Il cappello del prete/Parte seconda/IV
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IV.
L’assassino del prete.
Il barone non ebbe quasi tempo di afferrare queste parole che:
— Eccolo, eccolo! — gridarono molte voci, e vide l’Usilli, di Spiano, in compagnia di altri signori, che entravano dietro di lui e che gli andarono incontro per avere notizie della sua preziosa salute.
— Ebbene, come ti senti? che cos’è stato?
— Effetto di aragosta?
— Effetto del vostro scelleratissimo Sciampagna, — disse il barone, stringendo la mano a questo e a quello.
— Non capite? — disse l’Usilli, — l’aragosta si trovò a nuotare in un elemento che non era il suo e fece una rivoluzione.
— Mi rincresce, caro marchese, ma pagherò i vetri e lo scandalo.
— Non ti sei fatto troppo male?
— Qualche scalfittura. Sai, noi siamo pachidermi....
Il barone cercava di ridere rumorosamente, ma rideva più coi denti che col cuore.
— Conte, — disse di Spiano, volgendosi a uno dei presenti, — ho l’onore di presentarvi il barone Coriolano di Santafusca, mio vecchio amico e vecchio patriota; e a te, amico, presento il conte Ignazi di Roma, che ha portato il suo famoso «Lazio».
— Che vinse il «derby» di Roma di quest’autunno?
— Precisamente....
— E questi è il conte Stagni di Urbino, già nostro ospite da qualche giorno.
— Ho piacere.... grazie!
— Onor mio!
I bravi signori si strinsero la mano e si lodarono un pezzo a vicenda, come fanno di solito. Il conte Stagni credette di riconoscere il barone per averlo veduto un venti giorni prima a una piccola stazione presso Napoli.
— Sarà benissimo, — disse con freddezza Santafusca.
— Tornavo da una gita a Pompei e richiamò la mia attenzione un signore che correva verso la stazione per non perdere il treno....
— Ella è buon fisionomista, — tornò a dire il barone, che in mezzo a tutti questi discorsi andava ripetendo mentalmente la frase udita in anticamera: «Hanno arrestato l’assassino del prete!»
— Tu fai colazione con noi, barone.
— Volontieri; do prima un’occhiata ai giornali.
— Giusto, a proposito, — gridò l’Usilli, — Santafusca sta per diventare famosa. Hanno scoperto l’assassino del prete.
— Che assassino?! — dimandò quasi con villania il barone.
— Leggi, c’è tutta l’intera ed esatta spiegazione. Io sono un dilettante di processi celebri, e se non fossi nato conte, avrei fatto il commissario di polizia.
Tutti risero a questa grossa sentenza, mentre il barone correva nella vicina sala di lettura, dove stavano sopra una tavola tutti i giornali della sera e del mattino. Ne fece passare molti con tremito nervoso nelle mani (per fortuna era solo) finchè ne trovò uno che portava la grossa scritta:
ANCORA DI PRETE CIRILLO.
«Siamo costretti — diceva il foglio — a tornare su questo argomento, perchè le nostre informazioni segrete ci persuadono che la leggenda di prete Cirillo resterà famosa negli annali giudiziari.
«Sebbene per ora la giustizia sia d’una gelosa e quasi monacale riservatezza, si sa che per un buon reporter ogni uscio ha la sua chiave.
«Perciò siamo in grado di dare qualche primizia intanto che il processo è nelle mani di quel zelante e bravo giudice istruttore che è il cavaliere Martellini, lustro del foro napoletano, non che grande scacchista e adoratore del gentil sesso.
«Abbiamo già detto come sulle traccie del cappello del prete, scoperto nei dintorni di Santafusca e mandato a Napoli in una scatola, fosse stato interrogato il parroco di quella terra, e come dietro le deposizioni del reverendo, la giustizia avesse sguinzagliato i suoi cagnotti — la frase è d’obbligo — sulle traccie dei colpevoli.
«Le mani furono subito poste sopra un certo Giorgio, un oste che sta alla Falda, all’insegna del «Vesuvio», il quale (l’oste, non il Vesuvio) sarebbe stato trovato in possesso d’un cappello, ma viceversa poi non era il cappello di prete Cirillo.... Anzi il cappello sarebbe stato consegnato, secondo le deposizioni dell’oste, a un misterioso cacciatore (qui comincia il fantastico) che in un certo giorno si sarebbe presentato a ritirare il falso cappello del prete a nome di don Antonio parroco di Santafusca.
