perchè non voglio.
— Non le piace la mia barba? Potrei tagliarla - Pericle disse, forzandosi alla celia, ma punto nel più vivo dell'anima dal rifiuto inaspettato.
— No, la sua barba le sta bene e mi piace; anche lei mi piace. È bravo, è allegro, ha voglia di fare e di arrivare.
Pericle Ardenzi ebbe un moto iroso.
— Lasci andare, per carità. Lei fa come il chirurgo quando immerge il bisturì nelle carni. Parole di zucchero e intanto la lama brucia.
Madamigella s'irritò; essa non professava 1a chirurgia e non voleva far male a nessuno; semplicemente il matrimonio con Pericle Ardenzi le sembrava assurdo, quantunque la cosa in sè potesse anzi apparire straordinariamente ragionevole.
— Vuol rinunciare al matrimonio? - Pericle chiese con disprezzo.
No, no, nemmeno questo era nei progetti di Serena, ed a tutte le interrogazioni, le sollecitazioni di Pericle Ardenzi ella rispose evasiva, con circospetta diplomazia.
— Io dovrei serbarti rancore - Pericle disse, poco dopo, e Ermanno, salutandolo. - Tu, senza volerlo, scompagini tutta la mia vita. Ma non ne hai colpa.
Ermanno lo guardò meravigliato.
— E chi ti prega di capire? Capisco io e mi basta.
— Che discorsi mi fai? Spiegati - e voleva trattenerlo; ma Pericle Ardenzi, avendo fretta, gli stese la mano e se ne andò.
Ermanno conosceva l'amico per un famoso originale e non dette gran peso alle parole di lui; ma ci ripensò, ci riflettè più tardi, mentre i cavalli della carrozza trottavano per la via maestra, e Vanna, adagiata al suo fianco; gli teneva una mano sopra il ginocchio, e la campagna esalava un odore succoso di spighe recise e di pesche mature.
— Come mai, mi ha detto così? In che modo posso avergli scompaginata tutta la vita? - Ermanno si domandava, cedendo alla sua abitudine di tornare sopra le idee per iscrutarle fra sè.
Non ebbe agio di rispondersi, distratto dal suono di un voce di donna che stornellava di amore, camminando scalza pei solchi e portandosi una falce in ispalla. Brillava la falce agli ultimi raggi del giorno e formava ampia aureola intorno alla chioma biondissima della stornellatrice.
Spera di sole, tramonta il sole nell'acqua del mare; le stelle in cielo parlano d'amore.
— È la vedova dei campi - disse Palmina, seduta in serpa, e volgendosi con sorriso di beffa verso l'interno della carrozza.
— Già, è la vedova dei campi - Vanna disse e la bocca le si contrasse in una ripiegatura lieve di nausea.
— Chi è la vedova dei campi? - Ermanno chiese.
Palmina rise, il cocchiere anche rise; Vanna tacque.
La voce piana, distesa in larghe onde sonore, si diffondeva sempre più libera per la campagna fragrante:
Spera di sole, tramonta il sole nell'acqua del mare.