Il cappello del prete/Parte seconda/V
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V.
Alle corse.
La giornata non avrebbe potuto essere più splendida. Grande fu il concorso delle carrozze, dei «foor-in-hand», dei «tilbury», dei «coupés», dei «breaks», delle belle signore, e forte il numero delle scommesse.
I «bookmasters» fecero splendidi affari, e più di duecentomila lire girarono in poche ore sul campo del «turf».
«Andreina» battè d’una lunghezza «Lazio», il grande favorito del futuro «derby», e diede la vittoria alle scuderie napolitane, di cui era presidente il marchese di Spiano.
Indescrivibile fu l’entusiasmo in tutti quei bravi signori, e gli applausi, le carezze, i baci accolsero la bella cavalla, a cui le signore gettarono i loro mazzetti di fiori.
Il popolo accorso, se non si commosse per un trionfo che lo riguardava poco, non tralasciò tuttavia dal gridare; e i rivenditori di acque cedrate e fresche, di aranci, di cocomeri e di ventagli giapponesi fecero anch’essi dei grassi affari.
Quando cominciò il ritorno, nessuna penna potrebbe dare un’idea del movimento, del brio, del bisbiglio, del visibilio dei colori, del correre, del gridare, dell’allegria sfolgorante in quell’aria piena di sole e di azzurro.
Era un chiamarsi, un salutarsi dall’alto delle carrozze, un rincorrersi di cavalli e di pedoni, una miscela di livree, di piume, di giubbe rosse e bigie, di ventagli, di parasoli scarlatti, di strascichi, di veli svolazzanti; un scintillamento insomma di brillanti e di occhi di fate.
«U barone», rinnovato e trasformato, aveva fatto una corte spietata alla principessa, che intendeva giocare di capriccio e mirava, coll’accettare l’adorazione di Santafusca, a vendicarsi di un segreto tradimento.
Santafusca prese i sorrisi della bella donna nel miglior senso. Era sempre stato il suo sistema di non cercare mai alle donne più di quanto vogliono dare: e in fondo s’era sempre trovato contentissimo.
L’aria, la luce, il calore delle scommesse, le ansie delle corse, tanta gente, tante belle signore richiamarono tutte le forze vive dell’uomo nato per godere la vita in tutta la sua ampiezza, senza reticenze e senza penitenze.
— Eccellenza, eccellenza.... vede che non l’abbiamo disturbata.
Così gridò la voce del cavaliere Martellini, che dall’alto di un «break» signorile cercava di conciliare in mezzo a un paniere di belle signore la rigida severità del giudice, coll’amabile cortesia dell’uomo di mondo. Questo si chiama scrivere la propria vita un po’ coll’inchiostro, un po’ col rosolio; e pochi uomini erano in quest’arte più sapienti del cavaliere.
— Grazie, grazie!... — gli gridò dietro il barone agitando la mano in aria.
— Non mi ringrazi troppo, perchè sono capace di farlo arrestare.... colla bella complice, — esclamò il cavaliere parlando nelle mani come dentro una trombetta.
— Faccia pure; non mi opporrò alla forza....
Grandi risa risuonarono sull’alto del «break», che scomparve in mezzo a un nuvolone di polvere.
— Perchè vuole arrestarvi, barone? — chiese la bella amazzone che cavalcava al suo fianco.
— È ancora la storia di quel processo.
— È proprio vero che fu assassinato un prete a Santafusca? Me ne parlava ieri sera il conte Villi. Che brutta storia! fu trovato l’assassino?
— Ci sono dei sospetti.... — rispose il barone guardando in aria.
— Qui non è il caso di dire «cherchez la femme»....
— No, piuttosto «cherchez le chasseur».
— Siete proprio persuaso che il colpevole sia questo mitico «Freischutz»?
— Sì, come sono persuaso che vi amo.
— Ci avete pensato tre giorni per dirmelo.
— È un amore con aggravante di premeditazione....
La bella principessa italo-spagnuola sorrise adorabilmente. «U barone» fe’ sentire gli sproni al cavallo, e tutti e due, che erano usciti alquanto dalla folla, si slanciarono a un trotto vivo, spronandosi a vicenda cogli sguardi.
Un vivo e gagliardo fiotto di sangue nuovo rianimò un uomo che stava per invecchiare nei suoi pensieri. Il sole, un buon cavallo e l’amore sono tali beni, che la vita non può godere di più.