«Che esista un cacciatore interessato in questa faccenda, oltre alla testimonianza dell’oste, c’è quella di alcuni contadini e di alcuni muratori. Ma nessuno sa dire chi sia il misterioso cacciatore, da dove sia uscito, dove sia andato a finire.
«Ma la giustizia che ha le gambe lunghe, mercè l’opera zelante del cavaliere Martellini, non dispera ed è già sulle traccie del cacciatore, che se fosse anche una lepre, non tarderà a cadere nella trappola.
«Il lato curioso del cappello è questo: che mentre prima si aveva un cappello, pare che adesso se ne abbiano due.
«Insomma un cappello di più e un prete di meno!
«Inutile dire che il fatto interessa il buon popolo della partenopea città, e che le donnicciuole hanno giuocato il terno: prete, cappello, cacciatore (vedi «Cabala» e la «Sibilla Cumana») e può essere che, vivo o morto, l’ultimo dei negromanti faccia un altro salasso alla cassa dell’erario».
Il giornale era il vecchio «Omnibus», e l’articolo era firmato Cecere, che pareva per il momento uno scrittore spiritoso.
*
— Noi potremo combinare una scommessa collettiva sopra «Andreina», se ci sta anche Santafusca.
— A fare? — esclamò, trasalendo, il barone, vedendo entrare della gente: e cercò di nascondere il foglio tra gli altri giornali che erano sulla tavola.
— Si tratta di sostenere «Andreina» contro «Lazio», Napoli contro Roma, il Sebeto contro il Tevere, e tu sei troppo fortunato, Santa, per non arrischiare qualche migliaio di lire.
— A fare? — tornò a dimandare «u barone» che era rimasto colla mano sul foglio e cogli occhi smarriti nel vuoto.
— Usilli! — chiamò di Spiano nell’altra sala.
Il barone rimase col conte Ignazi, che avviò un discorso di cortesia.
— Voi dovreste venire una volta, barone, alla caccia della volpe nella campagna romana.
— Sì.
— Siete cacciatore, barone?
— Io?
— C’è molta passione di sport in queste provincie?
— Che!
— Noi romani molto. Sapete, «noblesse oblige».
— Lo credo.
Rientrò a tempo l’Usilli, che colla sua elettrica mobilità trasse l’uno e l’altro in una sala vicina, dove di Spiano stava persuadendo alcuni amici del club a scommettere per «Andreina».
Erano tutti infervorati nella discussione. Parlavano tutti insieme di «turf», di pista, di bel tempo, di «pesage», di razze, di cavalle, di belle donne, col fuoco che destano nei signori le questioni inconcludenti.
La maggior parte erano giovani, ambiziosi, avidi di gloria e di piaceri. Chi sedeva sulla tavola, chi sulla sponda del canapè, chi a cavalcioni delle sedie. V’erano anche degli ufficiali nelle splendide divise e un acuto profumo di sigarette rendeva l’aria ancor più calda e mordente.
«U barone» seduto in mezzo e quasi dimenticato fra tanti giovani illustri, venuti da tutte le parti d’Italia a rappresentare il fasto della patria aristocrazia, ebbe un momento di raccoglimento e di riposo e potè abbandonarsi un minuto al suo pensiero.
Sentiva di avere ormai esaurite tutte le sue forze attive e che troppo disuguale era la lotta tra un vivo e un morto.
Il prete era più forte di lui.
Ammazzato, sepolto, schiacciato da una grossa pietra e da un mucchio di mattoni e di sabbia, «u prevete» aveva cacciato fuori prima il suo cappello. Inutilmente egli aveva tentato di affogare anche il cappello in fondo al mare; «u prevete» aveva la mano lunga.
Per Dio! se non basta uccidere un uomo con due tremende mazzolate sulla nuca; se non basta tutto il mare Mediterraneo a coprire un segreto; se uccidere un uomo significa farlo vivere più di prima; se nasconderlo in una cisterna vuol dire fare in modo che egli occupi di sè tutta una città, tutta la stampa, la magistratura, il telegrafo, le botteghe dei barbieri, i botteghini del lotto: se tutto ciò accade nel mondo, per Dio! è segno che la ragione non è ragione, il verosimile non è vero, ma tutto è vero, specialmente l’impossibile, anzi l’assurdo, il tutto è niente, e il niente è tutto....
