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magro — e dopo un gran fiume di parole, che «u barone» non ascoltò colla scusa del suo mal di testa, se ne andò contento della sua giornata.
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Il barone rimase solo, colla testa appoggiata alla mano e gli occhi in apparenza fissi sulla carcassa che Cecere aveva lasciata sul piatto. Si sentiva veramente male. Quegli stupidi discorsi, l’allegria fatua e volgare di Cecere, la vista di quei due gendarmi, che parevano venuti per cercare qualcuno, avevano rimosso il sangue guasto delle sue vene, ed egli ripiombava ora più gravemente nella dolorosa contemplazione del suo pensiero.
Da venti giorni menava una vita ladra, disperata, piena di scosse e di spaventi, di speranze, di sforzi erculei per sorreggere l’edificio artificiale ch’egli aveva edificato sul suo delitto.
Aveva perdute molte notti al giuoco, nell’orgia, e per molte giornate aveva cercato la forza e l’oblio al chiasso, alle stalle, ai cavalli, ai liquori, al vecchio Medoc. Oggi, dopo una giornata di gran sole, si sentiva veramente, la testa riarsa e incapace di connettere due buone idee. Era una condizione pericolosa per un uomo che aveva bisogno di ragionar molto bene e di far