La vita dell’uomo libero, padrone della sua salute e del suo denaro, è il paradiso terrestre perduto dal vecchio Adamo. Che importa, a chi possiede Eva e il paradiso terrestre, ogni altro paradiso fabbricato sulle nuvole? «U barone» lasciava volentieri questo paradiso sopra le tegole ai poveri di spirito.
Una chiara e vigorosa coscienza della sua forza, lo fece pronto a sostenere l’ultima battaglia. Accompagnò a casa la stupenda amazzone, che nel dirgli «a rivederci» gli lasciò nel palmo della mano una grande promessa, e raggiunse di Spiano e l’Usilli alle scuderie.
— Dunque una grande vittoria, Santa.... — gridarono gli amici.
— Se saranno denari, li piglieremo, — rispose il barone.
La fortuna seguitava ad aiutarlo. Tra scommesse grosse e piccole aveva vinto ancora venti o trentamila lire. Quest’abbondanza di denaro non faceva ormai più effetto ad un uomo che per quindicimila lire aveva dovuto ammazzare un prete. Sottentrava quasi in lui la convinzione che non gli poteva mancar più, che ne avrebbe trovato dappertutto, solamente a grattare la terra. Vinceva e spendeva senza contare, come se il tesoro rinchiuso nella sua scrivania avesse la virtù di rinnovare sè stesso e di moltiplicarsi.
Uscendo dalle scuderie cadde nelle braccia di Cecere, il grosso cronista-impressionista dell’«Omnibus», un giornale che conta ormai più di cinquant’anni, e che Cecere col suo stile a scatti, ad asterischi, a virgolette, aveva da qualche tempo ringiovanito.
— Barone, — gridò Cecere, — voi venite proprio, se non è irriverenza, come il cacio sui maccheroni.
— O bravo Cecere, volevo scrivervi uno di questi giorni, — disse il barone.
— E io volevo venire da voi, eccellenza. Non si stampa due volte il nome di un uomo senza sentirsi un poco suo parente. È la consanguineità dell’inchiostro....
Cecere, dalla faccia molle di fratacchione sbarbato, rise, mostrando due file di denti grossi e bianchi come quelli di un ruminante.
— E chi ci vieta di pranzare insieme?
— Qual dei Numi? — declamò Cecere, che si impadronì molto volentieri del braccio d’un uomo che aveva vinto alle corse. — Ho bisogno di molte indicazioni sulla gran giornata d’oggi, ed è sempre una fortuna per un giornalista quando può dire di aver attinto a una fonte «ineccepibile». Ma ciò che m’importa di più, barone, è di ottenere da voi il permesso di visitare Santafusca.
— Oibò! — disse senza pensare «u barone».
— A tanto intercessor nulla si niega!... Io devo insistere su questa mia istanza, perchè il mio direttore si è già meravigliato due volte che io non sia ancora andato sul luogo del misfatto. Se egli si meraviglia una terza volta, non gli resterà più modo di meravigliarsi.... e allora come si fa?
— E chi vi dice, signori miei, che vi sia stato un misfatto? — esclamò il barone mentre entrava con Cecere nella sala del caffè dell’Europa.
— Regola generale, per un giornalista, un misfatto esiste sempre e specialmente quando si accorge che non esiste. Questo processo del prete ha troppo interessato i nostri buoni lettori perchè si possa ora disgustarli con un non farsi luogo a procedere. Noi abbiamo bisogno di galvanizzare il nostro morto, di farlo vivere oggi per ammazzarlo dimani, seppellirlo dopo, esumarlo più tardi, e ciò almeno fino alle prossime elezioni politiche, cioè fino a nuovi assassini politici. E perchè non faremo tutto ciò con un morto, se lo facciamo sempre coi vivi?
Cecere tornò a ridere e a mostrare i suoi bellissimi denti di bue, mentre si ravvolgeva nel tovagliolo e cominciava la pulitura dei piatti e delle posate che il cameriere gli metteva davanti.
— Se sapeste quante volte vi ho mandato al diavolo per questo vostro processo!
— Chi manda al diavolo un giornalista, lo manda a casa di suo nonno. Il divino poeta ha detto che il diavolo è il padre della menzogna, e noi siamo i figli della figlia.... capite.
— Ebbene, sentiamo, — esclamò il barone che si sentiva in vena di parlare, — quali sono le indicazioni che vi abbisognano?