Una grande risata accolse queste conclusioni filosofiche del barone di Santafusca: cioè, parve a lui che gli amici ridessero della sua minchioneria. Egli cominciava a odiare quei fastidiosi eleganti: e aveva torto.
L’Usilli raccontava degli aneddoti galanti con tanta felicità di spirito, che avrebbe fatto ridere le finestre. Irritato da questa grossa ilarità, Santa, con atto d’uomo offeso si alzò, uscì di sala e senza salutare nessuno abbandonò il circolo, scese a precipizio le scale e corse un tratto verso il palazzo di giustizia, colla intenzione di parlare al cavaliere Martellini, ch’egli conosceva benissimo, per essersi trovato più volte con lui al club degli Scacchi, dove l’egregio magistrato faceva testo di lingua.
Strada facendo, gli parve che i monelli vendessero più giornali del solito. Molti cocchieri delle vetture pubbliche avevano in mano un foglio e leggevano a parer suo la storia del prete e del cacciatore.
E mentre pensava anche lui a questo strano cacciatore, gli parve improvvisamente di ravvisarlo al di là d’una lucida vetrina di pasticciere. Si arrestò come se un abisso si fosse improvvisamente aperto innanzi ai suoi piedi; e stette un momento a guardare l’immagine sua con un occhio atterrito.
Per quanto egli avesse mutato di panni, la faccia del famoso cacciatore doveva essere rimasta impressa nella mente di Giorgio della Falda e degli altri contadini, specialmente l’occhio lucente e vivo e la barba intera di un nero di carbone. Se ne ricordava fin il conte Stagni! Se il cavaliere Martellini lo avesse messo di fronte all’accusato, era impossibile che questi non avesse a riconoscerlo. Se anche il barone avesse mentito fino allo spergiuro, era già troppo, al punto in cui si era arrivati, non che il sospetto, il suscitare l’ombra di un mezzo sospetto.
Come fare? Egli non poteva tôr via l’occhio da quella figura di là oltre i vetri che si accompagnava con lui. Il caso o un segreto istinto lo condusse davanti alla bottega del Granella.
L’occasione favorì anche questa volta i progetti del nobile sportman. Il figurino della moda venuto d’Inghilterra portava quest’anno come il non plus ultra dell’eleganza in materie di corse e di sport, una giubba rossa, stretta alla vita, stivali alla scudiera, calzoni chiari, e barba tagliata alla «derby», con due brevi basette o spazzolette sulle guancie, rasato e pulito il resto della faccia.
Granella, che era sempre al corrente dell’ultima parola della scienza, non ebbe bisogno di consigli per rendere il barone di Santafusca il più inglese dei napoletani.
— Anche il principe d’Ottaiano ha sacrificato per le corse di domani la sua bella barba alla «palmerston». È in queste cose che si conosce il vero sportman. Chi non sa sacrificare qualche cosa all’eleganza e alla moda non sa sacrificare nulla alla bellezza e all’amore. «Voilà, monsieur».... se il barone di Santafusca riporterà domani più d’un trionfo, il merito sarà un poco del suo «herdresser».
Il barone rise a sentir Granella parlare inglese. Contemplandosi nello specchio, si rallegrò in cuor suo di essere ringiovanito tanto. Il cacciatore era morto nelle mani del primo «herdresser» della città. Giorgio della Falda non avrebbe più riconosciuto nell’elegante sportman il nipote del curato di Santafusca.
Ciò cominciò a tranquillare un poco il suo cuore, e volendo interrogare l’opinione pubblica, come l’altra volta, facendo cantare il Granella, domandò con fare di noncuranza, mentre si accomodava la cravatta innanzi allo specchio:
— Ebbene, e questo prete?
— Quale?
— Quel del terno, l’hanno trovato?
— È una matassa imbrogliata e io credo che la signora giustizia questa volta batta una strada falsa.
— Perchè?
— Perchè mentre crede di aver nelle mani il colpevole, lascia al colpevole tutto il tempo di mettersi al sicuro.
— Cioè....
— Non per vantarmi, eccellenza, ma siccome ho l’onore di servire anche il cavaliere Martellini che ha in mano l’istruttoria, così posso sapere qualche cosa che i giornali non sono in grado di sapere.
