Il bel paese (1876)/Serata I. - Da Belluno ad Agordo

Serata I. - Da Belluno ad Agordo

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Serata I. - Da Belluno ad Agordo
Agli Istitutori Serata II. - Gli alpinisti ed i viaggi alpini

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SERATA I


Da Belluno ad Agordo.

Il ritorno dalla campagna, 1. — Il mio uditorio, 2. — Le Alpi Carniche, 3. — Un equipaggio mal equipaggiato, 4. — La gola del Cordèvole, 5. — Agordo, 6. — Una milizia sotterranea, 7. — Festa di nuovo genere, 8.


1. L’Ognissanti, il dì de’ Morti, S. Carlo, S. Martino, sono tutti sinonimi per que’ cittadini, che hanno la buona fortuna di rifarsi in campagna delle fatiche sostenute, o che dovevano sostenere in città. Tutti insieme quei nomi descrivono un certo breve periodo di tempo, oltre il quale i villeggianti, vogliano o non vogliano, debbono aver lasciata la vita eccezionale per la normale, la poetica per la prosastica, la varia per la uniforme, insomma la vita libera e lieta della campagna per la vita schiava ed uggiosa della città.

I venti soffiano gelati dalle cime nevose delle Alpi: dalle nubi, che coprono di un bigio uniforme il sereno del cielo, e accorciano un giorno già corto, cadono le pioggie fredde ed uggiose: le brine imbiancano i campi, presaghi di più bianca canizie. Spento è il sorriso dei colli: i giardini sono spogli di fiori: le piante vanno perdendo una chioma già ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende men doloroso l’addio.

Le sponde de’ laghi, le immense distese dei campi, gli ameni villaggi, dove poc’anzi risuonavano i gridi di liete brigate, sfolgoreggiavano i cocchi, le livree, gli strascichi, rientrano nella loro quiete, si rinchiudono nella loro semplicità. La campagna ritorna campagna, e campagna nel suo ideale più bello; quella campagna, che i cittadini non gustano mai, o solo talvolta uscendo [p. 8 modifica]dalle mura furtivi e fuor di tempo. Oh! quanto è bella anche d’inverno. Di primavera poi.... Per tutto al di fuori si fa intanto quella quiete, quel silenzio, palpabile, visibile, che si spande nel fitto del bosco, quando, al cadere del vento, cessa ogni stormire di fronde.

Entro le mura della città si svolge affatto contraria la scena. L’inverno è la stagione cittadina per eccellenza: la stagione dei convegni, degli studî, degli affari. Le porte della città, quasi altrettante foci di fiumi, riversano in quel mare magno la popolazione dispersa. È un curioso spettacolo il vedere quella serie di equipaggi, che hanno un’impronta così caratteristica; quelle pariglie, che non han nulla di pari; quei cocchieri improvvisati; quella popolazione di reduci, così variopinta. Donne avviluppate nei loro scialli; bambini con tutte le gradazioni di tinta sulle guancie, dal bianco all’incarnato, dall’incarnato al rosso, dal rosso al pavonazzo, dal pavonazzo al livido, intirizziti dal freddo, tramortiti dal sonno, rotto bruscamente da una levata anticipata, con tanto di broncio per l’idea del ritorno al chiuso. Bauli davanti, di dietro, di sotto, di sopra: cassette, fardelli d’ogni peso, d’ogni forma: involti e battuffoli majuscoli e minuscoli, che contendono il posto alle gambe, alle costole de’ viaggiatori. Aggiungi, secondo i casi, altri pezzi caratteristici di quello strano conglomerato. Un pajo di capponi, avanzi di una stia, che supplì tante volte al difetto del macellajo, nelle improvvise invasioni di ospiti affamati: funghi secchi, malva, camomilla. Aggiungi i trofei dei bambini e delle bambine: un vaso di fiori, da collocarsi sulla loggia verso corte: un uccelletto, fatto preda dal fratello di latte del padroncino, e che viene a morire di stento in città: un cagnolino, regalato dal fattore: un micino donato dalla fattora: e così via via. Conosco un bambino che se ne veniva portando seco dalla campagna una coppia di topolini, forse per un tentativo di acclimazione di bestie così rare. In fine tutti quegli equipaggi portano scritto, in mille caratteri diversi, lo stesso motto.... Ritorno dalla campagna.

