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binieri, ma poi rilasciati subito. Le case di Orvieto non erano dunque precipitate nel fondo del fiume Paglia dalle vette della roccia; il buon Maurizio non aveva interrotto la regolarità del suo martellare, in cima della sua torre, e non una delle statuine di alabastro, nel negozietto di Bindo Ranieri, si era scomposta dalla grazia pudica dei suoi atteggiamenti: eppure la città appariva devastata come da un flagello, e il Paterino, furtivo, guardandosi attorno, era sguisciato dalla via del Duomo nel viottolo scosceso, per domandare asilo a Bindo Ranieri. Non si fidava di tornare nella sua casa. I carabinieri avevano forse avuto l’ordine di caricarlo di catene e buttarlo nel fondo di una prigione.
Fritz Langen, il quale non si era negata nemmeno la particolarità più insignificante del tafferuglio, e che restava adesso unico signore delle vie di Orvieto, si recò a tirare il campanello al portone di piazza Gualterio. Titta apparve cauto a una finestra del pianterreno, dietro l’inferriata, e disse che il signorino, per consiglio di monsignore, era stato mandato in campagna la sera innanzi con Domitilla Rosa, Palmina e Serena, e che la signora, fin dal mattino, si trovava sola, nascosta nella casetta di Domitilla Rosa.
— E perchè? — domandò meravigliato Fritz Langen.
Titta rispose in tono evasivo che, nei momenti di rivoluzione, i personaggi più in vista sono i più esposti al pericolo, e che la prudenza è una virtù cristiana.