— Oh! oh! — esclamò «u barone» che ritto davanti allo specchio, disfaceva per la seconda volta il nodo della sua cravatta.
— Ne discorriamo qualche volta insieme, io e il cavaliere, che è un uomo fino, alla mano.... che sa il conto suo, non nego: ma alle volte vede di più una formica in cima a un palo che non un elefante.
— Ah! ah! ebbene? sentiamo....
— Il prete, non quel morto, il vivo avrebbe deposto: primo, ch’egli non ha mandato mai nessun cacciatore alla Falda a riscattar cappelli; secondo, che non ha parenti, e tanto meno nipoti che facciano il cacciatore; terzo, che il cappello mandato da lui a Filippino era nuovo, mentre il suo era vecchio e usato, e che per conseguenza il povero diavolo arrestato sotto l’accusa di aver ammazzato «u prevete» non avrebbe nemmeno toccato il suo cappello. E intanto, un po’ per le lungaggini, un po’ per le ciarle dei giornalisti, il cacciatore piglia il largo, e addio suonatori.
— Tu credi proprio che.... il cacciatore sia il reo....
— Non ho più un dubbio, come non dubito che vostra eccellenza sarà dimani il più elegante cavaliere di Napoli. Ci son troppi testimoni che l’hanno veduto. Anche un cantoniere della ferrovia asserisce che è passato il giorno tale, ora tale, che ha preso il treno di Napoli, che aveva un carniere al collo, e si sa d’altra parte che nel carniere c’era il cappello del prete.... Dunque costui aveva tutto l’interesse a far scomparire il cappello del prete, che un caso, cioè la vincita del famoso terno, aveva reso a un tratto celebre in tutto il mondo. Il diavolo aiuta, sì, ma fino a un certo punto i suoi figliuoli....
— Basta, staremo a vedere, — disse «u barone» che cominciava a soffrire di quelle ciarle. — Prevedo che sarò seccato anch’io per conto di Santafusca. Non vorrei che fossi chiamato dimani.
— Non conosce per caso il cavaliere Martellini?
— Molto bene. Ci troviamo qualche volta al club degli Scacchi.
— Potrebbe scrivergli un biglietto.
— Tu mi suggerisci una buona idea: sei degno di fare l’avvocato.
— Sento che sarei riuscito. Vuol fuoco?
Granella offrì un fiammifero e lo tenne alto finchè il barone ebbe acceso il sigaro. Poi corse a ritirare la tenda, e facendo schioccare una salvietta come un frustino, esclamò nel suo inglese di Napoli:
— «Got bai».
— Una buona idea veramente! — tornò a dire tra sè il barone, che ripassando davanti alle botteghe, si consolava di non rivedere più il cacciatore di prima.
La speranza tornava a rinascere per la terza volta e le sensazioni paurose tornavano a cedere il posto alle riflessioni chiare e positive. Anche questa volta si era impaurito per un’ombra.
Se il vero colpevole era il cacciatore, che cosa doveva temere ora il barone di Santafusca? L’opinione di Granella era l’opinione universale, e quella forse del signor giudice istruttore. I testimoni concordavano nell’aggravare la responsabilità di questo povero cacciatore, che oggi non aveva proprio nulla a che fare col più elegante cavaliere di Napoli.
Tratto dall’evidenza di queste ragioni, e in certi momenti credendo forse egli stesso al mitico cacciatore più che non fosse necessario, entrò in un caffè, e sopra un suo biglietto di visita — con tanto di corona — scrisse al cavaliere Martellini queste righe:
- «Caro e amabile cavaliere,
«Leggo ora che nel processo del cappello è implicata Santafusca. Il segretario comunale mi ha scritto che fu violata la santità del mio domicilio. Preparo forti proteste, ma perdonerò facilmente al cavaliere Martellini, se non mi citerà tra i testimoni il giorno delle corse. Se poi mi risparmia del tutto l’incomodo, piglierò volentieri il treno di Parigi. Però sempre pronto all’obbedienza — come don Abbondio».