Questa descrizione, per vero dire, sente un po’ troppo delle reminiscenze di un tempo che fu. Ora le ferrovie hanno usurpato assai, e diminuita la poesia di quel ritorno universale. I reduci si riversano a sgorghi potenti, quasi travolti da un torrentaccio, gonfiato ad intervalli da diluvî temporaleschi: una folla che attende si fonde ad intervalli con una folla che arriva; e risuonano i saluti, e scoppiano i baci e si fa in grande ed in pubblico sulle soglie delle città, ciò che prima si faceva alla spicciolata ed in privato su quelle delle case. [p. 9 modifica]

Il brio, il rumore, diluito sopra una immensa superficie, tutto si condensa entro quell’angusta macchia, come isola circolare nell’immensa pianura, che si chiama Milano. Milano si ridesta, si commove, si agita, come lo svenuto, che sente rifluire il sangue nelle vene al cessare della sincope. Tutto è moto nelle vie, brillanti dell’estate di S. Martino; nelle botteghe, o di nuovo aperte o rifornite; nei caffè dove echeggiano gli eh!... gli oh!... i ben tornato!...; nelle case di cui molte sono nuove ai loro stessi abitatori, intesi a ripartirvi le esili masserizie, ed a riparare i danni del S. Michele. L’anno, l’anno vero, che si misura, non col giro del sole, ma col giro delle nostre abitudini, ricomincia, direbbesi, con quel rumore di ruote, con quel cigolio di perni, con quello stridere d’ingranaggi, con quel fragore così vario e monotono ad un tempo con cui si rimette in movimento un grande opificio meccanico, rimasto fermo alcun tempo pel bisogno periodico di riparazioni.

La gran macchina gira, gira.... All’alba gli operai e le operaje, che fluiscono, come il sangue al cuore, dalle regioni perimetriche, alle interne della città. Allo spuntar del sole i bambini, accompagnati alla scuola, freddolosi, col riso sulla bocca o i lucciconi agli occhi, ad uno, a due, a tre, a gruppi formidabili di sei, di sette, non distinti l’uno dall’altro, che per ciò che distingue le canne di un organo, portando tutti nella uguale fisonomia stereotipata la fede di nascita. Più tardi, ed anche troppo, il mondo stanco degl’impiegati, che si distribuiscono ai rispettivi scanni. Più tardi ancora le signore azzimate, leccate, incipriate, che hanno l’incarico di passare in rivista tutte le botteghe di mode e di novità, di squadrarsi da capo a piedi, e di inventariarsi a vicenda, mentre studiano intanto quale piega minacci di prendere la moda della stagione. Tutto è vita, tutto è moto. Gli spazzacaminelli, levando l’acuto strido, molleggiano sui due piedini d’ebano, battendo il selciato, col moto oscillatorio della calamita. I venditori di latte, di caldarroste, di fandonie, tutti gridano a loro modo, sicchè li distingui l’uno dall’altro come si distinguono le bestie di un gran serraglio all’ora del pasto. La sera poi le conversazioni, i teatri, la galleria Vittorio Emanuele.... Ma finiamola.

2. Tutto questo era un esordio, per dirvi, che anch’io ritornai alla città. La sera mi recai tosto alla casa, dove abita il gruppo maggiore, quasi direbbesi il nerbo, di un piccolo esercito di nipoti, e dove si radunano a volte a volte gli altri. Era precisamente il giovedì dopo S. Martino dell’anno di grazia 1871, ed [p. 10 modifica]era anche la prima sera di convegno. Ve li trovai tutti, bambini, mamme, babbi, oltre un gruppo di conoscenti grandi e piccoli. Non vi dico, per modestia, la festa che mi hanno fatta, e specialmente il chiasso, lo squittire dei bambini, i quali pensarono tosto ch’io avrei loro raccontato, come faceva talora nell’anno precedente, una bella storiella.

Dopo i convenevoli, ecco l’inevitabile: racconta! racconta!

«Raccontarvi?... così subito?... che cosa?...».

«Raccontaci, raccontaci!...» E qui chi saltella, chi batte palma a palma, chi ti trascina per la mano, chi per le falde dell’abito. E bisogna sedere e, quel ch’è peggio, raccontare. L’impresa è difficile. Di solito tu siedi senza nemmeno aver fissato il soggetto della narrazione. Ti vedi dattorno bambini d’ambo i sessi: alcuni appresero appena a distinguere la destra dalla sinistra (a furia di fare il segno della santa croce); altri invece sanno già conjugarti senza intoppo anche il verbo cuocere; e ve n’ha taluno che già parteggia per Pompeo o per Cajo Cesare. Chi non vuol saperne d’altro che delle panzane; chi già sente la smania dell’apprendere e del vederci a fondo. Poi vengono le mamme che, presenti col solo pretesto di far zitto, di correggere le smorfie, di dar sulla voce alle sgraditaggini dei loro bambini, han gusto di udire, pigliano interesse alla narrazione, fanno il critico se fa d’uopo, costituiscono insomma la porzione esigente del pubblico. Non parlo poi dei babbi e dell’altre persone più serie, che ti ascoltano per compiacenza, ma ti obbligano ad ogni tratto, senza avvedertene, a cambiar stile, e a dir cose che proprio pei fanciulli non farebbero.

