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250 iii - il libro della bella donna


solea, salvo che delle ingiurie fatteli) qui lo vi perdono, e non voglio gareggiare con esso voi, di cui la disgrazia mi sarebbe tanto discara quanto non saprei dire il piú. Ma sono ben certo che, se Vostra Eccellenza avesse saputo l’amore ch’io le porto, Ella m’avrebbe iscusato e si saria temperata in ogni modo nel parlare ch’essa mi ha usato. Ma, ritornando alla donna nostra, dico ch’io era poco fa, se di memoria non pecco, occupato nella qualitá delle poppe, e, avendovi io divisato quali elleno debbon essere in lei, convenevole cosa sará, per mio parere, ch’io mi volga ora alle spalle ed alla schiena. Quelle all’uomo, ove larghe e spaziose egli le viene ad avere, essere dicevoli ce lo scuopre al secondo della Eneide, sotto la persona di Enea, il gran Vergilio; e, benché io non abbia autore per la donna, nondimeno, se in ella fussero tali, io non le direi nè appellerei brutte, e massimamente se io le vedessi ancora terse e belle e dritte appresso, come voglio ch’elle sieno e ch’elle vi si trovino. Questa poi sará anzi vaga che no, quando a’ riguardanti si mostrerá da ogni parte leggiadra, e dolce, e morbida sí, che di pianamente percuoterla, e come Amore insegna, a punto loro ne verrá voglia e talento. Delle braccia poi, per venire a loro, non picciola bellezza scorgerassi se delicate, grossette e dolci al tutto fieno e gentili, come quelle di Laura alla canzone che incomincia «Si è debile ’l filo»; e se saranno, il che voglio che sia in loro, di quel potere delle medesime, il quale ci è noto per quel sonetto, il cui principio è «Da piú begli occhi», non potranno non essere bellissime e di somma e perfetta beltá adornate. Ma questo non averrá cosí agevolmente, se prima elleno non averanno in sè la purissima candidezza di quelle della bella Amaranta nel Sannazaro e delle non indegne compagne ed amiche tutte di lei. A queste sono congiunte le mani, delle quali, volendone io parlare, dico ch’egli mi piacerebbe stranamente di vedernele bianche. Laonde il Petrarca nella su allegata canzone tali le pone in Laura, e nel sonetto «Orso, e’ non furon mai». Le vorrei, dico, tanto bianche che di bianchezza si appressassero all’avorio, come il Bembo, nel cosí spesso addutto sonetto «Crin d’oro crespo», mostra averle