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ridendo anche lui, faceva l'atto di precipitarsi: allora la mamma spaventata gridava: - Non fare pazzie, Gentile - e chiamava il contadino che l'aiutasse a rialzare presso il tronco la scala. Egli e Serena guardavano i pomi occhieggiar di tra il verde e piangevano per averli. Ermanno non rammentava se questo era accaduto di mattina o di sera: ma rivedeva con precisione l'abito rosa di sua madre e la comica smorfia, nel pianto, del musetto di Serena.

La secchia del pozzo gli narrava di un misero gattuccio da poco nato, ch'egli e Serena avevano immerso nell'acqua per fargli prendere un bagno; il gattuccio era morto e Serena lo aveva deposto dentro il suo cuffiotto; così, processionalmente, essi lo avevano portato a Titta, il quale aveva buttato via il piccolo mucchietto viscido e aveva appeso il cuffiotto allo spino di una siepe.

Dovunque, sempre, quel cuffiotto biancheggiava nel ricordo e, sotto le ali ampie, il viso mobile, la personcina irrequieta di Serena.

Ermanno, guardando, pensando, ritrovava sè stesso, e la giovinezza gli si riattaccava all'infanzia con mille fili.

Un'altra sensazione, stranamente gradevole, gli conferiva stupore e benessere; la sensazione di udire voci femminili, di mirare gesti di mani femminili.

Durante gli anni del seminario, egli non era stato davvero soggetto a clausura; aveva passeggiato giornalmente per le vie di Orvieto, era stato