Ecco la posizione in cui mi trovai fin da quella prima serata.

«Che cosa debbo raccontarvi?» ripetei.

«Una bella panzana», risposero in coro i piccini.

«Ma se ne ho vuoto il sacco».

«Ebbene inventane dell’altre».

«Oggi non mi dà l’estro».

«Ebbene», scappò a dire Camilla, «narraci qualche cosa dei tuoi viaggi».

«De’ miei viaggi?... Misericordia!... Ma io non fui nè tra gli Indiani che muojono stringendo con gran devozione la coda di una vacca; nè tra i Groenlandesi che mungono la renna e scavansi nel ghiaccio i palazzi; nè tra i Chinesi, che infilzano il riso con due stecchi grano per grano, mentre noi se ne ingolla un centinajo ad ogni cucchiajata; nè tra i selvaggi dell’Australia che fanno allesso e arrosto de’ cristiani....». [p. 11 modifica]

«Eppure tu hai viaggiato; sei sempre in giro», insistè la Camilla.

«È vero; ma i miei non sono viaggi. Sono d’ordinario corse di pochi giorni, sempre sempre in Italia, e per que’ miei studî, ai quali non spero che voi pigliate nessun interesse».

«E questo è male»: osservò seriamente il più serio dei babbi, volgendosi ai fanciulli. «Voi non siete ghiotti che di cose meravigliose, di cose dell’altro mondo, e vi pare che non ci sia nulla di bello e di buono in tutto ciò che sa di nostrano. Intanto si vien su che non si sa nulla del nostro paese, peggio che se fossimo forestieri giuntivi l’altro dì. Non si sa nulla nè delle bellezze naturali che presenta quest’Italia nostra, mentre ci ringalluzziamo al sentirla chiamare un giardino; nulla di quell’infinita varietà di condizioni fisiche, che interessano immensamente la scienza; nulla delle molte riprese che l’Italia offre all’industria, cui lamentiamo pigra, arretrata e tributaria agli stranieri. Giacchè lo zio di queste cose può parlarvi con cognizione di causa (qui io feci per modestia una smorfia), dovreste pregarlo a farlo, a farlo sovente, e così imparereste alcun che di quanto giova sapere....».

I più piccini non si mostrarono molto contenti della conclusione di quella paternale. I più grandi però la trovarono almeno abbastanza ragionevole: poi entrarono nell’idea che io potessi anche così narrare qualche cosa di non assolutamente nojoso; per cui si conchiuse che, almeno in via di esperimento, avrei raccontato qualche cosa delle mie corserelle in Italia.

3. «Ove debbo cominciare?...» domandai, tanto per darmi tempo a pensare.

«Dove ti sei recato nelle scorse vacanze?» chiese Giovannino.

«In diversi siti; ma la corsa che mi lasciò maggior impressione è quella che ho fatto nell’Alpi Carniche».

«Una porzione della grande catena; n’è vero?» domandò la Marietta.

«Certamente: quell’ultimo tratto più orientale che si eleva a nord-est delle provincie venete. Le Alpi Carniche sono infine le montagne del Bellunese e del Friuli, e presero il nome dalla Carnia, che è una vasta regione del Friuli1. [p. 12 modifica]

»Quelle montagne non si sentirebbero mai a nominare dagli Italiani che non siano i loro stessi abitatori. Eppure vi so dire che sono il non plus ultra per chi sa apprezzare le alpine bellezze. Gli Inglesi, che hanno buon naso, le hanno già odorate da lungo tempo e non andrà molto che la corrente dei viaggiatori si volgerà da quella parte forse con maggior foga che dalle parti della Svizzera. Che montagne!... che gole!...».

«Via» soggiunse la Marietta, «bisognerà pur dircene qualche cosa».

«Già.... sarà il meglio che io vi descriva quel mio viaggetto.... Se vi annojerete peggio per voi.... Dunque, per portarvi subito sui luoghi, nello scorso settembre2 mi recai a Belluno, alla porta, dirò così, del gran teatro delle Alpi Carniche, che si apre colla gola del Cordévole. Erano già le ultime ore del giorno.