— Posso dire almeno d’avervi intervistato?
— Non sono il principe di Bismarck.
— Per un cronista oggi voi siete qualche cosa di più, e voi non potete indovinare il piacere che io farò ai miei lettori quando potrò scrivere, per esempio, queste parole: «Abbiamo ieri parlato con sua eccellenza il barone di Santafusca, uno dei più simpatici giovani gentiluomini».
— Giovane, ahimè!...
— E non si è giovani quando si ha la fortuna di accompagnare la bella principessa di Palàndes?
— E stamperete anche questo?
— Adesso no.
— Siete animali.
— Non per nulla un uomo si fa tagliare la barba alla «derby» e si fa morbido il mento.
— Che cosa volete dire? — chiese il barone con voce velata.
— Che voi siete giovane, innamorato e fortunato! Lasciate fare. Non mancherò di far nota questa circostanza alle nostre gentili lettrici. Io non vi darò che trent’anni. Dunque riassumendo, — come dice il professor Spaventa — voi avete una villa a Santafusca.
— Sì.
— Stile?
— Seicento, mezzo barocco...
— Bene quel mezzo barocco; lo sfondo è più scenografico. Villa splendida, s’intende....
— Al contrario, rovinata.... cadente.
— Stupendo: ciò è romantico.... e farà bell’effetto.
E il cappello fu trovato nella villa?
— Io non so nulla.... Siete voi che lo avete detto.
— Ciò risulta dal processo. Quale opinione avete voi su questo delitto del prete?
— Cioè? — chiese il barone, versando del vino.
— Credete che il prete sia stato ucciso nella villa?
— Io? — e il barone portò il bicchiere alle labbra e lo vuotò. — Che ne posso sapere io? Siete voi che avete ucciso questo prete. (E intanto faceva di tutto per ridere). Io ho dato un’occhiata alle vostre ciarle, quando mi hanno detto che era implicato il mio nome, e mi pare di aver capito che c’è di mezzo un cacciatore, che avrebbe trovato il cappello del prete, che sarebbe stato veduto prima a Santafusca, poi alla Falda, all’osteria del «Vesuvio»; avrebbe dato ad intendere d’essere il nipote del prete...., un pasticcio che il peggio non mangeremo quest’oggi, se vi piacciono....
— Ad ogni modo, se voi foste chiamato in tribunale a dire la vostra opinione, trovereste probabile questa versione che accusa il misterioso cacciatore....
— Se c’è un delitto....
— Se c’è la lepre, ci dev’essere anche il cacciatore, voi dite.
Il barone si sforzò ancora di ridere, ma non potè che tossire. Versò ancora del vino. Lo tracannò in fretta, e volendo ribadire un’opinione, che nel peggior dei casi avrebbe aiutato a salvarlo, continuò:
— Non dico che il cacciatore abbia ucciso il prete piuttosto a Santafusca che altrove. Può essere che siano molti i colpevoli, che l’abbiano affogato in mare dopo avergli rubati i denari, e che uno di loro, cacciatore o meno, abbia gettato il famoso cappello al di sopra del muro di cinta del mio giardino, cinque, sei, dieci miglia lontano dal luogo del delitto per deviare le traccie della giustizia.
— Può essere così.... È alto il muro di cinta?
Il barone non rispose. I suoi occhi erano fissi alla porta, da dove vedevasi il banco dell’albergatore.
— È alto?
— Che cosa? — chiese il barone sempre fisso a quella porta.
Cecere si voltò e vide che due carabinieri stavano mostrando un foglio al padrone, chiedendogli delle spiegazioni.
Il dialogo fu interrotto dal cameriere.
— Che cosa desiderano ancora?
— È sua eccellenza che comanda in questi feudi.... — disse Cecere.
— Per me non so.... dite voi.... Mi sento la testa pesante e balorda. C’era troppo sole laggiù.
Il barone si fregò la testa colla mano come se volesse cancellare le rughe della fronte.
— Poichè abbiamo parlato di cacciatori, proviamo un pollo alla cacciatora, — disse Cecere.
I due carabinieri scomparvero e il padrone tornò al suo posto.
Cecere, tutto occupato a consumare il pranzo in salsa gratis, credette sinceramente che il barone avesse preso troppo sole, e gli disse:
— Un buon rimedio è un sonnellino.... Del resto, eccellenza, ci perdete poco a non aver appetito. Avete mai visto un pollo più apocalittico di questo? Mi pare di aver sul piatto lo scheletro del nostro prete.... Questi signori si burlano della stampa e dello sport, bisognerà ch’io dica anche questo nell’«Omnibus».