*
Il cavaliere Martellini, che conosceva ciò che si chiama il vivere del mondo e che nelle buone grazie dei signori nuotava come una tinca in un’acqua chiara, si affrettò a rispondere come segue:
- «Eccellenza,
«Se fu violato il santo, faremo sacrificii di propiziazione. In quanto al sentir V. S. Illustrissima, spero che non sarà necessario, perchè il processo manca di fondamento e si finirà con un non farsi luogo. Ad ogni modo, ho troppo desiderio di assistere anch’io alle corse per fare a me stesso il tiro di seder pro tribunali, e di citar lei, mentre Andreina batterà di due teste quel povero Lazio. Ogni buon napolitano deve credere oggi in Andreina.... — For ever!».
*
— Bene, bene! — disse il barone, che non si curò nemmeno di leggere i giornali della sera.
Infine si meravigliò egli stesso di sentirsi così sicuro e sollevato.
Un gran peso cadeva dalla sua coscienza sulla coscienza di un altro lui, uscito da lui, ombra pietosa che s’intrometteva tra la vittima e il suo assassino. In questo buon cacciatore bisognava credere quasi per riconoscenza.
E a volte ci credeva proprio sinceramente, come se la sua personalità si sdoppiasse, come il fanciulletto crede all’esistenza reale dell’ombra che giuoca con lui. Era tratto a parlarne volentieri, nella speranza che, parlandone, fosse un mezzo di dare all’ombra una maggiore e reale consistenza.
Così credeva di aiutare l’opinione pubblica ad allontanarsi dal vero e a concentrare sopra un essere impalpabile tutta la responsabilità della nefanda azione.
Questa fu la sua grande preoccupazione per tutto il giorno che precedette le corse.
Dovunque si trovasse, o al club o al caffè, o sul «turf», dovunque insomma si poteva tirare il discorso sul processo del giorno, egli esponeva le sue idee con un calore e una chiarezza singolare, con una insistenza quasi noiosa, finchè l’Usilli gli disse una volta:
— O senti, mi hai quasi rotta la testa con questo cappello!
Essendo associato con Usilli, di Spiano e molti altri cavalieri a una partita comune, in cui molte scommesse erano in giuoco, dovette correre tutta la sera e tutta la mattina, ora a cavallo, ora in carrozza, ora dal sarto che non aveva ancora pronta la giubba rossa, ora alla cavallerizza, ora presso alcune signore della aristocrazia, per gli opportuni accordi.
In tutto questo lieto affaccendamento egli ritrovava l’animo, il brio, la grazia, l’eleganza dei suoi trent’anni. Il cavaliere Martellini non avrebbe mai immaginato il bene che aveva fatto a un’anima del purgatorio. Fin la principessa di Palàndes, che non lo vedeva da un pezzo, trovò Santafusca ringiovanito di dieci anni.
Era ancora una bellissima donna questa famosa principessa, in cui si fondevano due vecchie schiatte italo-spagnuole. Rimasta vedova ancor giovane, non andava ancora oltre i trent’anni, e la sua bellezza rifioriva di tutto il pieno sviluppo della seconda età, che nelle vaghe donne è di solito una edizione riveduta, aumentata e migliorata. La principessa si lasciava far la corte volentieri (non aveva altro da fare) e con lei trionfava facilmente l’impresa dell’«audaces fortuna juvat». Il barone — l’abbiam visto — non mancava d’iniziativa, e seppe tanto bene presentarsi e ne disse in pochi minuti di così curiose, che la principessa lo volle per suo cavaliere.
— Verrò a prendervi colla carrozza, principessa.
— E perchè non a cavallo?
— Se vi piace, andiamo pure a cavallo, — soggiunse il barone, facendo suonare gli speroni.
— Voi sarete il mio cavalier terribile.
— Perchè terribile, principessa?
— Così, perchè avete una faccia da brigante che mi piace.
Poi la principessa, ridendo, con tutta la sua bella voce, soggiunse:
— È vero che un vostro antenato morì appiccato?
— Brigante sì, principessa, appiccato no. I Santafusca non si lasciano appiccare. A dimani.
— Venite presto.
Il barone partì quasi innamorato della bella vedova, e questo pensiero nuovo e ridente s’intrecciò come un filo d’oro alla trama lacera ed oscura della sua povera vita.
Il giorno dopo, sul mezzodì, nel suo magnifico costume di panno rosso, con una lunga penna di gallo silvestre in un berretto di velluto, «u barone», a fianco della bellissima amazzone, usciva a cavallo verso il campo delle corse.