4. »Mi avevano narrato tante meraviglie di questa gola.... me l’avevano dipinta così incantevole.... e trovarmi lì a dover contendere di minuti col sole, ostinato a volersi coricare all’ora precisa che suole ogni anno ai 16 di settembre!...

»L’Esposizione industriale bellunese, una delle tante che divisero in quest’anno, e fors’anco sciuparono, le forze morali e intellettuali degl’Italiani, aveva attirato a Belluno un mondo di gente. L’Esposizione era interessante, sopra tutto sincera; ed io godei certamente dell’occasione di veder concentrate, in una bella mostra, le riprese di un distretto, ricco di prodotti naturali, e più ancora di attività e di genio artistico e industriale. Ma [p. 13 modifica]volevo essere ad Agordo la sera ad ogni costo, e non c’era nemmanco una rozza giubilata, che non fosse tornata in servizio attivo per quella occasione solenne. Quand’anco mi fossi deciso a passare la notte a Belluno, i pochi e meschini alberghi riboccavano talmente di forestieri, che bisognava rassegnarsi a prendere alloggio sotto l’azzurro padiglione del cielo.

»Cerca, ricerca, prega e supplica, finalmente eccoti un vetturale fossile.... fossile davvero, vi dico, il poveraccio! bianco di pelo, grinzuto, curvo sotto la soma degli anni; doveva averne tanti da farne due vite. E il cavallo? fossile anch’esso; chè a vederlo così scheletrito, sembrava proprio un di quegli anoploteri3 che il genio di Cuvier trasse alla luce dagli strati ove giacevano sepolti da tante migliaja d’anni.

»Vi risparmio la descrizione del calesse; e piuttosto vi monto con altri due compagni di sventura. Il curvo Automedonte4 si pone a cassetta, e il cavallo muta i primi passi con una certa voglia che quasi mi convince di giudizio temerario. Tranquillo e rassegnato, mi accovaccio adunque nel mio cantuccio, mi chiudo ben bene nel mio soprabito per difendermi dalla brezza della sera, e avanti! colla speranza che la velocità del cavallo mi permettesse di godere almeno le primizie degl’incanti che mi erano stati promessi. Ma sì!... Non eravamo ancora usciti di paese che la povera bestia mostrava di ricordarsi dei molti anni passati. Ben fu presto il cocchiere ad assestarle un buon colpo di frusta; ma appunto allora il percosso arrestossi di botto, quasi chiedesse ragione dell’ingiuria. — Come? dopo tanti anni di fedele servizio!... — Le bestie che non hanno ragione, l’hanno spesso più assai degli uomini; e questo era il caso. Dàgli, ridàgli, era tutt’uno. Dovemmo persuadere il vetturale di una cosa, di cui era al certo persuasissimo: che conveniva cioè lasciar andare il cavallo a suo modo. E infatti la bestia, come ci avesse intesi, riprese le sue mosse, e andava, andava come il fulmine, voglio dire a zig-zag (non vi venisse mai in mente che io voglia usare la similitudine nel senso che l’usan tutti). [p. 14 modifica]

5. »Il giorno si facea pallido, quindi bruno; e quando eravamo al momento di cominciare a deliziarci in quelle selvatiche bellezze, addio chi t’ha visto! era notte fatta. — Che prò adunque da quella gita? che ci vorrai descrivere o raccontare?... — Eppure, il credereste? Io non saprei ancora decidere se avrei goduto di più percorrendo quella gola di giorno. Era una bella notte, vedete: una notte cupa, senza lume di luna, ma serena. La lentezza del cavallo ci lasciava tutto l’agio di contemplare; ed era quello veramente il luogo e l’ora della contemplazione. La valle che si andava sempre più restringendo, disegnava una lista di cielo, tesa sulle cime dei monti a modo di nerissima tela, a lembi fantasticamente frastagliati da rupi così acute che parevano le aguglie del Duomo, e così bianche da crederle illuminate dalla luna. L’oscurissima zona era un trapunto di lucidissime stelle, tremule, luccicanti, come punti d’oro sulla gramaglia sventolante di una bandiera. La stella polare, quasi sempre in vista, pareva indicarci la via per entro la buja gola; le due Orse apparivano e sparivano alternamente, ora mostrandosi per le profonde scanalature delle gigantesche pareti della valle, ora celandosi dietro un gruppo di rupi dentate. Vedevasi attraversata obliquamente alla valle la Via Lattea, a guisa di una bianca sciarpa di finissimo velo, fluttuante fra il cielo e la terra. Se volgevo indietro lo sguardo, là in fondo, ove la valle confondeva le due sponde nelle fitte tenebre, scorgevo il gruppo delle Plejadi, la cui luce piove così dolce, così tranquilla5.