Cecere scrisse su un taccuino alcune parole: cappello.... cacciatore.... muro alto.... prete e pollo magro — e dopo un gran fiume di parole, che «u barone» non ascoltò colla scusa del suo mal di testa, se ne andò contento della sua giornata.
*
Il barone rimase solo, colla testa appoggiata alla mano e gli occhi in apparenza fissi sulla carcassa che Cecere aveva lasciata sul piatto. Si sentiva veramente male. Quegli stupidi discorsi, l’allegria fatua e volgare di Cecere, la vista di quei due gendarmi, che parevano venuti per cercare qualcuno, avevano rimosso il sangue guasto delle sue vene, ed egli ripiombava ora più gravemente nella dolorosa contemplazione del suo pensiero.
Da venti giorni menava una vita ladra, disperata, piena di scosse e di spaventi, di speranze, di sforzi erculei per sorreggere l’edificio artificiale ch’egli aveva edificato sul suo delitto.
Aveva perdute molte notti al giuoco, nell’orgia, e per molte giornate aveva cercato la forza e l’oblio al chiasso, alle stalle, ai cavalli, ai liquori, al vecchio Medoc. Oggi, dopo una giornata di gran sole, si sentiva veramente, la testa riarsa e incapace di connettere due buone idee. Era una condizione pericolosa per un uomo che aveva bisogno di ragionar molto bene e di far ragionar gli altri a suo modo. Anche il cuore, quel benedetto cuore già malato, si faceva sentire più del solito....
E intanto non aveva nemmeno fame. Se beveva, lo faceva più per stordirsi che per piacere. Egli non aveva dato ancora quella tale scossa forte alla vita che doveva far cadere tutte le foglie morte, e sentiva che non sarebbe mai uscito dai suoi pensieri, finchè non fosse terminato quel maledetto processo.
Per fortuna le testimonianze erano tutte concordi per dimostrare l’innocenza di Giorgio della Falda. Ma se per un errore giudiziario il castigo fosse caduto sopra un innocente, avrebbe avuto egli il coraggio di aggiungere questo delitto al primo?
Per quanto un uomo valga una lucertola, gli sarebbe ripugnato di far soffrire un uomo vivo. Si può non aver paura degli spettri, ma ci sono pensieri che fanno più paura degli spettri.
Pensare, ecco il castigo!
Egli aveva sperato troppo in una scienza: ed era la scienza che aiutava a creare e raffinare la sua coscienza.
Quel caro dottor Panterre forse era uno stupido anche lui. Solo le belve divorano senza rimorso; e pace egli non avrebbe trovata mai, mai, lo sentiva, se non a patto di abbrutirsi a poco a poco nell’orgia e nel fango.
La bella principessa gli aveva detto «a rivederci»; ma egli non ci sarebbe andato. Quella graziosissima creatura, avvolta, in una nube di profumi orientali, dagli occhi vellutati e pensosi, dalla voce piena di note musicali, non avrebbe fatto che ingentilirlo e farlo soffrire di più. Era già troppo Marinella colla sua giovialità incoscente di bella bestiolina.
Il barone di Santafusca non avrebbe mai potuto conciliare il suo cuore pieno di spaventi colla sua ragione piena di principii.... Ecco la terribile battaglia che disertava il piccolo campo della sua vita....
Questi pensieri passavano in un’ombra l’un dopo l’altro come una nera processione, mentre col capo appoggiato alla mano, gli occhi socchiusi, sentiva bollire il suo vecchio Medoc nella testa già cotta dal sole.
Era una brutta vita....
Perchè non si ammazzava?
Questa era una dimanda che non si era mai fatto. Se un uomo val l’altro, perchè non aveva fin da principio accoppato sè in luogo del prete? O che forse egli aveva paura del retroscena?
— Oh! i grandi imbecilli che siamo, — mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire.
*
Il giorno dopo l’«Omnibus» portava il brillantissimo articolo di Cecere intitolato: «Tre giorni a Santafusca».
Il cronista descriveva il suo viaggio attraverso a un paese incantato, popolato di case e d’uliveti. Poi seguiva la descrizione d’una villa stile barocco e un cenno storico sulla famiglia dei Santafusca, che Cecere aveva copiato dalle «Famiglie notabili».
