Il cappello del prete/Parte seconda/VI
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VI.
Un altro grande colpevole.
Non era nemmeno quieto e sollevato il cuore del povero don Antonio, il giorno che ritornò a Santafusca in compagnia di Martino dopo un triste viaggio a Napoli e una triste giornata passata nei corridoi del palazzo di giustizia.
Era stato chiamato all’udienza con un ordine scritto e ricapitato dal maresciallo dei carabinieri, ed era disceso, collo spavento in cuore, alla presenza del signor giudice, che lo tormentò un’ora colle più insistenti inquisizioni.
E pazienza l’inquisizione! pazienza ancora la vista di tanti sbirri, di tanti carcerieri che passavano facendo tintinnare il mazzo delle chiavi; e la vista di tante porte di ferro, di tante sbarre che chiudevano dei ciechi sotterranei! Pazienza tutto...., ma quale scoperta di intrighi, di bugie, di tradimenti, di assassini.... Ed egli aveva portato sul capo, per un senso d’avarizia, il corpo del delitto! egli aveva posto sulla sacra tonsura il seguo esecrando del delitto...!
Questo pensiero bastava a farlo rabbrividire sotto lo stesso raggio di un bel sole di maggio che scaldava i poggi e ardeva le messi.
Martino, che camminava innanzi per la strada sassosa, tratto tratto si fermava ad aspettare il suo piovano, che a stento buttava innanzi le gambe, come se le avesse veramente incatenate.
Eran quarant’anni e più ch’egli benediceva quei campi il giorno delle sante rogazioni.
Quasi tutta la popolazione era passata nelle sue mani, e il cimitero era pieno di gente che egli aveva inviata sulla strada del cielo.
In mezzo alla sua semplicità e povertà il vecchio pastore aveva compiuto il suo lungo viaggio serenamente, padre amoroso de’ suoi figli, amico dei derelitti, sostegno dei deboli, coll’animo puro da ogni cattiva azione, immacolato, lindo da ogni sozzura.
Perchè Dio aveva permesso che presso al tramonto la sua piccola terra fosse funestata da un orribile sacrilegio, e la sua casa insozzata dalla lordura di un delitto? Egli che aveva sempre tenute le mani monde da ogni peccato, aveva colle mani consacrate al mistero divino toccato il pegno del sangue, e si era rallegrato di possederlo, e aveva dormito all’ombra funesta d’un nero spettro, che ancora gridava giustizia e vendetta.
Per quanto poco chiare fossero finora le risultanze del processo, tutto faceva pensare che veramente si passeggiava sulle orme sanguigne di un delitto. Le testimonianze di Filippino, di don Ciccio, di Gennariello, di Giorgio, dei contadini della Falda concordavano a provare che un ignoto, vestito da cacciatore, aveva avuto mano in questa misteriosa impresa.
Dopo tre o quattro giorni di rumore, prete Cirillo avrebbe dovuto farsi vivo, se era vivo. In una barchetta da pescatore, presso alcuni scogli, era stata trovata la sacca di un cacciatore, che Giorgio riconobbe subito per quella in cui aveva posto il cappello del prete. Ma le traccie finivano qui e anche il cavaliere Martellini era imbarazzato a procedere, mancandogli da ogni parte il terreno.
D’altro lato molti credevano che prete Cirillo fosse andato in Levante.
— Fatevi coraggio, don Antonio, che se anche il prete è morto, non lo abbiamo ammazzato noi.
Così diceva Martino, sentendo che il suo padrone mandava dei sospiri grossi.
— Io son persuaso che è tutta una lanterna magica, e che i giudici e i carabinieri hanno pigliato un granchio per un prete. Un cappello non è un morto, e se un colpo di vento portasse al diavolo il mio, ciò non vuol dire che io sia morto.
— Fosse almeno quello che voi dite, Martino. Ma se sapeste quale terribile sospetto mi è nato da poche ore nell’animo, pensando a tutte queste strane combinazioni!...
— Che volete dire ora?
— Guardate là....
— Dove?
Don Antonio segnò col dito la villa dei Santafusca, che dormiva nel suo chiuso raccoglimento nell’ombra d’una vasta nube.
— Ebbene, che pensate?
— Penso.... nulla; andiamo a casa. Ho la febbre, ho bisogno di mettermi a letto.
— Non crederete che il prete l’abbia ucciso Salvatore.
— Oh povero scemo! non aveva la forza di uccidere una mosca! Pace a lui, e viva lui che è morto. Salvatore non ha fatto che raccogliere il cappello dove l’ha trovato, e l’ha portato in casa forse coll’intenzione di parlarmene: ma non potè più aprir la bocca da quel giorno.
— Qual giorno?
— Io non lo so, non so, non fatemi più parlare.
E i due afflitti seguitarono ancora un pezzo di strada in silenzio. Poi tutto a un tratto don Antonio, che non poteva fuggire alle sue meditazioni, usciva fuori con questa domanda:
— Vi ricordate il giorno che abbiamo lavata la faccia ai santi dell’altare?
— Mi ricordo.
— Quando fu?
— Aspettate, prima della domenica in albis, e precisamente il giorno che ho trovato le candele rosicchiate dai topi. Non la vigilia, non il venerdì. Ecco, precisamente il giorno quattro di aprile, il primo giorno che ho suonato a festa.
— Precisamente, — disse il piovano aggrottando le ciglia.
E non disse più nulla.
Ma egli pensava che, mentre era davanti alla canonica, era passato Salvatore con una lettera in mano e aveva detto:
— È arrivato «u barone»!
Il bambino di Menichella del Torchio diceva di aver veduto un prete avviarsi alla villa per il viale degli ulivi. Nessuno aveva veduto nè prima nè dopo il barone, e nessuno pensò a lui, se non il giorno che tornò con molta spavalderia a cavallo. Il barone era un’anima perduta, bisognoso, un miscredente, un materialista, e molte leggende di paure uscivano da Santafusca.
Con questo sospetto fitto in cuore don Antonio entrò in casa e si fece condurre nella sua stanza, dove si chiuse a piangere, a pregare, a sospirare.
Verso il tramonto lo colse una febbre di fuoco e fu posto in letto, mentre egli andava ripetendo nei vaneggiamenti le più strane cose del mondo.
Martino e qualche buon contadino rimasero a custodia dell’infermo; e intanto qualcuno andò in cerca del medico e delle medicine.