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se grosse e piccole aveva vinto ancora venti o trentamila lire. Quest’abbondanza di denaro non faceva ormai più effetto ad un uomo che per quindicimila lire aveva dovuto ammazzare un prete. Sottentrava quasi in lui la convinzione che non gli poteva mancar più, che ne avrebbe trovato dappertutto, solamente a grattare la terra. Vinceva e spendeva senza contare, come se il tesoro rinchiuso nella sua scrivania avesse la virtù di rinnovare sè stesso e di moltiplicarsi.

Uscendo dalle scuderie cadde nelle braccia di Cecere, il grosso cronista-impressionista dell’«Omnibus», un giornale che conta ormai più di cinquant’anni, e che Cecere col suo stile a scatti, ad asterischi, a virgolette, aveva da qualche tempo ringiovanito.

— Barone, — gridò Cecere, — voi venite proprio, se non è irriverenza, come il cacio sui maccheroni.

— O bravo Cecere, volevo scrivervi uno di questi giorni, — disse il barone.

— E io volevo venire da voi, eccellenza. Non si stampa due volte il nome di un uomo senza sentirsi un poco suo parente. È la consanguineità dell’inchiostro....

Cecere, dalla faccia molle di fratacchione sbarbato, rise, mostrando due file di denti grossi e bianchi come quelli di un ruminante.

— E chi ci vieta di pranzare insieme?

— Qual dei Numi? — declamò Cecere, che si impadronì molto volentieri del braccio d’un uo-