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il buon sangue le montava alla faccia per una parola che non le piacesse o per uno scherzo che le paresse ardito. Chi l'aveva dunque domata così la bellissima creatura di forza e di salute? Perchè aveva quell'andatura di mollezza stanca e perchè il capo le si chinava spesso come sotto il peso di una volontà estranea, che la spaurisse, mentre gli occhi alteri e dolci le si velavano all'improvviso per l'ombra di uno sgomento? E perchè l'intelligenza di lei, di cui Fritz Langen ammirava talvolta l'agilità schietta e pronta, appariva abitualmente pigra, ritrosa all'esercizio, costretta nei lacci di una servitù perenne?
Fritz Langen sentiva monna Vanna ripetere a ogni momento: «Questo non si può dire, è peccato; questo non si può fare, è vietato; la chiesa non permette di pensare così; Iddio mi punirebbe se io facessi questa cosa. Noi dobbiamo diffidare di noi; la natura umana è fallace; la nostra volontà è la nostra nemica».
Fritz Langen, ascoltando tali discorsi, le diceva, ridendo, che ella si fabbricava intorno una gabbia con le sue stesse piccole mani: una gabbia di terrori e di pregiudizi, dove sarebbe rimasta prigioniera e che le si sarebbe stretta addosso ogni giorno di più, impedendole di muoversi e di godere.
— La terra è vasta - egli la incitava. - Il mondo è bello! Cammini, monna Vanna, e colga fiori! Lei dovrebbe star bene inghirlandata!
Vanna a simili parole affrettava il passo, come