»La valle intanto si rendeva sempre più angusta, riducendosi a una vera gola, di cui la notte accresceva mirabilmente l’orrore. Si decantano da tutti le meraviglie della Via Mala6; e a ragione la Via Mala è la più meravigliosa delle gole alpine. Ma lasciatemi dire che, avendola percorsa più volte, io la trovo un pochino uniforme; per ciò anche un pochino monotona. La gola del Cordévole è ugualmente angusta, orrida e cupa; ma, tagliata a picco in seno a quelle dolomie di straordinaria bianchezza, sulle quali da tanti secoli si esercita con tanta efficacia l’azione multiforme dell’atmosfera, prende aspetti così varî e così bizzarri, e al tempo [p. 15 modifica]stesso è così fredda ed austera (quasi dicevo implacabile), che i suoi contorni si stampano indelebilmente nella fantasia. Per ricordarmi d’impressioni altrettanto forti e profonde, bisogna ch’io ritorni colla memoria a’ miei giorni più belli, agli anni delle impressioni prime e più sincere, quando, giovine e baldo, percorrevo la prima volta la Via Mala: o quando nella valle della Tamina cercavo le sorgenti termali di Pfäffers7, cacciate in fondo a quella gola, larga appena da sei a dodici metri, e camminavo per parecchi minuti sopra un ballatojo stretto e sdrucciolevole, col torrente sotto, a dodici metri d’altezza, che spaventosamente muggiva, e di sopra l’arco delle pareti, che riunendosi un tratto mi chiudevano proprio nel seno della montagna. Solo per entro a quegli abissi dell’Alpi Svizzere posso dire d’aver provato forse più viva, che in seno alla gola agordina, la sensazione potente di quella bellezza indefinibile, che non può esprimersi fuorchè accozzando insieme due parole, in apparenza tanto ripugnanti fra loro: il bello orrido. Quella gola era veramente orrida e bella del pari.

»Le rupi, onde son formate le sue irte pareti che si vanno sempre più accostando, si sarebbero scambiate per due eserciti di fantasmi giganti, avvolti in immensi lenzuoli cadenti. Ai loro fianchi, ai loro piedi, dappertutto intorno a loro, pallidi mostri, che mutavano forma ad ogni istante. Una tetra scena, tutta dipinta a robuste pennellate di chiaroscuro. D’un tratto.... ahimè! la valle si chiude.... — Dove siamo? Per dove si passa? Non si vede più nulla. — Ma il fiume mugge, sentendo più forte la stretta; la via si serra al fiume; la rupe si addossa alla via. Siamo in una di quelle fenditure alpine, che la parola non si presta a descrivere, perchè, la fantasia attonita è come sopraffatta da un sonno magnetico; l’occhio è stanco; l’animo spossato dal troppo sentire. Trovarsi a mezzanotte, con un fiume allato, che urla per entro ad una delle più orribili spaccature della crosta del globo, è cosa che si può sentire, ma non descrivere.

»Ah, eccoci fuori! La valle si allarga, e le sue sponde, sfumando nella tenebria, ci lasciano come nel vuoto. «Dove siamo?» «Quasi ad Agordo,» risponde il nostro vecchio conduttore. Ormai l’occhio non trova ove posarsi che sulla bianca striscia, segnata ancora dalla via sul bujo fondo, quasi una riga tracciata col gesso sul piano di una lavagna. Alcuni chiarori, alcuni fasci di luce, vibrati per mezzo alle tenebre, rivelano i forni, ove si lavorano i metalli che sono la ricchezza di quest’alpino recesso. [p. 16 modifica]

»Finalmente il calpestio secco e misurato del nostro ronzino echeggia ripercosso da silenziose mura. Siamo ad Agordo. È un’ora dopo mezzanotte. Abbiamo impiegato sei ore a percorrere un tratto di via, che di solito non dovrebbe richiederne più di tre; eppure non siamo nè stanchi, nè annojati. Bussiamo all’albergo, e vi siamo accolti colla più cortese ospitalità. Mezz’ora dopo ci ricomparivano nei sogni le visioni di quella notte fatata.

6. »Mi svegliai ad Agordo quella mattina come un uomo a cui si tolga d’un tratto la benda dopo averlo condotto per vie ignote in ignoto paese. Colla fantasia ancora abbujata dalla notturna tenebria e dalle paurose visioni di quella gola, che senso provai a trovarmi d’un tratto nel mezzo d’un bacino incantevole, con un sole che vi versava a torrenti i suoi raggi mattutini come una pioggia d’oro e di gemme!