«Sua eccellenza il barone Coriolano ci venne incontro colla sua solita amabilità (così continuava il favolista) e ci strinse cordialmente la mano. Bell’uomo il barone e ha per i giornalisti una speciale simpatia. Aggiungiamo ch’egli è uno dei più eleganti e arditi nostri gentiluomini, e se le belle gli danno più di trent’anni, ciò non vuol dire che ne abbia quaranta.
«Sua eccellenza (che tra parentesi è molto seccato del chiasso che si fa intorno al suo nome) mi ha fatto vedere il luogo dove, secondo quel che dice la gente, sarebbe stato trovato il famoso cappello. Anch’egli è della nostra opinione che il prete possa essere stato ucciso altrove, e che, per deviare le traccie della giustizia, il cacciatore abbia gettato il cappello al di sopra del muro di cinta. Abbiamo voluto misurare il muro: è alto due metri e quarantasette».
E dopo molte altre particolarità di questo valore, che Cecere aveva pescato nel calamaio, l’articolo finiva col motto:
«Cherchez le chasseur».
*
Due giorni dopo questi fatti, un bigliettino graziosissimo del cavaliere Martellini pregava sua eccellenza il barone di Santafusca a un colloquio particolare nel suo gabinetto.... ma senza la principessa.
«Mi dispiace — soggiungeva — darle tanto disturbo per una faccenda che andrà a finire in nulla: e può essere che prete Cirillo, uscendo a un tratto dal suo nascondiglio, risparmi a V. S. ill. anche questa seccatura.
«Ma intanto, per esaurire la pratica, come diciamo noi, bisogna che senta anche il padrone di casa. Non pensi di presentarsi al giudice, ma all’amico. Basteremo in famiglia: anzi sarà una occasione buona per andare poi a colazione insieme. Sento parlare di certe ostriche alla mayonnaise, specialità della «Colomba d’oro», che sono una squisitezza.
«La seduta è alle 10».
*
«U barone» lesse, rilesse, ascoltò quello che gli diceva il cuore. Gli parve di essere tranquillo abbastanza. Il tono con cui gli scriveva l’amabile cavaliere era tale da togliere qualunque sospetto.
Aveva ancora una notte avanti a sè per riassumere con tutta comodità le risultanze del processo, i fatti dell’istruttoria, e per studiare a memoria la parte che doveva rappresentare in questo dramma.
Non era difficile formolare la sua posizione:
Egli non sapeva nulla: egli non aveva veduto mai prete Cirillo. Egli sapeva soltanto che alla villa era stato trovato un cappello.... e poichè si parlava di un cacciatore, supponeva anche lui che, se c’era stato un delitto, questo cacciatore.... irreperibile.... poteva averci avuta la sua parte. Del resto non sapeva nulla. Questa parola nulla era tutta la sua forza.
Dopo aver ripetuto tre o quattro volte queste idee fondamentali, come un ragazzo che non vuol far cattiva figura innanzi agli esaminatori, cercò di non pensarci più; tuttavia non potè chiudere occhio quasi tutta la notte.
Verso la mattina soltanto, colle ossa rotte dalla veglia, si addormentò e fece dei sogni incongruenti, sotto i quali, come un carbone acceso posto sul cuore, ardeva sempre il suo dolore latente, insistente, cruccioso. In sogno vide una volta anche un suo fratellino, morto di soli dieci mesi, ch’egli aveva portato in braccio da ragazzo e gli parve ancora di correre col bimbo in ispalla in un campo fitto di papaveri semplici.
Oh se egli avesse potuto togliere dodici ore dalla sua vita!
Avrebbe date dodici oncie del suo sangue per quelle maledette dodici ore! Per quanto la fatalità gli gridasse: Non aver paura! son io che ti aiuto...., temeva che vi fosse qualche cosa di più forte ancora della fatalità, per cui era inutile ogni difesa. Quel maledetto prete si muoveva ancora nella sua cisterna.
— Quanta vita hanno indosso i morti...! — disse una volta seduto sul suo letto cogli occhi fissi nel buio.
Il tempo che gli era sembrato sempre troppo breve, passava ora a goccia a goccia. Guardando indietro, gli pareva di aver vissuto cinquantanni dal giorno che prete Cirillo era venuto a trovarlo alla villa. E non era passato un mese.