»Il bacino di Agordo è uno de’ più stupendi dell’Alpi. Figuratevi d’essere in mezzo alla cerchia dentata d’una sterminata corona da re. Le montagne dolomitiche8, ritte intorno come gruppi di torri e di aguglie di candido marmo, ne formano i raggi, che s’innalzano tanto da perdersi nell’azzurro del cielo. La fascia della corona è tutta di boschi verdeggianti e fioriti. Il fondo, su cui essa posa, è coperto di campi. Sorge Agordo nel mezzo: un bellissimo borgo, una sorpresa in quelle selvatiche regioni, un paese alpino ove tutto spira libertà, intelligenza, benessere.

»A quella vista, lo confesso, dovetti rimpiangere il viaggio fatto al bujo per giungervi, e le perdute bellezze della luce così diverse dalle bellezze della notte. Quante scene sublimi, inutilmente distese dinanzi al mio sguardo accecato dalle tenebre! E come avrei voluto tornare indietro, e arrestarmi in seno a quelle valli, per deliziarmi di tante alpine bellezze a una a una! Ma non ci ebbi altro compenso che di contemplarne i disegni eseguiti dal mio amico prof. Allegri, che me ne fece copia. Giovedì venturo porterò il mio album. Vedrete che bei disegni! Fra gli altri il Pont-alt, ardita costruzione in legno, che s’incontra dopo le miniere in vicinanza di Agordo. Da questo ponte si prospetta una [p. 17 modifica]parte della vallata, ove siede il paese che mi fa ricordare con tanta compiacenza la giornata del 17 settembre. Il Pont-alt nelle vicinanze di Agordo.

7. »Ma il paese di Agordo non è soltanto meritevole d’esser veduto per le sue naturali bellezze. Esso è anche uno dei centri più attivi dell’industria mineraria nelle nostre Alpi. Infatti da molto tempo vi è attivamente coltivato un ammasso di rame piritoso o pirile cuprea (minerale nato dalla combinazione di ferro, rame e zolfo). Se ne estrae contemporaneamente il rame e lo zolfo. Nello stesso bacino di Agordo, a circa 16 chilom. dal paese, esiste lo stabilimento montanistico di Vallalta, collocato all’estremità S-O della valle di Mis, sul confine attuale fra il Trentino e il Regno d’Italia. Vi si tratta un minerale assai più [p. 18 modifica]prezioso, cioè il solfuro di mercurio o cinabro, che nasce dalla combinazione del mercurio collo zolfo. Bisognò vincere mille difficoltà perchè quest’industria vi prosperasse. Dal 1856 al 1870 si ebbe un prodotto di 324,856 chilogr. di mercurio o argento vivo. Il 1870 ne diede 34,776. Quelle miniere ricordano un fatto che può darvi un’idea delle difficoltà che s’incontrano in tali intraprese, e della virtuosa ma troppo ignorata milizia che trovasi impiegata in tali guerre contro le terribili forze della natura. Il fatto è narrato dal signor G. A. De-Manzoni, attuale affittuario delle miniere, a cui l’industria mineraria di Agordo deve moltissimo, e a cui ebbi il piacere di stringere la mano appena uscito la mattina in sulla piazza.

»La notte dal 30 al 31 ottobre 1860 il lavoro dei minatori procedeva sotterra coll’usata regolarità. Da alcuni giorni piogge torrenziali imperversavano su Vallalta; impetuose le acque precipitavano per ogni dove, lungo le chine dei monti, a ingrossare i torrenti, che, travolgendo insieme alle onde turbinose masse enormi di rocce e alberi schiantati, minacciavano distruzione a ogni ostacolo lungo il loro corso sfrenato. Opportuni provvedimenti venivano presi in quell’ora a difesa dei pericolanti edifizi; tutto presagiva all’aperto una notte d’inferno, ma nessuna cagione d’inquietudine pel sotterraneo. D’improvviso un rombo sinistro nella miniera percosse gli orecchi degli operai: una grossa colonna d’acqua da un mulino del piano superiore irrompeva a tutta forza pei pozzi e per le gallerie, filtrando rapidamente attraverso gli scavi riempiti. Dato il segnale d’allarme, i minatori di fazione uscivano a frotte dal sotterraneo, aggruppandosi tutti sul piazzale della galleria O’ Conor. Di minuto in minuto nuovi lavoratori, delle più vicine abitazioni, interrotto il riposo, accorrevano volonterosi, tacitamente offerenti l’opera loro nel momento del pericolo. In mezzo alle tenebre di quella notte d’orrore, rotte solo quà e là dalla pallida e vacillante fiammella di qualche lampada da minatore che sfidava il soffio del vento, sotto gli scrosci d’una pioggia diluviale, sul margine d’un torrente straripato e vorticoso, i soldati dell’abisso, raccolti in solenne silenzio ma imperterriti, attendevano imminente l’ora dell’esercizio del maggiore dei doveri, il dovere del sagrificio. Il Dirigente, afferrata una lanterna, si precipitava intanto nel sotterraneo, e con corsa affannosa ne eseguiva, in breve ora, una generale ricognizione. Le acque, irruenti senza tregua, bagnate le aride terre dei piani superiori, cominciavano ad esercitare una pressione enorme sugli [p. 19 modifica]scavi sottoposti, i sostegni dei quali, poggiando alla lor volta per la massima parte sopra un materiale di riempimento, che la violenza dell’acqua disgrega e converte in fango, minacciavano sfasciarsi. Già i puntelli crepitavano; già il suolo appariva ondeggiare; già il sordo rumore dei distacchi incipienti annunciava inevitabile il crollo del sotterraneo. Il Dirigente è ricomparso sul piazzale, ed ai minatori angosciati che l’accerchiavano, ha gridato: «Chi ha fiducia mi segua!» e il piazzale rimase deserto in un baleno, e dalla galleria O’ Conor vi giungeva solo l’eco dei passi concitati dei valorosi. Erano da circa un centinajo. La penna diventa impotente a descrivere la scena che l’interno della miniera presentava in quell’ora. Il lavoro accanito, mediante il quale poche decine d’uomini, coll’acqua alle ginocchia, sfilati lungo un’angusta galleria, sopra suolo mal fermo, coll’ajuto di sempre nuove armature, pretendono sostenere la montagna che tende a schiacciarli; i colpi incessanti di accetta; le grida dei capi; lo scoppio dei legni sfracellati dalla immane pressione; il lamento dell’aria cacciata dai pozzi rigurgitanti d’acqua; l’ansia degli operai; tutto questo come riprodurre fedelmente a parole? Ben trentasei ore durò senza posa la pugna feroce, durante la quale accadde l’abbassamento e lo spostamento di tutta quella parte del sotterraneo che abbracciava i maggiori lavori di produzione: ma fu impedita la rovina generale della miniera. Dei minatori nessun morto; uno solo leggermente ferito. Se abbiamo voluto narrare un po’ distesamente tale avvenimento, egli è perchè non restino ignorati fatti e persone meritevoli d’elogio; perchè si apprenda che esiste una milizia sotterranea nell’Italia, non inferiore per sublime abnegazione a quella di altri paesi; e per derivarne la conseguenza che l’aver commesso atti di valore non è privilegio soltanto di chi ha il petto fregiato di medaglia9».

8. «Imaginatevi quale fosse il mio piacere nel trovarmi in siti così belli, in mezzo a gente così vivace, così generosa, che spende così degnamente la vita, mentre v’hanno tanti, qui e dappertutto, che poltriscono nell’ozio e si consumano nel vizio. In quel giorno poi Agordo aveva un’aria più vivace, più animata del solito. Forse perchè domenica? No: alla consueta letizia dei giorni festivi, che è pure così schietta, così tranquilla e [p. 20 modifica]gustosa nei paesi di montagna, si aggiungeva una letizia straordinaria. Qualcosa di nuovo ci doveva essere al certo: tutti i visi lo dicevano chiaro. Era infatti il giorno assegnato ad una festa che si celebrava per la prima volta in quel recesso dell’Alpi. I montanari accorrevano, tra contenti e meravigliati, ad osservare gli ospiti, venuti da lontane contrade a celebrarla».

«Dunque una sagra.... Ci sarà qualche celebre santuario»: osservò Giannina.

«Nè santuario, nè sagra.... Che balordo! Sta a vedere che dopo tante parole per dirvi come vi andai, non vi ho detto ancora perchè vi andassi. Ero accorso in Agordo anch’io a celebrare la festa del Club alpino. Non ispalancate gli occhi a quel modo; so bene d’aver profferito una parola nuova per voi, e che puzza di barbarismo insoffribile a mille miglia; ma non mi fate per carità quegli occhiacci, chè se vi vedesse l’apostolo Budden, ne rimarrebbe tutto scandolezzato».

«L’apostolo Budden?...» domandarono piuttosto col viso che colla bocca gli uditori.

«Un momento. Dobbiamo sapere che sia il Club alpino prima di conoscerne l’apostolo. Ma, se entro in questo argomento, prevedo che non ne uscirò così tosto; e l’ora è già tarda, e per giunta mi sento un po’ rauco. Se avrete gusto di sentire, ripiglierò un’altra sera».

«Quando ci siam tutti, n’è vero?» disse l’Annetta.

«Certamente.... giovedì».


Note

  1. .Quel gran tratto della catena delle Alpi che, sotto il nome di Alpi Retiche, difende a settentrione la Lombardia e il Tirolo, quando arriva alle sorgenti della Drava si divide in due rami, che formano appunto i due defluvî di quella gran valle. Il primo dei due rami si dirige verso nord-est, fra la Stiria e l’Austria, sotto il nome di Alpi noriche. Il secondo, piegandosi prima verso scirocco, poi verso mezzodì, forma un semicerchio che ricinge da tramontana il Veneto orientale. È questo secondo ramo che porta il nome di Alpi Carniche; e il suo defluvio meridionale bagna il Bellunese e il Friuli.
    Il Bellunese comprende la valle di Belluno, l’Agordino o Valle del Cordévole, o Zoldiano o Valle di Zoldo e del torrente Maé, il Cadore coi torrenti Boite, Miais e Austet, il Comelico o Valle della Piave.
    Il Friuli comprende: la Carnia colle valli del Tagliamento, del Disocchiere, di Sauris, del torrente Lumiei, ecc.; il Canale del Ferro o valle del Fella, il Basso Friuli, e il Friuli orientale colle valli dell’Isonzo e del Vipacco.
    Da Belluno per andare ad Agordo, si lascia la riva destra della Piave, ove siede Belluno; si trova a nord-ovest la riva sinistra del Cordévole, e si entra nella valle angustissima di questo fiume impetuoso, tra il gruppo del Monte Pelf a ponente, e il Monte Pizzon a levante. Quella è la valle o piuttosto la gola, che qui si descrive. Essa è tagliata nella dolomia, roccia calcarea, composta di carbonato di calce e carbonato di magnesia in proporzioni poco disuguali. Le dolomie compongono molte delle principali montagne delle nostre Prealpi, ma si fanno così predominanti nelle Alpi Carniche, che oggi queste si distinguono (almeno per un vasto tratto) col nome di Alpi dolomitiche. Nel Veneto e nel Tirolo le dolomie sono candide e cristalline come lo zuccaro in pani.
  2. Queste conversazioni si suppongono tenute durante l’inverno 1871-1872.
  3. Anoploterio (in latino Anoplotherium) è nome derivato dal greco, e vuol dire animale privo di armi. Cuvìer applicò questo nome a un genere di animali, che si potevano dire inermi, perchè i loro denti canini, che di consueto son l’armi offensive delle fiere, sono simili agli incisivi, Gli anoploteri si assomigliavano alquanto al camello. Gli scheletri di questi animali, ora scomparsi dalla faccia della terra, si scoprono nei gessi dei dintorni di Parigi.
  4. Nome diventato proverbiale per indicare scherzosamente un cocchiere. Ci venne dall’Iliade di Omero, ov’è così chiamato l’eroe che guidava la biga di Achille.
  5. Plejadi (dal greco pleo = io navigo), gruppo di stelle, settentrionale e brillante, il cui apparire indicava agli antichi greco-romani il tempo favorevole alla navigazione — Le due Orse sono le due costellazioni più vicine al polo artico. — La Via Lattea.... chi non l’ha osservata?
  6. Così si chiama l’angusta gola per la quale corre il Reno profondamente incassato tra Andeer e Reichenbau, sulla via dallo Spluga a Coira.
  7. Paese nelle vicinanze di Coira, sulla via da Coira al lago di Wallenstadt.
  8. La dolomia, ond’è formata la catena dolomitica del Tirolo e della Carnia, è della stessa natura e della stessa età di quella che forma le cime principali delle Prealpi lombarde, come le due Grigne e il Resegone che si vedono dal bastione di Porta Venezia a Milano. Ma la prima è una dolomia più cristallina, più ribelle alla vegetazione; perciò si conserva spaventosamente sterile, e la marmorea bianchezza delle sue montagne, sbrecciate e smantellate dal tempo, contrasta colla verde e rigogliosa vegetazione che riveste la base delle rupi, ove la roccia arenacea e schistosa è più atta a convertirsi in fertile terriccio.
  9. Note sullo stabilimento montanistico di Vallalta, per G. A. De-Manzoni. Venezia, 1871.